Lo Stato contemporaneo è il prodotto più visibile e notorio della civiltà. Ed è molto interessante, e rivelatore, capacitarsi dell'atteggiamento che dinanzi ad esso assume l'uomo-massa. Questi lo vede, l'ammira, sa che sta lì, mentre gli assicura la vita; però non ha coscienza che è una creazione umana creata da alcuni uomini e sostenuta da determinate virtù e presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potranno svanire. D'altra parte, l'uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e, al pari di quello, sente se stesso anonimo - volgo - e crede che lo Stato sia una cosa propria. Immaginiamo che intervenga nella vita pubblica d'un paese una qualsiasi difficoltà, conflitto o problema: l'uomo-massa tenderà ad esigere che immediatamente se lo assuma lo Stato e che s'incarichi direttamente di risolverlo con i suoi giganteschi ed incontrastabili mezzi. Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l'interventismo dello Stato, l'assorbimento di ogni spontaneità sociale da parte dello Stato; vale a dire, l'annullamento della spontaneità storica che, in definitiva, sostiene, nutre, sollecita il destino degli uomini. Allorché la massa avverte qualche sventura, o semplicemente qualche forte aspirazione, è una grande tentazione per lei questa permanente e sicura possibilità di ottenere tutto - senza sforzo, lotta, dubbio, né rischio - senza fare altro che premere la molla e far funzionare la portentosa macchina. La massa si dice: «Lo stato sono io», il che è un perfetto errore. Lo Stato è la massa soltanto nel senso che può dirsi di due uomini che sono identici perché nessuno dei due si chiama Giovanni. Stato contemporaneo e massa coincidono solo nell'essere anonimi. Però il caso vuole che l'uomo-massa creda effettivamente ch'esso è lo Stato, e tenderà ogni volta di più a farlo funzionare con qualsiasi pretesto, a schiacciare per suo mezzo ogni minoranza creativa che possa perturbarlo - che possa perturbarlo in qualsiasi ordine: nella politica, nelle idee, nell'industria. Il risultato di questa tendenza sarà fatale. La spontaneità sociale rimarrà violentata di volta in volta dall'intervento dello Stato; nessuna nuova semente potrà fruttificare. La società dovrà vivere "per" lo Stato; l'uomo "per" la macchina del Governo. E poiché alla fin fine non è che una macchina, la cui esistenza e il cui proseguimento dipendono dalla vitalità circostante che è capace di mantenerla, lo Stato, dopo aver succhiato alla società il tetano, rimarrà tisico, scheletrico, ucciso da quella morte ferruginosa della macchina, assai più mortale di quella dell'organismo umano. Questo fu l'infelice destino della civiltà antica. Non c'è dubbio che lo Stato imperiale creato dai Giulii (19) e dai Claudii fu una macchina mirabile, incomparabilmente superiore come «artificio» al vecchio Stato repubblicano delle famiglie patrizie. Però, curiosa coincidenza, appena esso arrivò al suo pieno sviluppo, ecco che comincia a decadere il corpo sociale. Già ai tempi degli Antonini (secolo secondo) grava con una «antivitale» supremazia sulla società. E questa comincia ad essere resa schiava, a non poter vivere più che "al servizio dello Stato". La vita intera si burocratizza. Che accade? La burocratizzazione della vita provoca la sua assoluta deficienza - in tutti gli ordini. La ricchezza diminuisce e le donne partoriscono poco. Allora lo Stato, per sovvenire alle proprie necessità, forza di più la burocratizzazione dell'esistenza umana. Questa burocratizzazione alla seconda potenza equivale alla militarizzazione della società. L'urgenza maggiore dello Stato è il suo apparato bellico, il suo esercito. Lo Stato è, anzitutto, produttore di sicurezza (la sicurezza da cui nasce l'uomo-massa, non si dimentichi). Per questo è anzitutto, esercito. I Severi, di origine africana, militarizzarono il mondo. Fatica vana! La miseria aumenta, le matrici si fanno ogni giorno più sterili. Mancano perfino i soldati. Dopo i Severi, l'esercito deve essere reclutato fra gli stranieri. Si avverta, dunque, qual è il processo paradossale e tragico dello statismo? La società, volendo vivere meglio, crea, come utensile, lo Stato. Dopo lo Stato si sovrappone, e la società deve cominciare a vivere per lo Stato (A 42). Ma, in sostanza, lo Stato si compone ancora degli uomini di quella società. Ben presto non è sufficiente sostenere lo Stato con questi e bisogna chiamare gli stranieri: dapprima, dalmati; poi germanici. Gli stranieri diventano padroni dello Stato e coloro che restano della società, del popolo iniziale, devono vivere come schiavi di quelli, sotto gente con cui non hanno nulla a che vedere. A siffatte conseguenze porta l'interventismo dello Stato: il popolo si converte in carne e pasta che alimentano il mero «artificio» o macchina che è lo Stato. Lo scheletro consuma carne che gli sta intorno. La intravatura esterna diventa proprietario e inquilino della casa. Quando si sa questo, fa un po' spavento sentire che Mussolini predica con esemplare petulanza, come una prodigiosa scoperta fatta ora in Italia, la formula: "Tutto per lo Stato; nulla fuori per lo Stato; nulla contro lo Stato". Basterebbe questo per scoprire nel fascismo un tipico movimento di uomini-massa. Mussolini si trovò con uno Stato mirabilmente costruito - non da lui, ma precisamente dalle forze e idee ch'egli combatte: dalla democrazia liberale. Egli si limita ad usarlo con incontinenza e, senza permettermi adesso di giudicare i particolari della sua opera, è indiscutibile che i risultati ottenuti fino al presente non possono paragonarsi a quelli raggiunti nella funzione politica e amministrativa dello Stato liberale. Se qualcosa ha ottenuto, è di così poca entità, tanto poco visibile e priva di effettivo amore, che difficilmente può compensare il cumulo di poteri anormali che gli consentono d'impiegare quella macchina in forme estreme. Lo statismo è la forma superiore che assumono la violenza e l'azione diretta costituita a norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono da se stesse.
Nessun commento:
Posta un commento