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"Ma se anche gli intellettuali governassero il mondo, le cose non andrebbero affatto meglio, perché, secondo me, il mondo è ingovernabile in quanto è preso in questo fenomeno, in questo processo di sviluppo e noi non possiamo che stare a guardare. Noi "assistiamo" alla storia del mondo come si assiste ad uno spettacolo della televisione. "Comprendere", invece, è prevedere."
Intervista televisiva a Fernand Braudel, di Renato Parascandolo (1983)
Traduzione di Francesco Fanelli
[RP]. La storia, per coloro che l'hanno studiata a scuola, è un elenco noioso di re, dittatori, battaglie, armistizi. Per molti altri, invece, la storia è soltanto la trama dei film e dei telefilm ambientati nel passato. Rivolgendosi a costoro, a un pubblico medio, come definirebbe la sua concezione della storia?
[FB]. È molto difficile, perché il pubblico
della televisione non è costituito da persone che ascoltano e che
pensano tutte nello stesso modo e che si aspettano una storia che sia
sempre la stessa. C'è chi ha inclinazione per la storia
tradizionale, con i suoi grandi personaggi e i suoi avvenimenti:
questo è un tipo di storia che sta riconquistando il pubblico
francese - non so se è lo stesso vale per il pubblico italiano, ma è
probabile. C'è chi desidera vedere storie appariscenti, brillanti,
drammatiche, romantiche. C'è invece chi vuole sapere come si
svolgono i fatti "in profondità", al di là di quella
storia tradizionale, imperniata sui grandi eventi e personaggi, che
in Francia abbiamo definito événementielle. La storia
événementielle bussa alla nostra porta tutti i giorni attraverso la
radio e la televisione. I giornalisti non ne sono responsabili anche
se ne sono complici: cercano ciò che vi è di straordinario nella
vita del mondo e ci presentano questa vita straordinaria come
l'insieme della storia che si sta compiendo sotto ai nostri occhi,
mentre vi sono molte cose, molti fenomeni "in profondità"
che sono infinitamente più importanti. Per fare un esempio brutale:
supponiamo che dalla notte, dall'angoscia della Germania, dalle
ragioni profonde della Germania prima del 1939 non fosse uscito un
uomo come Hitler: ebbene, io ho la convinzione - e lo penso a
malincuore, con tristezza - che la Seconda Guerra Mondiale si sarebbe
verificata lo stesso. Infatti, al di fuori degli avvenimenti, al di
fuori delle singole persone e dei grandi personaggi, c'erano forze
che stavano preparando la tragedia. Nella vita degli uomini, infatti,
hanno luogo mutamenti molto rapidi, ma anche oscillazioni piuttosto
lente, come quelle delle onde e delle maree; inoltre, ancora al di
sotto, vi è una certa permanenza, una certa continuità. Se ci
poniamo nell'ottica della lunga durata per eccellenza, la lunga
durata delle culture, della civiltà, vediamo ad esempio come
l'eredità dell'Impero Romano, la latinità, intrecciata con
l'eredità greca, attraversi tutta la storia d'Europa e arrivi quasi
ai nostri giorni (questa è la ragione per la quale la reazione
contro il latino, particolarmente viva in Francia, mi procura una
grande pena, anche se so che il mio è un atteggiamento
anacronistico). Il fatto straordinario è che un'ampia serie di
sentimenti, di modi di pensare, di modi di scrivere, di prudenze, di
esitazioni, provengono dall'alba dei tempi. Un altro esempio
stupefacente: come tutti sanno, l'Impero Romano era delimitato dal
Reno e dal Danubio; nel XVI secolo, cioè quattordici secoli dopo la
caduta dell'Impero Romano, la cristianità si spacca in due - i
protestanti al Nord e i cattolici al Sud - e si ripropone nuovamente
la grande linea di demarcazione costituita dal Reno e dal Danubio.
Questo è un fenomeno di lunghissima durata. Ho studiato per anni e
anni la civiltà del Mediterraneo tentando di rappresentarne il
paesaggio, le realtà geografiche determinate, per fare un esempio,
dal gioco delle stagioni. Non si trova un documento che dica in quale
settimana del marzo 1543 i primi fiori appaiono nei campi intorno a
Roma. Tutti i documenti sui movimenti stagionali di cui si dispone
consentono, al massimo, di delineare la vita del Mediterraneo come
sempre uguale a se stessa. Si potrebbe descrivere la risalita delle
greggi verso i pascoli estivi, la loro discesa verso le pianure calde
dell'inverno: alla fine avremo comunque un fenomeno ripetitivo. Il
ciclo si ripete ed è sempre lo stesso, con dei piccoli scarti, delle
piccolissime differenze. Ciò è altrettanto vero nella storia delle
società. Tutte le società, sia in Europa che nel resto del mondo,
sono società gerarchizzate. L'ordinamento della società può
cambiare, le persone che profittano e che dominano possono essere
differenti le une dalle altre, ma vi è sempre una gerarchia: la
gerarchia sociale è quindi un fenomeno di lunga durata.
[RP]. Alla storia cronachistica, alla storia
dei re e delle battaglie, Lei contrappone la ricostruzione dei
fenomeni di lunga durata, i quali riportano molti mutamenti di
superficie a profonde linee di continuità che attraversano la nostra
civiltà. Eppure, quest'idea della lunga durata sembra avere
l'effetto di espellere l'uomo, l'individuo, dalla storia stessa, che
appare così collocata in una dimensione che lo trascende in maniera
assoluta.
[FB]. Keynes, l'economista inglese, diceva:
"nella lunga durata saremo tutti morti". Questo non è
affatto vero: si tratta di un fraintendimento della lunga durata. La
lunga durata è una realtà nella vita sociale dell'Italia, della
Francia o di qualsiasi altra regione del mondo, una realtà che
impregna il presente. Potremmo dire che io sono "immerso"
nella lunga durata e, anche se non voglio esserne trascinato, la
subisco, la sopporto. In queste condizioni vi sono degli avvenimenti
in sintonia con la lunga durata e che, proprio perché hanno dalla
loro parte la lunga durata, hanno successo. Pensiamo alla Rivoluzione
francese: si tratta di un avvenimento le cui ripercussioni si fanno
sentire fino all'epoca attuale, tanto è vero che il governo francese
si è preoccupato di celebrarne il secondo centenario nel 1989.
Questo è un esempio della persistenza di certi avvenimenti. Le
illusioni sono "trasportate" dalla lunga durata insieme
alle idee più sane: vi sono dei fantasmi che risalgono a molto tempo
fa. Dal punto di vista religioso, per esempio, si pensi al posto
considerevole che la Chiesa cattolica ha ancora in Italia, in Francia
e altrove: la sua influenza dura da secoli. Il Cristianesimo non
sarebbe nulla se non avesse avuto dalla sua la lunga durata. La mia
teoria è in contraddizione con la visione della storia di Marx. Non
sono gli uomini a fare la storia: è piuttosto vero l'inverso, è la
storia che fa gli uomini. Ciò può essere considerato
demoralizzante, ma è inutile cullarsi nelle illusioni, fare la
politica dello struzzo. Bisogna affrontare la vita sociale così come
essa si presenta nella realtà. Io vedo la necessità che costituisce
la lunga durata come una sorta di inondazione. È come se la Senna o
il Tevere uscissero dagli argini e invadessero i terreni circostanti:
è allora evidente che se la necessità prende molto spazio, la
libertà degli uomini si restringe. Personalmente, non difendo una
teoria che assegni all'uomo desideroso di libertà un posto
privilegiato. Temo purtroppo che la libertà sia minore di quanto non
si creda.
[RP]. I fenomeni di lunga durata, così come
Lei ce li ha descritti, sembrano definire in maniera estremamente
ristretta gli argini all'interno dei quali l'uomo può agire e
attuare le sue scelte. Lei non crede dunque che siano gli uomini a
fare la storia?
[FB]. È evidente che dallo spettacolo del
mondo come ce lo presentano quotidianamente i giornalisti, la radio e
la televisione, la storia esce in qualche modo "umanizzata":
c'è il grande personaggio, c'è il ministro: sono persone come noi.
Allora si ha l'impressione di poter partecipare: si è a favore o
contro, si ha la sensazione di lavorare, in un modo o nell'altro,
allo svolgimento della storia. Ma questa è nove volte su dieci una
terribile illusione. Il mondo che ci presentano di giorno in giorno è
uno spettacolo, uno spettacolo differente dal teatro perché a teatro
si sa che la rappresentazione non è reale mentre nella vita
quotidiana si sa che tutto è terribilmente vero. Gli uomini credono
di fare la storia, ma non è affatto vero. Noi siamo responsabili e
non-responsabili. I fenomeni che hanno scatenato la Seconda Guerra
Mondiale o i fenomeni che oggi fortunatamante impediscono che ne
scoppi una terza, non dipendono né da me né da lei. Noi possiamo al
massimo esprimere il desiderio che essa sia sempre scongiurata.
Se c'è del vero in quanto affermava
Hegel, secondo cui la politica è il destino del nostro tempo,
occorre aggiungere che ciò vale anche per l'economia, la sociologia,
l'antropologia, tutte quelle realtà che le scienze umane cercano di
cogliere. Certo, la maggior parte degli uomini di governo non è
formata da economisti, sociologi, antropologi. Si tratta piuttosto di
gente formata dalla politica e di un livello culturale molto
inferiore al livello medio dei veri intellettuali. Ma se anche gli
intellettuali governassero il mondo, le cose non andrebbero affatto
meglio, perché, secondo me, il mondo è ingovernabile in quanto è
preso in questo fenomeno, in questo processo di sviluppo e noi non
possiamo che stare a guardare. Noi "assistiamo" alla storia
del mondo come si assiste ad uno spettacolo della televisione.
"Comprendere", invece, è prevedere. È la ragione profonda
di tutte le scienze: non c'è scienza se non c'è previsione. Le
previsioni che si possono fare oggi su ciò che accadrà domani sono
tali che se si avesse la ventura di vivere venti anni di più ci si
accorgerebbe che due volte su dieci esse erano errate.
Sfortunatamente o fortunatamente, di fronte al futuro la storia è
come tutte le altre scienze dell'uomo: essa è un po' nel buio. Ma il
fatto che non si possa prevedere esattamente l'avvenire è una
consolazione, una libertà. Io mi sento libero nella misura in cui
non so quale sarà l'avvenire del mondo: se fossi sicuro di essere
condannato a una qualsiasi cosa, smetterei di sentirmi libero. Ciò
non significa che la storiografia non abbia un ruolo. Il suo compito
non è quello di spiegare tutto. La storia deve enucleare una
problematica, deve porre domande, individuare problemi: le soluzioni
non bisogna chiederle a noi storici. Non bisogna credere che la
nostra disciplina rassomigli alla fisica nucleare; e, comunque,
neanche la fisica nucleare prevede tutto ciò che accadrà in un
esperimento. Noi storici non prevediamo tutto, per fortuna!
[RP]. La maniera di considerare la storia che
Lei ci sta descrivendo ha l'effetto di porre i singoli avvenimenti in
una prospettiva, in una visuale estremamente ampia. Forse allora,
ponendosi a tale proficua distanza dagli accadimenti storici del
nostro tempo, è possibile comprendere quali siano gli aspetti più
problematici della nostra epoca, quale sia la contraddizione
principale che segna il nostro mondo e il nostro destino.
[FB]. Non c'è che l'imbarazzo della scelta.
Non c'è una contraddizione principale, ma vi sono delle
contraddizioni principali, c'è tutta una famiglia di contraddizioni.
Innanzitutto, direi che c'è una contraddizione fra lo sviluppo
generale delle scienze e la mancata trasformazione psicologica degli
uomini, che restano talvolta, nei loro atti, vicini alla crudeltà,
alla malvagità primordiale. Basti pensare che, ancora oggi, nel
1983, in un mondo come il nostro ci sono campi di concentramento, di
lavoro forzato. Ci sono popoli di antica civilizzazione che teniamo
in pugno mentre affermiamo che la colonizzazione è finita: si tratta
di contraddizioni incredibili. Mi sembra inoltre pazzesco che si
debbano vedere cose mostruose, come le carestie del Terzo Mondo, che
somigliano a quelle del Medio Evo, mentre è ormai possibile produrre
tutto ciò che si vuole dal punto di vista alimentare. Un'altra
contraddizione è che ci si prepari a una guerra che evidentemente
coinvolgerà tutto il mondo e che al tempo stesso vi sia un mondo
spensierato. Non tutte le contraddizioni, però, sono sgradevoli:
come ad esempio quella dovuta al fatto che ci siano tutti i mezzi per
fare la guerra e che pure non la si faccia. Ancora a proposito delle
grandi contraddizioni che muovono la storia, una volta mi è stato
chiesto se io ritengo che la lotta di classe rappresenti, come
credeva Marx, il motore della storia. La mia risposta è che non cè
un motore della storia del mondo. Ci sono tanti motori, tante forze.
Tuttavia ci si può domandare se la lotta di classe non sia eterna.
Essa scaturisce dall'esistenza di una gerarchia sociale. Jean Paul
Sartre sognava una società senza dislivelli, cioè l'eguaglianza di
tutti. Io, che sono uno storico, non ho mai incontrato una società
simile, anche se mi farebbe molto piacere, sarebbe una scoperta
meravigliosa! Ma non esiste una società egualitaria. In ogni società
c'è una minoranza che ha nelle sue mani il potere, i privilegi, le
belle donne, il denaro, le automobili: in tutti i paesi del mondo le
cose vanno così. La lotta di classe esiste da sempre. Se quelli che,
nella società, stanno in alto vengono cacciati, accade generalmente
che altri vengono a prendere il loro posto nel Palazzo: i piani
superiori non sono mai vuoti! E anche quelli inferiori, per fortuna!
Se non ci fosse più nessuno in basso, la situazione sarebbe
drammatica! Diversa è la questione che concerne il mercato.
L'economista Karl Polanyi, per esempio, è dell'opinione che il
mercato sia una creazione relativamente recente. Io credo, però, che
egli si inganni riguardo al fatto che esso sia recente. Il mercato
non è necessariamente capitalista. Il mercato è la vita normale
della società di oggi, è la vita trasparente, come dicono gli
economisti tedeschi, mentre il capitalismo non è trasparente e,
inoltre, è un gradino più su. Tutti abbiamo ugualmente accesso al
mercato: quando siamo in un negozio discutiamo sul prezzo, siamo a
nostro agio. Ma quando siamo in una banca per ottenere un prestito o
per pagare, ci troviamo in un altro sistema, che generalmente non è
trasparente, che è completamente differente. Io non credo, come Karl
Polanyi o, perlomeno, come i giovani che hanno seguito il suo
pensiero, che la gerarchia sociale e il mercato capitalistico siano
formazioni relativamente recenti. Credo che il mercato sia una
formazione molto antica. Da quando le società hanno raggiunto un
certo grado di complessità, non hanno potuto vivere senza darsi un
ordine, una gerarchia, con scambi, con una divisione del lavoro e con
un mercato. Non so se sia meglio o peggio così: gli uomini,
comunque, non possono vivere chiusi in se stessi.
[RP]. Nel suo libro Civiltà e imperi del
Mediterraneo nell'età di Filippo II Lei parla di economia-mondo.
Cosa si intende con questo termine?
[FB]. Il significato di quest'espressione è
abbastanza semplice: l'economia-mondo è l'economia di una parte del
pianeta. Un tempo, ad esempio nel XVI secolo, il Mediterraneo era una
economia-mondo, l'Impero era una economia-mondo. Cè differenza fra
l'economia-mondo, che è un frammento, e l'economia mondiale che è,
invece, una totalità. La situazione attuale si può riassumere così:
l'economia-mondo capitalistica, del mondo libero - come si dice in
maniera più elegante - l'economia-mondo imperniata su New York sta
diventando l'economia mondiale. Questo processo, però, fa sorgere
dei problemi: ci si domanda, ad esempio, se l'Unione Sovietica
entrerà veramente in pieno nella nuova economia mondiale; se la
Cina, che già vi si è incamminata, continuerà su questa via.
Occorre tener presente che i paesi socialisti e la Cina entrano
nell'economia mondiale in una posizione inferiore dal punto di vista
della tecnica, degli scambi, dell'alimentazione. Questo è un
problema fondamentale: come si sa, infatti, l'URSS riesce a
sopravvivere solo con importazioni massicce di cereali. La Cina sta
entrando nella economia-mondo, che diventerà l'economia mondiale: ma
ciò significa entrare nella danza macabra. Per entrare si paga:
bisogna rispettare le regole di un gioco a colpi di bastone! A mio
avviso l'economia non può non essere capitalistica. Il primo
problema è se l'economia-mondo occidentale, capitalistica, riuscirà
a conquistare tutto il pianeta come è accaduto nel XIX secolo. Il
secondo problema è se il centro dell'economia-mondo, dell'economia
capitalista, che oggi è New York, non si stia spostando in direzione
del golfo del Messico, o meglio, in direzione del Pacifico, di San
Francisco o di Los Angeles. Il problema è, insomma, se il primato
del capitalismo, che è il primato dell'Atlantico, non diverrà
domani, con la Corea del Sud, con Singapore, con il Giappone, con la
Costa occidentale degli Stati Uniti, il primato dell'economia del
Pacifico. Chi avrà la peggio saremo noi: è meglio avere il centro
del mondo a New York che a San Francisco: New York è più vicina!
Una volta, quando il centro del mondo era a Londra, per la Francia
era molto comodo: non eravamo molto distanti dal "sole". Il
"sole" dell'economia oggi per noi si sta allontanando del
tutto. Da questo punto di vista, l'Europa certamente non sarà la
potenza dominante dell'avvenire. Per riportare il centro del mondo in
Europa ci vorrebbe un'intesa fra gli europei, un'intesa che non
esiste affatto, visto che litighiamo in continuazione sul vino
italiano o sull'agnello inglese. Sono dispute meschine, non siamo
capaci di creare un mondo con una difesa delle frontiere, con una
politica comune, con una moneta comune. L'economia-mondo che si sta
realizzando è invece una forma di imperialismo. Supponga che
l'economia capitalista riesca ad aprirsi le porte della Cina: si
tratterebbe della colonizzazione della Cina. Si è abbandonato il
Terzo Mondo a se stesso e adesso lo si riannette sul piano economico.
Il Terzo Mondo non è più indipendente oggi di quanto non lo fosse
ieri; la sua dipendenza ha soltanto cambiato forma: la supremazia
economica è molto insidiosa. L'Italia o la Francia, non ci si deve
illudere, non sono affatto padrone della loro vita economica.
[RP]. Il contributo più innovatore che Lei
ha dato agli studi storici è certamente il tentativo di interpretare
i fenomeni di lunga durata: essi ci permettono di leggere il presente
alla luce di una tradizione secolare, con la quale l'epoca attuale
presenta elementi di rotture e al tempo stesso di profonda
continuità. Muovendo da questa visione, qual è, a Suo avviso,
l'oggetto proprio dello studio della storia?
[FB]. Si potrebbe dire: la storia studia
l'uomo. È una definizione perfetta; tuttavia, la storia da sola non
è capace di studiare l'uomo. La storia non è in grado di fornire
una conoscenza dell'uomo, se non a condizione di annettersi le varie
scienze umane. Solo facendosi economista, sociologo, demografo,
geografo, antropologo, psicologo, solo a questa condizione lo storico
diventa capace di studiare l'uomo, può cioè coglierlo nella "lunga
durata", nelle permanenze, nelle ripetizioni. Solo a quel punto,
volgendosi verso il tempo presente, egli vede ciò che esso ha in
comune con quanto lo ha preceduto, e ciò che, invece, crea di nuovo.
Se preferisce, potremmo dire che la storia del tempo presente è
l'incontro di una tradizione, di un "movimento antico", con
tutte le incrinature, le rotture del presente. Se non si è storici,
non ci si rende conto che il passato è sempre presente nella vita
attuale, è un passato "abusivo". Gli antenati, i padri dei
padri, sono sempre là a divorare la nostra vita. Il passato rivive
con noi, rivive a nostre spese e noi non usciamo da questa palude, da
quest'acqua, da questa inondazione, se non con uno sforzo
continuamente rinnovato. Daltra parte, la storia è dominata dal
tempo presente: è una dialettica fra il tempo presente e il tempo
passato. Io cerco nel passato alla luce di ciò che sento, di ciò in
cui credo, di ciò che amo. Dunque, c'è un costante cambiamento
della storia, scienza del passato, non foss'altro che per l'incidenza
continua, ininterrotta e conflittuale del presente. Inoltre non è
possibile affidare semplicemente ai sociologi, agli economisti e agli
altri lo studio del presente perché nel tempo presente si trova una
massa enorme di realtà che appartengono a un altro tempo. Se non si
è capaci di sentire il peso di questa "eredità del passato"
non si capirà mai niente del tempo presente. Se l'Europa non è
capace di realizzarsi, è a causa del suo passato.
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