martedì 20 novembre 2012

A proposito della teoria sulla lotta di classe in ambito liberale


Mario Saccone prende spunto dall'articolo di Sheldon Richman su "La vera teoria della lotta di classe", per analizzare i punti di convergenza e divergenza tra il pensiero di Marx (non così monolitico e uniforme nel tempo, come ci spiega Saccone) e il filone del pensiero liberale che fa proprio e centrale il concetto di lotta tra le classi.



L'articolo è molto interessante e si presta bene ad un riesame della opera di Marx. Io partirei dal concetto di classe che è quello che ricolloca Marx nel settore dei classici del pensiero liberale. Affermazione paradossale, perché è proprio il concetto di classe che nel passato ha causato le più accese contrapposizioni con il Marxismo. Ma è qui il punto. Marx non è il marxismo così come i suoi oppositori liberali anticlassisti non erano poi così liberali. Il fatto è che l'opposizione tradizionale tra comunisti e liberali anticlassisti non era la contrapposizione tra Marx e il liberalismo, ma tra due concezioni politiche diverse dalle originali a cui pretendevano di ispirarsi.

Recuperato a ragione dal pensiero liberale il concetto di classe, Marx si riscopre come un pensatore liberale, anche se particolare ed un po eretico. Il pensiero economico di Marx, che peraltro in Marx non è il punto di forza, ma strumento operativo per la messa a punto di quello che è il concetto portante della sua analisi storica e della sua teoria delle cause e delle forme dell'evoluzione economica e sociale (in sintesi delle Forme di Produzione). Non evoluzione della storia, sia chiaro, ma di una delle componenti forti dello scenario della storia, che non esclude ad esempio l'azione individuale. Qui Marx è un pensatore liberale il suo pensiero economico si muove nell'ambito del pensiero classico ed anche il suo concetto di sfruttamento è in questo ambito.

La critica di Boehm Bawerk è valida ma diciamolo parziale come dice anche l'autore dell'articolo e quindi un po deboluccia, se pensassimo che tutto lo sfruttamento riguarda l'interesse del denaro anticipato. No, la vera critica riguarda il non considerare il contributo che l'imprenditore dà alla produzione. Questo è molto strano, ma è forse la chiave di volta che spiega gli errori di Marx. Perchè è evidente che in Marx ci sono errori ed anche grossi.

Ma se il vero contributo di Marx non é nell'economia ma nella storia, da questo punto di vista gli errori sono, come per tutti i veri maestri, più utili delle verità, perché svelano meglio delle verità il meccanismo profondo che spesso invece si cela dove il pensiero fila liscio.

Ora Marx cita varie volte nelle sue opere il contributo dato dalla borghesia imprenditoriale allo sviluppo dell'economia e cita come forza determinante del capitalismo l'innovazione. Perché allora non considera nella determinazione del valore questo contributo? I motivi sono due e mi sembra che l'analisi di questi due errori “economici” sia contemporaneamente anche una validazione della sua concetto di evoluzione delle forme di produzione e della rivoluzione delle forme di produzione. La rivoluzione é un altro concetto perfettamente in linea con la teoria e la prassi del liberalismo.

L'errore di Marx è un errore di prospettiva. Ma dobbiamo fare una breve digressione per capire meglio. Marx non è tutto uguale. Seguendo le sue stesse parole il Marx giovane è un filosofo che critica la filosofia, ma la critica da filosofo. Nell'incontro con Engels nel 1845 insieme definiscono ancora sommariamente il concetto delle'evoluzione delle forma di produzione ma è solo nel 1950 a Londra che Marx può studiare per dare una base razionale alle intuizioni precedenti, per cui c'è una cesura netta, tra la versione filosofica e quella scientifica del suo pensiero.

Marx negli anni 50 e 60, studia lo sviluppo del capitalismo in Inghilterra e la sua diffusione in Europa ed in America. Il capitalismo che gli appare in quegli anni è quello che si espande sostanzialmente con le tecnologie già usate in ighilterra, con la forza motrice dell'acqua e del vapore e con le invenzioni della meccanica che muovono i materiali e macchine nelle fabbriche e ttasportano uomini e cose E' negli anni 70 che comincia la seconda rivoluzione industriale, quella della siderurgia, della chimica, dell'elettricità. La cui caratteristica è l'inglobamento della ricerca nel processo produttivo, con la riorganizzazione della ricerca unversitaria e la creazione di centri di ricerca nelle azienfde

Marx non si accorge di questo ulteriore sviluppo del capitalismo. Basta leggere questo brano della Prefazione alla Critca dell'economia politica del 1859,

« Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione [...].”

E' evidente che Marx non si è accorto che negli ultimi anni della sua vita il Capitalismo si stava rinnovando e addirittura portava all'interno della sua organizzazione l'innovazione. Non più solo l'utilizzo della innovazione generica prodotta dalla società, ma l'inserimento della ricerca integralmente nella produzione. E questo riguarda il secondo errore, se così si può chiamare di Marx, non essersi accorto che l'innovazione non è solo nell'uso della tecnologia per la produzione, e quindi dal vapore all'elettricità, ma in tutto il ciclo dalla ideazione alla progettazione, alla produzione, al confezionamento, alla vendita, alla logistica, all'organizzazione aziendale, alla finanza e tutti questo poi esce dalla produzione per passare al consumo e alla società. L'elemento più evidente di questa nuova realtà è il lavoro intellettuale e la sua preminenza nella nostra società.
Il non aver considerato questa realtà, anzi nel non averla potuta neppur considerare perchè incompatibile con la gestione burocratica, è anche uno dei motivi del fallimento dell'URSS. Ed è anche uno dei motivi della difficoltà di ogni gestione statale dell'economia, a meno che non sia parziale e corretta continuamente dal confronto con gestioni non oligopolistiche espresse dal mercato.

Questa capacità del capitalismo di portare all'interno della società il meccanismo dell'evoluzione e del cambiamento è una differenza qualitativa enorme rispetto alle precedenti processi evolutivi che la storia ci ha mostrato e sicuramente ha un impatto fortissimo rispetto al modello, se vogliamo ancora “inconscio” dell'evoluzione delle Forme di Produzione.

La critica degli Austriaci al comunismo resta in tutta la sua forza: il mondo è troppo complesso per pianificarlo, ma anche qui è stata proprio la pratica liberale a dimostrare che anche in questa complessità esiste uno spazio per un intervento razionale. E come dice benissimo Gaetano Salvemini nella sua Storia della Rivoluzione Francese, l'intervento razionale punta a degli obiettivi che si pensa producano un certo effetto, che però la forza delle cose reali, che razionalmente non potrò mai conoscere completamente, conduce ad altri obiettiivi, che sono diversi ma non completamente scorrelati dagli intenti razionali.

E' chiaro che la contraddizione capitale lavoro esiste tra lavoratori ed imprenditori, ma non è l'unica nella società, e neppure è assoluta, perchè anche l'imprenditore contribuisce al valore: la contraddizione allora si situa a livello della distribuzione. E a maggior ragione questo si vede oggi in cui ci sono lavoratori che innovano come un tempo facevano solo gli imprenditori, nelle aziende ma anche fuori delle aziende nel senso che la loro produzione delle innovazioni avviene fuori dal ciclo di produzione standard, fuori dal ciclo del PIL. Ma un tempo questa opposizione si estendeva anche al potere, per la forza economica con cui la borghesia poteva in buona misura controllare lo stato, invece oggi si è sviluppata una nuova classe, quella di chi detenendo il potere per la delega, si è affrancato dal controllo dei deleganti. Questa autonomia del ceto politico è in gran parte un risultato non voluto dello sviluppo della democrazia delegata, perchè chi detiene questo potere o chi ne è clientes, può attingere alla ricchezza prodotta da lavoratori e da imprenditori. E questa classe comprende potenzialmente, perchè il proccesso non è lineare (ma in Italia è già di fatto egemone) la classe politica e la Dirigenza della PPAA e delle Aziende di stato e i monopoli e gli oligopoli, compresi quelli finanziari. C'è quindi ed è spesso preminente, una contrapposzione tra i ceti produttivi, coinvolti in un processo di rinnovamento e di contrapposizione continua, e questi nuovi ceti improduttivi, ma che hanno ricevuto tramite la delega democratica, un potere che cercano di usare non per gli obiettivi per cui hanno avuto la delega, ma per perpetuare il loro potere e per accrescere i loro benefici.

Bisognerebbe aggiornare l'agenda politica dei cittadini con questa doppia contrapposizione, che è poi l'oggetto del libro del Long ("Toward a Libertarian Theory of Class" di Roderick Long).

Mario Saccone

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