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domenica 18 aprile 2021

La Gran Bretagna rischia di ripetere i suoi errori del dopoguerra

Un ottimo articolo apparso su "The Spectator", autore Matt Ridley, che non parla di brexit ma della opportunità britannica di scelte liberali e liberiste a fronte della cosi detta crisi pandemica.

Per far questo ricorda le disastrose scelte britanniche del dopoguerra, scelte ispirate da ideologie stataliste e socialiste, confrontandole con le corrispondenti decisioni di una Germania che ritrovava la via liberale.

Ne ho fatto una traduzione sicuramente non all'altezza dell'articolo, ma che spero darà occasione ad una maggiore diffusione del testo.

Carlo Annoni 

Alla ricerca di saggezza su come un governo invadente sia riluttante a mollare la presa dopo un'emergenza, mi sono imbattuto in un filmato del 1948 di Harold Wilson quando era presidente del Board of Trade (ministero del Commercio). È un assaggio della complessità da tempo dimenticata e da capogiro di un sistema di razionamento. "Abbiamo tolto del tutto alcuni vestiti dalla razione," si vanta, fingendosi un generoso liberatore. “Dalle scarpe ai costumi da bagno, dalle cerate alle cinture per il corpo e agli impermeabili per bambini. Poi abbiamo ridotto i punti su cose come cappotti da donna e indumenti di lana in generale e ... sugli abiti da uomo ".


Questo vi ricorda qualcosa? Un giorno di novembre, George Eustice, il segretario per l'ambiente, pronunciò le parole immortali che un uovo alla scozzese "probabilmente conterebbe come un pasto sostanzioso se ci fosse il servizio al tavolo", solo per dare modo a Michael Gove di dire il giorno dopo che "un paio di uova alla scozzese sono un antipasto, per quanto mi riguarda ", correggendosi in seguito per ammettere che "un uovo scozzese è un pasto sostanzioso". Questo è il tipo di intricata discesa nei dettagli che la pianificazione centrale causa sempre. L'abbiamo visto ancora e ancora nell'ultimo anno. Cos'è il viaggio essenziale? È un esercizio da picnic? Puoi entrare in un pub per raggiungere il suo spazio esterno? Chiedilo all'uomo del ministero.

Tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il governo stava ancora microgestendo le decisioni dei consumatori. Incredibilmente, ci vollero nove anni di pace prima che il razionamento cessasse del tutto. Il pane fu razionato per la prima volta nel 1946, le patate nel 1947. Solo allora iniziò la lenta liberalizzazione della spesa. La farina fu declassata nel 1948, i vestiti nel 1949, la benzina, il sapone, la frutta secca, i biscotti al cioccolato, la melassa, lo sciroppo, le gelatine e la carne macinata nel 1950, il tè nel 1952, i dolci nel 1953, i formaggi e la carne nel 1954. Il mercato nero nel frattempo prosperò.

Il riluttante ritiro dello Stato dal razionamento (e la persistenza ancora più lunga dei controlli sui prezzi, dei salari, dei controlli sui cambi e della pianificazione centrale in generale) fece infuriare almeno alcuni del popolo britannico, sebbene gran parte della rabbia fosse, come ora, diretta alle frodi. piuttosto che alle regole. Le commedie di Ealing dell'epoca sono soffuse di sogni di liberazione e ribellione contro gli ispettori tirannici che affliggevano la vita delle persone. In Passport to Pimlico (1949), un micro-stato autonomo abolisce il razionamento e la folla del pub strappa i libretti delle annate di fronte a un poliziotto furioso.

La saggezza convenzionale vuole che il lento ritorno della Gran Bretagna alla normalità fosse inevitabile, data la necessità del paese di guadagnare valuta estera per pagare le importazioni. Ma attraverso il Mare del Nord è stato tentato un esperimento molto diverso. Ludwig Erhard era l'effettivo ministro delle finanze della Germania occidentale sotto il controllo militare alleato. Attento seguace di Friedrich Hayek, credeva che la pianificazione centralizzata fosse un disastro ("più vi sono piani statali, più difficile diventa la pianificazione per l'individuo") e che il razionamento fosse la causa, non l'effetto, delle carenze. Erhard annunciò, un mese dopo il complicato discorso di Wilson, che stava abolendo quasi tutti i razionamenti e i controlli sui prezzi e sui salari con effetto immediato. Introdusse una nuova valuta lo stesso giorno. Disse ai tedeschi: "Ora il tuo unico buono alimentare è il Marco".

Erhard scelse una domenica, 20 giugno, per fare il suo annuncio, sapendo che i suoi comandanti militari sarebbero stati fuori servizio. Gli inglesi, gli americani e i francesi erano sbalorditi. Un colonnello statunitense si lamentò che [Erhard] non aveva il diritto di modificare un sistema di controllo dei prezzi imposto dagli alleati. "Non ho rilassato il razionamento; L'ho abolito!" fu la risposta. Il generale Lucius Clay, il comandante degli Stati Uniti, gli telefonò per dirgli: "Herr Erhard, i miei consiglieri mi hanno detto che stai commettendo un terribile errore". Erhard: "I miei consiglieri mi dicono la stessa cosa."

Il risultato si sentì subito. Il giorno successivo i negozi erano pieni di cibo e vestiti, poiché i rivenditori si resero conto che ci sarebbe stata un'ampia domanda e che ora valeva la pena guadagnare. La produzione economica iniziò a salire, l'assenteismo precipitò e le carenze presto svanirono. Nasce il miracolo economico tedesco. Solamente, Erhard insistette che non era un miracolo. "Quello che è successo in Germania", scrisse in seguito, "è tutt'altro che un miracolo. È il risultato degli sforzi onesti di un intero popolo a cui, nel rispetto dei principi di libertà, è stata data l'opportunità di utilizzare l'iniziativa personale e l'energia umana ”.

Nel frattempo, al di là del Mare del Nord, sotto la pianificazione butskelliana, la Gran Bretagna ignorò la lezione. "Un portavoce del governo britannico ha affermato che non c'era alcuna prospettiva di porre fine al razionamento in Gran Bretagna per alcuni anni", si legge in un articolo di giornale in reazione alla decisione tedesca. Mentre la Gran Bretagna si agitava sotto controlli miserabili, la sua performance economica rimase sempre più indietro, con i suoi "padroni" compiacenti che si rifiutavano di riconoscere l'ovvia lezione dalla Germania: che la libertà funziona.

Stiamo facendo di nuovo lo stesso ora, come uno dei principali paesi in Europa più controllati socialmente, ma quello con il tasso di mortalità più basso. Rischiamo di permettere ai funzionari di aggrapparsi troppo a lungo alle loro amate leve di controllo e di sprecare il vantaggio ottenuto dalla nostra task force sui vaccini. Se una nuova variante del virus minaccia una terza ondata, è molto improbabile che il blocco permanente la fermi comunque. E se la nuova variante è resistente ai vaccini, i passaporti vaccinali saranno inutili.

Quando le cose sono controllate dai burocrati, ci vuole un vero sforzo di immaginazione per immaginare che non lo siano. Partiamo dal presupposto che in assenza di direzione, deve derivare il caos, dimenticando le lezioni di economia. "Come viene nutrita Parigi?" chiese Frédéric Bastiat nel 1845, e rispose: non attraverso gli sforzi di commissari alimentari brillanti e onniscienti - in questo modo è inevitabile il disastro - ma attraverso un mercato che abbina ciecamente domanda e offerta e quindi evoca il genio collettivo di milioni di persone comuni.

Con poche eccezioni, la tribù di scienziati accademici e medici ospedalieri che ora controlla il nostro governo non ha letteralmente mai sentito tali argomenti. La loro visione del mondo è dall'alto verso il basso: presumono che le cose accadano perché qualcuno ordina che le cose accadano. L'ordine spontaneo è per loro un concetto estraneo. Questo è sorprendente, dato che è l'essenza dell'evoluzione, ma quando si tratta di società sono schiavi delle teorie del designo intelligente. Sono creazionisti politici.

Quindi, naturalmente, gli scienziati esiteranno a raccomandare la liberazione. I politici devono tenerlo a mente. Il motto di Erhard, disse un economista successivo, avrebbe potuto essere "Non sederti lì, annulla qualcosa". Quest'anno, per una felice coincidenza, il 20 giugno è anche domenica ed è il giorno prima della data in cui ci era stata promessa l'abolizione di tutte le restrizioni, prima che iniziasse il passo indietro.

La lezione di Erhard è che il modo migliore per introdurre le riforme è veloce. Il modo migliore per sbarazzarsi delle regole è tutto in una volta. Il momento migliore per liberalizzare un'economia è molto prima di quanto gli esperti pensano che dovresti. Chi realizzerà una nuova versione di "Passport to Pimlico" , con una folla allegra in un pub che strappa i passaporti dei vaccini di fronte a un poliziotto prepotente?

SCRITTO DA
Matt Ridley


sabato 27 marzo 2021

Il destino dei Liberali?

Ho letto l'articolo di Alessandro De Nicola del 20/3/2021 su Repubblica, articolo in cui si propone un assemblement dei liberali italiani, di quelli che una volta si chiamavano i laici, di europeisti e quanto simile, e questo facendo occasione dell'iniziativa di un Comitato volto alla stesura di un "programma per l'Italia" presieduto dal Prof.Cottarelli.

Alcune considerazioni.

venerdì 10 aprile 2020

LIBERALI E EUROPA. LA CENTRALITÀ DEL MERCATO UNICO

di Carlo Annoni

pubblicato su la rivista online Strade il 10 aprile 2020


mercoledì 18 settembre 2019

Da: "la ribellione delle masse" di Ortega y Gasset

Lo Stato contemporaneo è il prodotto più visibile e notorio della civiltà. Ed è molto interessante, e rivelatore, capacitarsi dell'atteggiamento che dinanzi ad esso assume l'uomo-massa. Questi lo vede, l'ammira, sa che sta lì, mentre gli assicura la vita; però non ha coscienza che è una creazione umana creata da alcuni uomini e sostenuta da determinate virtù e presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potranno svanire. D'altra parte, l'uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e, al pari di quello, sente se stesso anonimo - volgo - e crede che lo Stato sia una cosa propria.  Immaginiamo che intervenga nella vita pubblica d'un paese una qualsiasi difficoltà, conflitto o problema: l'uomo-massa tenderà ad esigere che immediatamente se lo assuma lo Stato e che s'incarichi direttamente di risolverlo con i suoi giganteschi ed incontrastabili mezzi.  Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l'interventismo dello Stato, l'assorbimento di ogni spontaneità sociale da parte dello Stato; vale a dire, l'annullamento della spontaneità storica che, in definitiva, sostiene, nutre, sollecita il destino degli uomini. Allorché la massa avverte qualche sventura, o semplicemente qualche forte aspirazione, è una grande tentazione per lei questa permanente e sicura possibilità di ottenere tutto - senza sforzo, lotta, dubbio, né rischio - senza fare altro che premere la molla e far funzionare la portentosa macchina.  La massa si dice: «Lo stato sono io», il che è un perfetto errore.  Lo Stato è la massa soltanto nel senso che può dirsi di due uomini che sono identici perché nessuno dei due si chiama Giovanni. Stato contemporaneo e massa coincidono solo nell'essere anonimi. Però il caso vuole che l'uomo-massa creda effettivamente ch'esso è lo Stato, e tenderà ogni volta di più a farlo funzionare con qualsiasi pretesto, a schiacciare per suo mezzo ogni minoranza creativa che possa perturbarlo - che possa perturbarlo in qualsiasi ordine: nella politica, nelle idee, nell'industria.  Il risultato di questa tendenza sarà fatale. La spontaneità sociale rimarrà violentata di volta in volta dall'intervento dello Stato; nessuna nuova semente potrà fruttificare. La società dovrà vivere "per" lo Stato; l'uomo "per" la macchina del Governo. E poiché alla fin fine non è che una macchina, la cui esistenza e il cui proseguimento dipendono dalla vitalità circostante che è capace di mantenerla, lo Stato, dopo aver succhiato alla società il tetano, rimarrà tisico, scheletrico, ucciso da quella morte ferruginosa della macchina, assai più mortale di quella dell'organismo umano.  Questo fu l'infelice destino della civiltà antica. Non c'è dubbio che lo Stato imperiale creato dai Giulii (19) e dai Claudii fu una macchina mirabile, incomparabilmente superiore come «artificio» al vecchio Stato repubblicano delle famiglie patrizie. Però, curiosa coincidenza, appena esso arrivò al suo pieno sviluppo, ecco che comincia a decadere il corpo sociale. Già ai tempi degli Antonini (secolo secondo) grava con una «antivitale» supremazia sulla società. E questa comincia ad essere resa schiava, a non poter vivere più che "al servizio dello Stato".  La vita intera si burocratizza. Che accade? La burocratizzazione della vita provoca la sua assoluta deficienza - in tutti gli ordini. La ricchezza diminuisce e le donne partoriscono poco. Allora lo Stato, per sovvenire alle proprie necessità, forza di più la burocratizzazione dell'esistenza umana. Questa burocratizzazione alla seconda potenza equivale alla militarizzazione della società. L'urgenza maggiore dello Stato è il suo apparato bellico, il suo esercito. Lo Stato è, anzitutto, produttore di sicurezza (la sicurezza da cui nasce l'uomo-massa, non si dimentichi). Per questo è anzitutto, esercito. I Severi, di origine africana, militarizzarono il mondo. Fatica vana!  La miseria aumenta, le matrici si fanno ogni giorno più sterili. Mancano perfino i soldati. Dopo i Severi, l'esercito deve essere reclutato fra gli stranieri.  Si avverta, dunque, qual è il processo paradossale e tragico dello statismo? La società, volendo vivere meglio, crea, come utensile, lo Stato. Dopo lo Stato si sovrappone, e la società deve cominciare a vivere per lo Stato (A 42).  Ma, in sostanza, lo Stato si compone ancora degli uomini di quella società. Ben presto non è sufficiente sostenere lo Stato con questi e bisogna chiamare gli stranieri: dapprima, dalmati; poi germanici. Gli stranieri diventano padroni dello Stato e coloro che restano della società, del popolo iniziale, devono vivere come schiavi di quelli, sotto gente con cui non hanno nulla a che vedere. A siffatte conseguenze porta l'interventismo dello Stato: il popolo si converte in carne e pasta che alimentano il mero «artificio» o macchina che è lo Stato. Lo scheletro consuma carne che gli sta intorno. La intravatura esterna diventa proprietario e inquilino della casa. Quando si sa questo, fa un po' spavento sentire che Mussolini predica con esemplare petulanza, come una prodigiosa scoperta fatta ora in Italia, la formula: "Tutto per lo Stato; nulla fuori per lo Stato; nulla contro lo Stato".  Basterebbe questo per scoprire nel fascismo un tipico movimento di uomini-massa. Mussolini si trovò con uno Stato mirabilmente costruito - non da lui, ma precisamente dalle forze e idee ch'egli combatte: dalla democrazia liberale. Egli si limita ad usarlo con incontinenza e, senza permettermi adesso di giudicare i particolari della sua opera, è indiscutibile che i risultati ottenuti fino al presente non possono paragonarsi a quelli raggiunti nella funzione politica e amministrativa dello Stato liberale.  Se qualcosa ha ottenuto, è di così poca entità, tanto poco visibile e priva di effettivo amore, che difficilmente può compensare il cumulo di poteri anormali che gli consentono d'impiegare quella macchina in forme estreme.  Lo statismo è la forma superiore che assumono la violenza e l'azione diretta costituita a norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono da se stesse. 

giovedì 20 luglio 2017

L'idea vincente del liberalismo classico e l'errore fatale del libertarismo

Qualche giorno fa, alcuni amici libertari hanno proposto e fatto circolare un vecchio articolo di J.H. De Soto dal titolo "L’idea vincente del libertarismo e l’errore fatale del liberalismo classico"
Forse per ingenuità, ma per questa volta mi azzardo ad affrontare, da dilettante della scienza della politica, un accademico titolato e le sue tesi.


giovedì 3 dicembre 2015

Esiste una politica oltre lo Stato?

Organizzato dalla neo-costituita associazione "Vespero", Giovedì 3 dicembre alle ore 21 presso l'auditorium dell'Istituto Santa Eufemia di via San Marco 37 a Piacenza, il prof.Marco Bassani (co-autore del saggio "Dalla Polis allo Stato" ) affronterà il seguente tema: Esiste una politica oltre lo Stato?

mercoledì 1 gennaio 2014

Via il Prefetto! (di Luigi Einaudi)

Riporto questo bellissimo testo di Einaudi recuperato dal sito http://www.polyarchy.org
Ringraziando ancora gli editori del sito per il materiale che viene messo in linea, consiglio a tutti la lettura di questo articolo del grande Luigi Einaudi.



Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il « prefetto » sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l'amministrazione pubblica?

In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili.

Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle « libertà » locali, territoriali e professionali. Spesso « le libertà » municipali e regionali erano « privilegi » di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l'opera.

I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'ltalia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.

Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in ltalia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico.

Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare.

L'auto-governo continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli.

Così pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse.

La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?

Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico.

Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è : non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno.

A nessuno viene in mente del ministero, l' idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui ufficio principale è essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capidivisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri.

Il malvezzo di non muovere la « pratica » senza una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. È antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate.

I fascisti concessero per scherno l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre.

Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, o sopruso, privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere « farsi » le elezioni contro lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.

Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è : Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde.

Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L'unità del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si fa in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere una costituente.

Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma così : col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da una parte con il distretto o collegio o vicinanza, unità più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall'altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc. ; sempre, alla pari del comune, il collegio e la regione dovranno amministrarsi da sé, formarsi i propri governanti elettivi, liberi  di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire.

Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell'altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità nazionale. L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia « economica » , ossia arbitraria.

L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, è pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica.

Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unità è salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Così possederemo finalmente uno stato vero e vivente.

(« L'Italia e il secondo risorgimento », supplemento alla Gazzetta ticinese, 17 Iuglio 1944, a firma Junius.)

giovedì 6 giugno 2013

La mia teoria liberale della lotta di classe - (1998) Luigi De Marchi

Ho ricevuto in questi giorni da un giovane ricercatore dell’Università di Bologna, Guglielmo Piombini, un bel saggio intitolato " Verso una teoria liberale della lotta di classe" che sarà pubblicato in uno dei prossimi numeri della rivista Federalismo e Società diretta da Mauro Marabini. Il saggio appoggia e rilancia una tesi proposta con insistenza nei miei scritti dell’ultimo decennio: e cioè che nella maggior parte di questo secolo la vera lotta di classe del nostro tempo è stata e resta quella tra i lavoratori del privato (imprenditori, dipendenti e autonomi) e la burocrazia parassitaria che tutti li depreda, ormai, di 2/3 del loro reddito.

giovedì 23 maggio 2013

Secondo il tremontismo le colpe sono sempre degli altri. Ma è proprio così?

Italia vittima innocente della finanza impazzita e delle idee liberali secondo il massimo ideologo del populismo italiano

sabato 2 marzo 2013

Pagine da "la Rivoluzione Liberale" di Piero Gobetti (1924)

Una Italia tristemente attuale nelle lontane parole di Piero Gobetti.
Tra una borghesia d'accatto e la mancanza di un serio partito conservatore si situa il terreno su cui attecchisce la peggiore demagogia.

lunedì 11 febbraio 2013

Frédéric Bastiat - Lo Stato (1848)


Lo Stato

è la grande finzione
attraverso la quale tutti
cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri.

Questo articolo è stato pubblicato nel Journal des Débats il 25 settembre 1848

venerdì 8 febbraio 2013

Intellettuali versus Realtà (di Davide Fiammenghi)

Intellettuali vs. realtà. Breve notarella ispirata dalla recente epurazione dell'area liberale del PD e dal prossimo, prevedibile fiasco elettorale di 'Fare per Fermare il declino'. 

martedì 20 novembre 2012

A proposito della teoria sulla lotta di classe in ambito liberale


Mario Saccone prende spunto dall'articolo di Sheldon Richman su "La vera teoria della lotta di classe", per analizzare i punti di convergenza e divergenza tra il pensiero di Marx (non così monolitico e uniforme nel tempo, come ci spiega Saccone) e il filone del pensiero liberale che fa proprio e centrale il concetto di lotta tra le classi.

venerdì 16 novembre 2012

La vera teoria della lotta di classe (di Sheldon Richman)


"..il potere di imposizione produce necessariamente due classi: coloro che creano ricchezza e coloro che la estorcono con la predazione. I produttori di ricchezza, naturalmente, desiderano poterne disporre e utilizzarla per la realizzazione dei propri personalissimi scopi. Coloro che vogliono impossessarsene cercano invece di escogitare le modalità più subdole per sottrarre le risorse senza troppo sconvolgere i loro creatori. Un modo è quello di insegnare alla gente che loro sono lo Stato e che pagare sempre più in tasse garantirà loro sempre più benefici.
...
Finché lo Stato si occuperà di redistribuire la ricchezza, il conflitto di classe sarà inevitabile e persisterà. Il concetto di classe, in questo senso, è un importante strumento di analisi politica. È tempo che i sostenitori della libertà individuale e del libero mercato lo rivendichino con forza dai marxisti."

lunedì 20 agosto 2012

Dal liberalismo parolaio al liberalismo di lotta

di Carlo Annoni e Mario Saccone

Avendo alle spalle almeno un ventennio di liberalismo declamato e sempre puramente parolaio quando non strumentale a piccoli fini personali, Carlo Annoni e Mario Saccone ricordano agli estensori dei recenti appelli a marchio "liberale" che solo un liberalismo fondato nell'analisi della società e radicato nei conflitti sociali può trasformare gli astratti principi di libertà in realtà.
E' un liberalismo di lotta quello che abbiamo bisogno per ridare prospettive al paese, e basarle su solide fondamenta.


mercoledì 7 marzo 2012

L'analisi di classe secondo Marx... e secondo la scuola austriaca

di Hans-Hermann Hoppe
Journal of libertarian Studies, vol. IX, n°2, autunno 1990. Ripreso come capitolo 4 di The Economics and Ethics of Private Property (Boston : Kluwer Academic Publishers, 1993).

martedì 7 febbraio 2012

MIGLIO, IL FEDERALISTA LIBERTARIO

Il passaggio dal decisionismo alla Schmitt al federalismo libertario: così il pensiero di Miglio ha incontrato la modernità
di CARLO LOTTIERI
9 agosto 2011
Qualcuno certo sarà rimasto sorpreso, nel corso degli anni Novanta, di fronte a talune prese di posizione del professor Gianfranco Miglio.