Da Gaetano Salvemini - Scritti sul Risorgimento (Vol.2) pag. 384-388
II federalismo
Nella crisi di assestamento, che la Lombardia e l’Italia intera attraversarono dopo l’armistizio di Villafranca, gli attriti del 1848 fra Cattaneo e i moderati rinacquero asprissimi. "Negli impieghi regi, e dovunque è questa gente, io sono impossibile” rispondeva Cattaneo a un amico, il quale lo invitava a collaborare al nuovo regime (SPE, II, 174). I moderati lo ricambiavano a misura di carbone, gli negavano gli arretrati di membro dell’Istituto lombardo, sequestratigli da Radetzky; facevano rifiutare da Cavour la sua nomina a segretario dell’Istituto; tentavano negargli anche la qualità di cittadino italiano, perché aveva ottenuto dalla Svizzera la cittadinanza d’onore; gli contestavano il godimento della pensione; lo assalivano sui loro giornali come amico dell’Austria e nemico del Piemonte e dell’Italia.
Per le elezioni politiche del marzo 1860, essendo stata lanciata l’idea patto di una sua candidatura, le polemiche si esasperarono. Egli dapprima rifiutò di concedere il suo nome ai comitati elettorali. Via facendo le invettive degli avversari e le insistenze degli amici lo piegarono; consentì tre giorni prima della votazione, per telegrafo, senza programma. Fu eletto in tre collegi. Ma non poteva, per le necessità della vita, abbandonare l’ufficio di insegnante a Lugano. Gli ripugnava il giuramento di fedeltà alla monarchia. Eppoi, se aveva in sommo grado la passione politica, cioè l’interesse vivace per i problemi di pubblica utilità, era totalmente privo della passione parlamentare, cioè del bisogno di affrontare i problemi solo in quanto essi possano servire alle fortune politiche di un gruppo o di un individuo; e non provava nessun gusto per le schermaglie inevitabili in un’assemblea di deputati: “Quanto al Parlamento, io non posso lusingarmi nemmen lontanamente di aver la forza d’affrontare quasi solo, e affatto inesperto, un’assemblea dove sono a centinaia gli uomini, se non tutti lealmente persuasi, certo irremovibilmente legati in un pensiero, ch’è contrario al mio (SPE, II, 256); il mio Parlamento io me lo tengo meglio in casa” (SPE, II, 240). Preferiva servire il paese, trattando per iscritto le questioni, che via via si presentavano, e cercando di orientare su di esse la opinione pubblica.
Perciò nel gennaio del 1860 riprese la pubblicazione del Politecnico, con lo stesso programma dell’antico: “adombrare in agevoli forme i più nuovi pensamenti della scienza, e porgere pratico lume ai promotori della patria coltura e prosperità” (SPE, II, 188), “Ragionare di scienza e d’arte non è sviare le menti dal supremo pensiero della salvezza e dell’onore della patria. La legislazione è scienza; la milizia è scienza; la navigazione è scienza. Alla luce della fisica e della chimica si vanno trasformando tutte le arti onde si nutrono i popoli e s’ingrossano i nervi della guerra. L’agricoltura, vetusta madre della nostra nazione, sta per tradursi tutta in calcolo scientifico. Scienza è forza” (SPE, II, 178). “Noi non possiamo rinchiuderci a lungo in un solo argomento. Noi qui non dobbiamo scrivere a fondo una o un’altra opera: noi per quanto valgano le nostre forze, vogliamo agitare tutta la scienza, svegliare tutti gli interessi, gettare a destra e a sinistra i nostri studi per suscitare e incalzare gli studi altrui, per incitare e incalzare i pensieri della nazione, le sue speranze, i voleri, gli ardimenti” (OEI, II, 336).
I “pensieri dominanti” in questa nuova attività di pubblicista erano due: il federalismo amministrativo e la nazione armata.
Il federalismo è l’ordinamento politico, a cui ricorrono i popoli che vogliono nello stesso tempo assicurare la indipendenza politica di ciascuno contro ogni ingerenza straniera, e mantenere nei rapporti reciproci la eguaglianza dei diritti e le originalità locali.
L’accentramento amministrativo, in un grande Stato, non può funzionare senza che si formi una numerosa burocrazia: e questa sarà portata per necessità di cose a costituirsi in casta dominante. Il paese che si sarà affidato incauto ad una burocrazia accentrata, credendola necessaria alla unità nazionale, si illuderà di essere libero, se avrà accanto alla burocrazia un parlamento elettivo. Ma un controllo efficace dei deputati sull’opera giornaliera di una burocrazia numerosa non sarà possibile mai. Inoltre i deputati di un parlamento unico non possono avere la competenza necessaria per risolvere problemi di amministrazione, di rapporti economici, di contratti agrari, di diritto familiare, ecc., i quali variano profondamente dall’una all’altra regione: la difficoltà è massima in un paese cosi vario come l’Italia: che cosa può capire un piemontese o un lombardo di ciò che può essere necessario a sistemare difficoltà speciali della Sardegna e della Sicilia? e dove troverà un parlamento unico il tempo per discutere tutta la catasta degli affari che lo accentramento amministrativo e legislativo sottrae ai consigli locali per incanalarli verso la capitale, sede unica di tutta la sapienza e di ogni autorità? Nella pratica, le questioni saranno decise, non dal parlamento, ma dalla burocrazia. E il paese sarà lo schiavo degli impiegati governativi, e di quei gruppi di politicanti, che riesciranno a impadronirsi del governo centrale col favore della burocrazia.
Il governo federale, invece, a tipo svizzero o americano, affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche d’interesse nazionale, e cosi riduce al minimo la burocrazia della capitale, e permette su di essa un reale controllo del parlamento centrale; conserva alle amministrazioni locali, più vicine agli interessati, tutta la direzione della vita locale, e permette cosi che tutti gli affari locali siano definiti direttamente dagli organi locali elettivi; e anche quelle pratiche, di cui è necessario far delega ai funzionari di carriera, rimangono sempre sotto la sorveglianza immediata degli interessati.
Per questa via, si evita il sorgere in tutto il paese di una burocrazia incontrollabile e quindi irresponsabile, e si concilia la libertà degli individui e delle amministrazioni locali, con la necessità di garantire per mezzo della unità nazionale, la libertà di tutti contro ogni prevaricazione straniera.
Ed è anche questa la via per evitare, fra le diverse parti della nazione, i contrasti indecorosi e pericolosi del dare ed avere: perché nelle assemblee le maggioranze sono sollecite solo di se stesse; e in un’unica assemblea nazionale che invada il campo degl’interessi locali, avverrà sempre che gl’interessi locali degli uni saranno sacrificati agl’interessi locali degli altri nella grande concorrenza che tutti istituiranno intorno al bilancio dello Stato. Dove invece il governo centrale riduce al minimo le sue funzioni ivi non si hanno sopraffazioni e non sorgono discordie.
“La mia formula - scrive a Francesco Crispi il 12 luglio 1860, - è Stati Uniti, se volete Regni Uniti: l'idra di molti capi, che fa però una bestia sola. I siciliani potrebbero fare un gran beneficio all’Italia, dando all’annessione il vero senso della parola, che non è assorbimento. Congresso comune per le cose comuni e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha la casa sua le cognate non fanno liti. Fate subito, prima di cadere in balia di un Parlamento generale, che crederà fare alla Sicilia una carità, occupandosi di essa tre o quattro sedute all’anno. Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia” (SPE, II, 263-264).
L’idea di “decentrare l’amministrazione,"cioè di trasferire ad uffici governativi periferici le funzioni degli uffici governativi centrali, non trovava in Cattaneo nessun favore: perché tutto si riduceva ad affidare sempre la pubblica amministrazione ad una burocrazia nominata e pagata dalla capitale salvo a discutere poi se questa burocrazia dovesse comandare il paese stando nella capitale o dislocandosi nelle provincie in forma di satrapie. Quel che occorreva, era impedire il formarsi della casta burocratica, creando il maggior numero possibile di autonomie legislative ed elettive locali, e trasferendo al parlamento nazionale i soli affari di vero interesse comune.
La nazione armata
Con l'idea federalista fa sistema unico quella della nazione armata. L’esercito stanziale a tipo francese e piemontese, quale era prima del 1870, non coscriveva che una parte minima della popolazione atta alle armi, e la sottoponeva a lunghe ferme sotto una gerarchia di militari di professione costituiti in casta chiusa e avvezzi a considerarsi come superiori ed opposti al restante corpo civile della nazione. Siffatto ordinamento, osservava Cattaneo, ottimo per imporre la volontà dei governanti a un gregge di sudditi disarmati, riusciva inadeguato come strumento di difesa nazionale: perché lasciava inerti, in caso di guerra, enormi riserve di forze umane, e consumava durante la pace negli stipendi degli ufficiali e nel mantenimento dei soldati quelle risorse economiche, di cui sarebbe stato necessario far tesoro durante la guerra.
All'esercito stanziale, Cattaneo contrapponeva la nazione armata, quale si trovava ordinata nella Svizzera: tutti i cittadini obbligati al servizio militare, ma non allontanati dalle loro case e dalle occupazioni consuete, non chiusi per lunghi mesi nelle caserme a esaurirsi in esercizi meccanici inutili alla guerra, o a poltrire in ozio improduttivo; bensì educati al servizio militare fino dai primi anni, nelle scuole di tutti i gradi, e tenuti ad addestrarsi alle armi in esercitazioni festive continuate, e chiamati alle manovre per pochi giorni, a periodi fissi. Anche gli ufficiali, salvo i piccoli nuclei permanenti, che fossero necessari a tenere in efficienza e a perfezionare i servizi specializzati, avrebbero dovuto apprendere nelle scuole medie e universitarie le discipline militari opportune per ciascuna specialità, e vivere delle loro professioni civili, salvo ad esercitarsi nelle stesse condizioni delle masse non graduate: dovevano avere i loro "gradi" nell'esercito, ma non godere "stipendi" militari stabili. "Militi tutti, soldato nessuno" (SPE, I, 245). "Sovratutto é mestieri atteggiare tutto il corpo della nazione ad un modo di difesa il quale, armando il massimo di forze gratuite e il minimo di constantemente assoldate, tanto meno ne prodighi negli intervalli della pace, quanto piú ne possa accumulare nei terribili istanti della guerra. E' questione economica che si traduce in questione militare, la quale da ultimo si risolve in un problema di diritto pubblico e di morale. Poiché tutti gli interessi, i pensieri e gli affetti d'ogni singolo cittadino, d'ogni singolo stato, e dell'universa nazione, all'istante del conflitto divengono elasticità, impeto e potenza" (SPE, II, 198).
Messo su queste basi, il problema dell'ordinamento militare si trasformava in problema di ordinamenti scolastici e di libertà interne. Soprattutto di libertà interne: perché solamente a un popolo, che si sentisse padrone di sé e non soggetto a una piccola consorteria di governanti, si poteva consegnare le armi senza pericolo che le volgesse contro chi gliele aveva date; solamente da un popolo, per cui la politica estera non fosse un mistero impenetrabile e che vedesse chiaramente nella guerra la sola via della propria salvezza contro un'aggressione ingiusta, solo da quel popolo si poteva aspettare la consapevolezza, la concordia, lo slancio, senza cui non esiste né spirito di resistenza né accettazione del sacrificio.
E il problema delle libertà interne era problema di libertà amministrative, cioè di federalismo. Un regime burocratico non può perpetuarsi senza che esista una casta militare accanto alla burocrazia civile. Il gruppo, il quale arriva a impadronirsi del governo centrale, mentre opprime e sfrutta giorno per giorno il paese con la macchina silenziosa della burocrazia, ha bisogno di una organizzazione armata estranea al paese, per domare con la forza gli scoppi di malcontento extra legale. L'accentramento amministrativo esige l'esercito stanziale. Ordinamento federale e nazione armata sono lo stesso problema di libertà nazionale, risolto dal punto di vista civile e dal punto di vista militare. "Una nazione che mette quattrocentomila gladiatori ad arbitrio d'uno o di pochi, sarà sempre serva degli altrui voleri. E le stesse forme della libertà diverranno occasioni di corruttela. La Francia, si chiami repubblica o regno, nulla monta, è composta di ottantasei monarchie che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac; regni quattro anni o venti; debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo; poco importa; é sempre l'uomo che ha il telegrafo e quattrocentomila schiavi armati" (SPE, I, 275).
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