Carlo Annoni
novembre 2011
Egregio sig. Arata,
Ho letto la sua piattaforma di idee e proposte per il rilancio del piccolo commercio nel centro storico piacentino.
Anzitutto apprezzo l'impegno e la serietà mostrata nel mettere per iscritto le sue idee. In un'epoca di chiacchiere a ruota libera, l'impegno a mettere per iscritto ragioni ed idee va pubblicamente apprezzato.
Ho tuttavia qualche dubbio sul merito di alcune proposte, ma vorrei fare qualche considerazione sul "metodo" e sulle premesse adottate.
La premessa implicita del documento è la crisi del piccolo commercio nel centro storico.
Ora probabilmente i grandi numeri le danno ragione, ma proprio sabato ero a fare spesa in centro storico e mi sono trovato, come mi capita assai di frequente dal “mio” negoziante di fiducia, a stare in coda 10 minuti per essere servito.
Un negozio di successo, quindi, pur nel centro storico, ed il perchè lo dico subito: ha ottimi prodotti, non è particolarmente a buon mercato ma neppure eccessivamente costoso, ha un prodotto abbastanza particolare dove non c'è forte competizione dalla GDO, e, non ultimo, perchè il titolare è una persona simpatica, onesta, disponibile e che da decenni si è conquistato la fiducia dei suoi clienti. Sia per altro chiaro che il suo mestiere non è quello di intrattenitore, ma anzi richiede lavoro con una dose di fatica abbastanza alta e competenze non comuni.
Penso che l'unica cosa che potrebbe fargli crollare gli affari sia la scomparsa dei residenti del centro.
Ecco, forse prima di stendere un cahiers de doleances, cercherei di capire i motivi del successo di un negoziante del centro storico, capirei come si è costruito una nicchia così forte da resistere senza problemi alle minacce circostanti.
Purtroppo, ma forse per fortuna, oggi anche l’attività commerciale di minori ambizioni richiede competenze e capacità non banali. Oggi, quando una grande catena di distribuzione inizia a pensare ad un progetto commerciale, svolge una vera e propria attività di progettazione.
La catena cerca di capire come realizzare la propria visione di servizio, individuando chi poter servire, come, quando, dove, etc , e con il vincolo della remuneratività (perchè una catena mica può chiedere contributi al pubblico).
In base ai risultati di questo studio la catena capisce cosa realizzare, quali servizi offrire, dove, quando, a quanto, etc etc.
Se quindi questo lavoro lo fa la GDO prima di aprire un centro commerciale, qualsiasi imprenditore del commercio dovrebbe, nella giusta scala, intraprendere uno studio analogo, perchè l'apertura di un negozio ha a che fare col rischio imprenditoriale e non dà diritto alla sopravvivenza economica.
In periodo di crisi conclamata, è bene ricordarsi che non basta aprire un negozio per stare sul mercato, servono idee, professionalità, comprensione dei clienti e del mercato, e tante altre cose che i bravi commercianti sanno ben meglio di me. Ma serve tra l’altro offrire la cosa giusta, nel modo giusto, nel posto giusto, al costo giusto, al momento giusto. Se manca uno di questi elementi, in epoca di forte competizione e consumi decrescenti, l’impresa rischia di andare in crisi.
E non è richiedendo sussidi e privilegi (e obblighi) al Comune il modo giusto di affrontare il problema.
Più utile sarebbe pretendere dalle associazioni foraggiate dai contributi dei commercianti un supporto consulenziale e formativo, sicuramente preliminare l'apertura dell'impresa ma anche durante l’intero ciclo di vita; se uno apre il business sbagliato non è poi così ragionevole pensare che il contesto di debba adattare ad un progetto errato per evitarne il fallimento, come sembrano far pensare alcune delle idee che spesso emergono nel mondo del commercio.
Se decido di aprire una vendita di ghiaccioli al polo nord o una macelleria suina in Arabia forse ho fatto qualche errore di calcolo ed è evidente come non possa pensare che la soluzione del mio problema sia impiantare un reattore nucleare al Polo o convertire al cristianesimo l’Arabia.
Poi ovviamente serve un contesto favorevole al business, perchè se una via è ricoperta di rifiuti ed escrementi, o intasata di auto e fortemente inquinata difficilmente verrà voglia di passeggiarci e fare compere.
Ma questa è solo la seconda parte del problema. La prima sta nella capacità di scegliere, impostare e condurre nel modo giusto il business.
Su questo primo punto, al di là delle capacità proprie di ciascuno, ribadisco il ruolo consulenziale e formativo che dovrebbero meglio svolgere le associazioni di categoria. Come migliore lavoro di rappresentanza dovrebbero fare le associazioni verso le PA, gli Enti Locali, le Camere di Commercio, per la diminuzione degli adempimenti burocratici e degli oneri propri e impropri.
Come commerciante, al di là di quanto tocca a me fare e fare bene, mi focalizzerei quindi nella richiesta di servizi (a valore universali) e non su privilegi o concessioni che sanno di pietismo, assistenzialismo e magari clientelismo più che di politica.
Ho anche l’impressione che troppo spesso le associazioni abbiano peccato di demagogia, illudendo gli associati che si potesse fermare un mondo avviato verso l’apertura e la trasparenza dei mercati, e che, per accondiscendere a business spesso sbagliati, si dovessero chiedere sussidi, privilegi e magari si calpestassero pure i diritti degli altri cittadini (cosa altro è la richiesta di apertura al traffico della ztl, il rifiuto delle limitazioni orarie del traffico, la resistenza al rispetto delle norme di quiete pubblica)?
A questo proposito vi è una altra questione: a differenza di un centro commerciale, che è definito come un'area interamente dedicata al commercio, in città gli esercizi commerciali convivono strettamente con altre funzione, ad esempio la residenza.
Dovremmo sapere che i residenti sono portatori di esigenze, ma anche di diritti (alcuni non negoziabili, come quelli alla salute, al riposo, ad un ambiente salubre, etc), ed è importante che da subito il mondo del commercio riconosca come tutto questo si traduca in vincoli per le altre funzioni.
Non mi è chiaro, dalla scorsa dell'elenco, di come si sia tenuto conto di questi vincoli, quando ad esempio si suggeriscono aperture obbligatorie e prolungate di locali pubblici, occupazione (gratuita) di suolo pubblico, spesso in zone già sotto stress ambientale (il rumore in città è considerato una dei principali "inquinamenti" e fattori di rischio per la salute) e di traffico.
Si pensa davvero che sia possibile un bel futuro al commercio cittadino in una città inquinata, rumorosa, così poco vivibile da far si che i suoi residenti scappino altrove?
Se ho dei forti dubbi sul fatto che il Comune possa e debba pianificare l'attività commerciale, magari sussidiandola pure, non ho invece dubbi sul ruolo del Comune a tutela della salute, della proprietà e della sicurezza di tutti i residenti, ivi inclusi i negozianti.
Ai commercianti in crisi chiederei quindi di ascoltare meglio i possibili clienti e gli altri portatori di interessi (anche quelli potenzialmente in conflitto con i commercianti), di progettare i propri business in funzione della reale domanda e di essere sempre più professionali e capaci nel proprio campo.
Ora, proprio perchè ritengo che la città dell'inizio del terzo millennio richieda servizi di commercio ma non qualsiasi e non a qualsiasi costo (sociale, economico o ambientale), suggerirei di mettere da parte gli elenchi di richieste e concentrarsi invece sul capire come fare commercio in una città che vuol vivere, crescere con standard sempre più elevati di vivibilità. Solo se i commercianti sapranno interpretare lo spirito dei tempi e le esigenze delle altre funzioni cittadine, ci sarà un futuro roseo per i commercianti cittadini.
Di questa responsabilità saranno gli imprenditori commerciali a doversene far carico, possibilmente con il supporto di associazioni ri-focalizzate e ovviamente contando sui servizi di sicurezza, ambientali, di tutela della proprietà che il Comune deve fornire ai negozianti come a tutti gli altri cittadini.
So di aver urtato molte suscettibilità con questo discorso, ma non è illudendo i commercianti che le responsabilità dei fallimenti siano sempre e totalmente estranee alle proprie decisioni e azioni che si danno i giusti messaggi. E’ a furia di illusioni e demagogia propinate spesso da soggetti interessati o incapaci che questo Paese si è trovato a sperimentare la stagnazione prima ed il declino poi.
Chiudo quindi con una citazione che riassume quello che ritengo essere lo spirito giusto in questi anni che dimostrano l’inefficacia e l’insostenibilità dello statalismo assistenzialista all’italiana:
"Non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per il vostro Paese." JFK
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