GIANNI RIOTTA
La Stampa 23/12/2011
Se, in una qualche sperduta stanza del nostro mondo, in
questo anno di crisi, un pensatore solitario sta provando a immaginare la nuova
grande ideologia del futuro, come i liberali Locke, Smith o Mill, i comunisti
Marx e Engels, i fascisti Mussolini e Hitler, che cosa starà scrivendo nel suo
computer? Il mondo del XXI secolo sarà democratico, comunitario, totalitario?
Resisterà il capitalismo liberale, o il modello asiatico, libero mercato e
partito unico, capace di prendere decisioni rapide, sarà l'ultima esportazione
dalla Cina?
Se lo chiede Foreign Affairs , rivista del Council on
Foreign Relations, cenacolo storico dell’establishment americano che, per
celebrare i 90 anni dalla fondazione, ospita un dibattito sul «Clash of ideas»,
lo scontro di idee che può rivelarsi radicale quanto la crisi finanziaria 2007.
La fine della Guerra Fredda, il boom indiano e cinese, la crisi dell’industria
occidentale, il declino del ceto medio - prefigurato dall’economista Raghuram
Rajan - hanno fatto della globalizzazione il sistema nervoso del mondo. La
tecnologia cambia il nostro modo di vivere, ma riduce i ranghi dei lavoratori,
Facebook, calcola lo studioso Charles Kupchan, vale sul mercato 55 miliardi di
euro e impiega duemila persone, la marca automobilistica General Motors vale 27
miliardi di dollari, ma dà lavoro a 77 mila negli Usa e a 208 mila nel mondo.
Che idee conquisteranno i nostri figli? La democrazia
liberale e il libero mercato, il welfare, sanità e pensione, sono al
crepuscolo? Che cultura avranno i nuovi leader, calmi tecnocratici come Monti,
Draghi e Venizelos, o populisti rampanti, in piazza con il Tea Party e la Lega
Nord a destra o con Occupy Wall Street e Beppe Grillo a sinistra?
Il direttore di Foreign Affairs Gideon Rose e l'ex ministro
israeliano Shlomo Avineri aprono il dibattito con una nota storica: la
democrazia liberale che diamo per scontata dalla fine della Seconda guerra
mondiale, è bene prezioso e fragile. Negli Anni Trenta larghe fasce della
popolazione, e alcune delle menti migliori, erano persuase che la vittoria
sarebbe andata alle forze totalitarie, Mussolini, Franco, Hitler, Stalin e che
i giorni fossero contati per i paesi liberi. Libertà e benessere non sono stati
«restaurati» in Europa nel 1945: sono stati reinventati da zero, e senza
nessuna garanzia di successo. Il filosofo Francis Fukuyama, autore del saggio
più bello, The future of History (il futuro della Storia parallelo del suo
celebre saggio del 1989 La fine della Storia ), nota che perfino Schumpeter,
studioso dell'innovazione del capitalismo, scommetteva in Capitalismo,
democrazia, socialismo , scritto nel 1942 quando comincia a Stalingrado la fine
di Hitler, sulla vittoria socialista. Sembrava che il capitalismo stesse
scavandosi la fossa, seminando malcontento. Era la «vecchia talpa» sognata da Karl
Marx, ma invece, notano Rose, Kupchan e Fukuyama, il capitalismo non crea una
classe operaia ostile e rivoluzionaria, ma un ceto medio larghissimo, a cui i
lavoratori dell’industria guardano non con rivalità, ma aspirando a farne
parte. È questa la «sconfitta secolare del comunismo» che Lucio Magri, teorico
dissidente de il Manifesto, cita amaro come ragione del suo terribile, recente,
suicidio.
Gideon Rose ricorda quanto la vittoria della democrazia
liberale sia stata a rischio. Mentre crollavano gli imperi multi-etnici, russo,
austro-ungarico, ottomano, francese, inglese, la scommessa è stata assicurare
il benessere del ceto medio a strati maggiori di popolazione, con scuola,
sanità, pensione. È la borghesia, irrisa come «filistea» in innumerevoli film,
ritratti e romanzi, la protagonista del Novecento, grazie a quello che il
regista Buñuel chiama il suo «fascino discreto». Ma globalizzazione,
capitalismo finanziario sfrenato degli Anni Novanta e boom tecnologico
aumentano la distanza tra ricchi, borghesi e poveri, avvilendo il ceto medio.
Nel 2007 l'1% più ricco degli americani controllava il 34% della ricchezza, un
record mai toccato dal 1928, l'anno precedente il crollo di Wall Street. Lo
squilibrio semina risentimento tra gli elettori.
La crisi, il dibattito senza filtro su Internet e la
globalizzazione polarizzano i cittadini, ma - ecco una prima morale dello
Scontro delle Idee - al tempo stesso paralizzano i leader. Presidenti come
Roosevelt, Johnson, Nixon, o in Europa De Gaulle, Fanfani, Adenauer, decidevano
delle politiche economiche e sociali, guardando ai confini nazionali e ai
bilanci. Oggi Obama non controlla emigrazione, valore della moneta cinese,
traffico delle merci e dei capitali, luoghi di produzione, neppure il Congresso
o il partito. Deve appellarsi al G-20 e ne viene frustrato. Né la Merkel,
Sarkozy o Monti possono decidere la rotta di Berlino, Parigi e Roma da soli,
devono convivere con mercato europeo e regole globali. Un mestiere impossibile,
quello del leader di governo in questo secolo.
Per difendere insieme sviluppo e libertà, Lo scontro delle
idee riporta un affascinante albero genealogico del nostro tempo, con articoli
pubblicati in 90 anni di Foreign Affairs , testimonianze di un cammino tragico
e, per noi occidentali, a lungo pacifico. Appaiano a sorpresa due italiani,
Giovanni Gentile, autore nel gennaio 1928 del saggio Le basi filosofiche del
fascismo (grazie alle Corporazioni il fascismo garantisce più libertà agli
individui del liberalismo classico) e il suo rivale Benedetto Croce, con
l'articolo Of liberty dell'ottobre 1932 (senza una preoccupazione sociale il
liberalismo declinerà). Ritroviamo un sorprendente Lev Trotzky che in
Nazionalismo e vita economica dell'aprile 1934 scrive «la contraddizione
sociale in Europa diventerà insopportabile». «Non abbiamo scelto i saggi
storici più importanti, o quelli scritti dagli autori più celebri» spiega il
direttore Rose, la selezione è stata fatta per ricostruire il Dna teorico del
presente, perché «nello scontro delle idee» non era scontato che sviluppo e
democrazia si affermassero.
E ora, chi vincerà lo «scontro delle idee»? Che Manifesto
starà scrivendo il filosofo autore dell’«Ismo» dominante del XXI secolo dopo
Socialismo e Liberalismo? Kupchan annota malinconicamente come la nostra
democrazia, in America come in Europa, sia «malata» di impotenza e incapacità a
decidere nel mondo globale, chiusa su Internet a protestare. Fukuyama,
coraggiosamente, prova a immaginare direttamente il leader prossimo venturo.
Vivremo, scrive Fukuyama, anni di salari stagnanti e
disuguaglianza crescente, che semineranno scontento. Ma allora perché, né in
Europa né in America, torna al potere una sinistra anticapitalista, francamente
socialista? Perché, malgrado il disastro della finanza a Wall Street, le
proposte radicali non persuadono gli elettori, che chiedono più sviluppo e
salario, non la diversa società di Marx. E la carenza di idee nuove a sinistra
impoverisce anche la destra, ferma ai precetti di Ronald Reagan e Lady
Thatcher, meno tasse e Stato, meno regole, più mercato. Fukuyama idealizza un
«populismo tecnocratico», che protegga il ceto medio, colonna della democrazia,
grazie a politiche economiche realistiche, contenere gli eccessi del mercato,
accettare la globalizzazione senza protezionismo ma difendere i più deboli, a
scuola, sul lavoro, nelle pensioni e sanità da una corsa che li esclude.
Tecnocratico perché senza sviluppo e tecnologia la ricchezza non si crea, ma
populista perché senza un cuore e una rabbia vera a difesa del ceto medio e dei
lavoratori, la ricetta economica globale non parla e non mobilita i cittadini,
svuotando la democrazia ed esponendola a quei virus autoritari che credevamo
distrutti. Insomma l’anonimo redattore del Manifesto delle Idee del 2012 ha
oggi sul tavolo le foto di Monti e Passera, ma legge anche i discorsi di Bobo
Maroni e Beppe Grillo.
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