Mario Saccone prende spunto dall'articolo di Sheldon Richman su "La vera teoria della lotta di classe", per analizzare i punti di convergenza e divergenza tra il pensiero di Marx (non così monolitico e uniforme nel tempo, come ci spiega Saccone) e il filone del pensiero liberale che fa proprio e centrale il concetto di lotta tra le classi.
L'articolo è molto interessante e si
presta bene ad un riesame della opera di Marx. Io partirei dal
concetto di classe che è quello che ricolloca Marx nel settore dei
classici del pensiero liberale. Affermazione paradossale, perché è
proprio il concetto di classe che nel passato ha causato le più
accese contrapposizioni con il Marxismo. Ma è qui il punto. Marx non
è il marxismo così come i suoi oppositori liberali anticlassisti
non erano poi così liberali. Il fatto è che l'opposizione
tradizionale tra comunisti e liberali anticlassisti non era la
contrapposizione tra Marx e il liberalismo, ma tra due concezioni
politiche diverse dalle originali a cui pretendevano di ispirarsi.
Recuperato a ragione dal pensiero
liberale il concetto di classe, Marx si riscopre come un pensatore
liberale, anche se particolare ed un po eretico. Il pensiero
economico di Marx, che peraltro in Marx non è il punto di forza, ma
strumento operativo per la messa a punto di quello che è il concetto
portante della sua analisi storica e della sua teoria delle cause e
delle forme dell'evoluzione economica e sociale (in sintesi delle
Forme di Produzione). Non evoluzione della storia, sia chiaro, ma di
una delle componenti forti dello scenario della storia, che non
esclude ad esempio l'azione individuale. Qui Marx è un pensatore
liberale il suo pensiero economico si muove nell'ambito del pensiero
classico ed anche il suo concetto di sfruttamento è in questo
ambito.
La critica di Boehm Bawerk è valida ma
diciamolo parziale come dice anche l'autore dell'articolo e quindi
un po deboluccia, se pensassimo che tutto lo sfruttamento riguarda
l'interesse del denaro anticipato. No, la vera critica riguarda il
non considerare il contributo che l'imprenditore dà alla
produzione. Questo è molto strano, ma è forse la chiave di volta
che spiega gli errori di Marx. Perchè è evidente che in Marx ci
sono errori ed anche grossi.
Ma se il vero contributo di Marx non é
nell'economia ma nella storia, da questo punto di vista gli errori
sono, come per tutti i veri maestri, più utili delle verità,
perché svelano meglio delle verità il meccanismo profondo che
spesso invece si cela dove il pensiero fila liscio.
Ora Marx cita varie volte nelle sue
opere il contributo dato dalla borghesia imprenditoriale allo
sviluppo dell'economia e cita come forza determinante del capitalismo
l'innovazione. Perché allora non considera nella determinazione del
valore questo contributo? I motivi sono due e mi sembra che l'analisi
di questi due errori “economici” sia contemporaneamente anche una
validazione della sua concetto di evoluzione delle forme di
produzione e della rivoluzione delle forme di produzione. La
rivoluzione é un altro concetto perfettamente in linea con la teoria
e la prassi del liberalismo.
L'errore di Marx è un errore di
prospettiva. Ma dobbiamo fare una breve digressione per capire
meglio. Marx non è tutto uguale. Seguendo le sue stesse parole il
Marx giovane è un filosofo che critica la filosofia, ma la critica
da filosofo. Nell'incontro con Engels nel 1845 insieme definiscono
ancora sommariamente il concetto delle'evoluzione delle forma di
produzione ma è solo nel 1950 a Londra che Marx può studiare per
dare una base razionale alle intuizioni precedenti, per cui c'è una
cesura netta, tra la versione filosofica e quella scientifica del suo
pensiero.
Marx negli anni 50 e 60, studia lo
sviluppo del capitalismo in Inghilterra e la sua diffusione in Europa
ed in America. Il capitalismo che gli appare in quegli anni è quello
che si espande sostanzialmente con le tecnologie già usate in
ighilterra, con la forza motrice dell'acqua e del vapore e con le
invenzioni della meccanica che muovono i materiali e macchine nelle
fabbriche e ttasportano uomini e cose E' negli anni 70 che comincia
la seconda rivoluzione industriale, quella della siderurgia, della
chimica, dell'elettricità. La cui caratteristica è l'inglobamento
della ricerca nel processo produttivo, con la riorganizzazione della
ricerca unversitaria e la creazione di centri di ricerca nelle
azienfde
Marx non si accorge di questo ulteriore
sviluppo del capitalismo. Basta leggere questo brano della Prefazione
alla Critca dell'economia politica del 1859,
« Una formazione sociale
non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive
a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non
subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società
le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità
non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a
considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge
solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già
o almeno sono in formazione [...].”
E' evidente che Marx non si è accorto
che negli ultimi anni della sua vita il Capitalismo si stava
rinnovando e addirittura portava all'interno della sua organizzazione
l'innovazione. Non più solo l'utilizzo della innovazione generica
prodotta dalla società, ma l'inserimento della ricerca integralmente
nella produzione. E questo riguarda il secondo errore, se così si
può chiamare di Marx, non essersi accorto che l'innovazione non è
solo nell'uso della tecnologia per la produzione, e quindi dal vapore
all'elettricità, ma in tutto il ciclo dalla ideazione alla
progettazione, alla produzione, al confezionamento, alla vendita,
alla logistica, all'organizzazione aziendale, alla finanza e tutti
questo poi esce dalla produzione per passare al consumo e alla
società. L'elemento più evidente di questa nuova realtà è il
lavoro intellettuale e la sua preminenza nella nostra società.
Il non aver considerato questa realtà,
anzi nel non averla potuta neppur considerare perchè incompatibile
con la gestione burocratica, è anche uno dei motivi del fallimento
dell'URSS. Ed è anche uno dei motivi della difficoltà di ogni
gestione statale dell'economia, a meno che non sia parziale e
corretta continuamente dal confronto con gestioni non oligopolistiche
espresse dal mercato.
Questa capacità del capitalismo di
portare all'interno della società il meccanismo dell'evoluzione e
del cambiamento è una differenza qualitativa enorme rispetto alle
precedenti processi evolutivi che la storia ci ha mostrato e
sicuramente ha un impatto fortissimo rispetto al modello, se vogliamo
ancora “inconscio” dell'evoluzione delle Forme di Produzione.
La critica degli Austriaci al comunismo
resta in tutta la sua forza: il mondo è troppo complesso per
pianificarlo, ma anche qui è stata proprio la pratica liberale a
dimostrare che anche in questa complessità esiste uno spazio per un
intervento razionale. E come dice benissimo Gaetano Salvemini nella
sua Storia della Rivoluzione Francese, l'intervento razionale punta
a degli obiettivi che si pensa producano un certo effetto, che però
la forza delle cose reali, che razionalmente non potrò mai conoscere
completamente, conduce ad altri obiettiivi, che sono diversi ma non
completamente scorrelati dagli intenti razionali.
E' chiaro che la contraddizione
capitale lavoro esiste tra lavoratori ed imprenditori, ma non è
l'unica nella società, e neppure è assoluta, perchè anche
l'imprenditore contribuisce al valore: la contraddizione allora si
situa a livello della distribuzione. E a maggior ragione questo si
vede oggi in cui ci sono lavoratori che innovano come un tempo
facevano solo gli imprenditori, nelle aziende ma anche fuori delle
aziende nel senso che la loro produzione delle innovazioni avviene
fuori dal ciclo di produzione standard, fuori dal ciclo del PIL. Ma
un tempo questa opposizione si estendeva anche al potere, per la
forza economica con cui la borghesia poteva in buona misura
controllare lo stato, invece oggi si è sviluppata una nuova classe,
quella di chi detenendo il potere per la delega, si è affrancato dal
controllo dei deleganti. Questa autonomia del ceto politico è in
gran parte un risultato non voluto dello sviluppo della democrazia
delegata, perchè chi detiene questo potere o chi ne è clientes,
può attingere alla ricchezza prodotta da lavoratori e da
imprenditori. E questa classe comprende potenzialmente, perchè il
proccesso non è lineare (ma in Italia è già di fatto egemone) la
classe politica e la Dirigenza della PPAA e delle Aziende di stato e
i monopoli e gli oligopoli, compresi quelli finanziari. C'è quindi
ed è spesso preminente, una contrapposzione tra i ceti produttivi,
coinvolti in un processo di rinnovamento e di contrapposizione
continua, e questi nuovi ceti improduttivi, ma che hanno ricevuto
tramite la delega democratica, un potere che cercano di usare non per
gli obiettivi per cui hanno avuto la delega, ma per perpetuare il
loro potere e per accrescere i loro benefici.
Bisognerebbe aggiornare l'agenda
politica dei cittadini con questa doppia contrapposizione, che è
poi l'oggetto del libro del Long ("Toward a Libertarian Theory of Class" di Roderick Long).
Mario Saccone
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