domenica 25 dicembre 2011

Populista e tecnocratico il leader che verrà

Su "Foreign Affairs" l'albero genealogico di un secolo di idee: da Gentile a Trotzky, agli ideologi della globalizzazione
GIANNI RIOTTA
La Stampa 23/12/2011



Se, in una qualche sperduta stanza del nostro mondo, in questo anno di crisi, un pensatore solitario sta provando a immaginare la nuova grande ideologia del futuro, come i liberali Locke, Smith o Mill, i comunisti Marx e Engels, i fascisti Mussolini e Hitler, che cosa starà scrivendo nel suo computer? Il mondo del XXI secolo sarà democratico, comunitario, totalitario? Resisterà il capitalismo liberale, o il modello asiatico, libero mercato e partito unico, capace di prendere decisioni rapide, sarà l'ultima esportazione dalla Cina?

Se lo chiede Foreign Affairs , rivista del Council on Foreign Relations, cenacolo storico dell’establishment americano che, per celebrare i 90 anni dalla fondazione, ospita un dibattito sul «Clash of ideas», lo scontro di idee che può rivelarsi radicale quanto la crisi finanziaria 2007. La fine della Guerra Fredda, il boom indiano e cinese, la crisi dell’industria occidentale, il declino del ceto medio - prefigurato dall’economista Raghuram Rajan - hanno fatto della globalizzazione il sistema nervoso del mondo. La tecnologia cambia il nostro modo di vivere, ma riduce i ranghi dei lavoratori, Facebook, calcola lo studioso Charles Kupchan, vale sul mercato 55 miliardi di euro e impiega duemila persone, la marca automobilistica General Motors vale 27 miliardi di dollari, ma dà lavoro a 77 mila negli Usa e a 208 mila nel mondo.

Che idee conquisteranno i nostri figli? La democrazia liberale e il libero mercato, il welfare, sanità e pensione, sono al crepuscolo? Che cultura avranno i nuovi leader, calmi tecnocratici come Monti, Draghi e Venizelos, o populisti rampanti, in piazza con il Tea Party e la Lega Nord a destra o con Occupy Wall Street e Beppe Grillo a sinistra?

Il direttore di Foreign Affairs Gideon Rose e l'ex ministro israeliano Shlomo Avineri aprono il dibattito con una nota storica: la democrazia liberale che diamo per scontata dalla fine della Seconda guerra mondiale, è bene prezioso e fragile. Negli Anni Trenta larghe fasce della popolazione, e alcune delle menti migliori, erano persuase che la vittoria sarebbe andata alle forze totalitarie, Mussolini, Franco, Hitler, Stalin e che i giorni fossero contati per i paesi liberi. Libertà e benessere non sono stati «restaurati» in Europa nel 1945: sono stati reinventati da zero, e senza nessuna garanzia di successo. Il filosofo Francis Fukuyama, autore del saggio più bello, The future of History (il futuro della Storia parallelo del suo celebre saggio del 1989 La fine della Storia ), nota che perfino Schumpeter, studioso dell'innovazione del capitalismo, scommetteva in Capitalismo, democrazia, socialismo , scritto nel 1942 quando comincia a Stalingrado la fine di Hitler, sulla vittoria socialista. Sembrava che il capitalismo stesse scavandosi la fossa, seminando malcontento. Era la «vecchia talpa» sognata da Karl Marx, ma invece, notano Rose, Kupchan e Fukuyama, il capitalismo non crea una classe operaia ostile e rivoluzionaria, ma un ceto medio larghissimo, a cui i lavoratori dell’industria guardano non con rivalità, ma aspirando a farne parte. È questa la «sconfitta secolare del comunismo» che Lucio Magri, teorico dissidente de il Manifesto, cita amaro come ragione del suo terribile, recente, suicidio.

Gideon Rose ricorda quanto la vittoria della democrazia liberale sia stata a rischio. Mentre crollavano gli imperi multi-etnici, russo, austro-ungarico, ottomano, francese, inglese, la scommessa è stata assicurare il benessere del ceto medio a strati maggiori di popolazione, con scuola, sanità, pensione. È la borghesia, irrisa come «filistea» in innumerevoli film, ritratti e romanzi, la protagonista del Novecento, grazie a quello che il regista Buñuel chiama il suo «fascino discreto». Ma globalizzazione, capitalismo finanziario sfrenato degli Anni Novanta e boom tecnologico aumentano la distanza tra ricchi, borghesi e poveri, avvilendo il ceto medio. Nel 2007 l'1% più ricco degli americani controllava il 34% della ricchezza, un record mai toccato dal 1928, l'anno precedente il crollo di Wall Street. Lo squilibrio semina risentimento tra gli elettori.

La crisi, il dibattito senza filtro su Internet e la globalizzazione polarizzano i cittadini, ma - ecco una prima morale dello Scontro delle Idee - al tempo stesso paralizzano i leader. Presidenti come Roosevelt, Johnson, Nixon, o in Europa De Gaulle, Fanfani, Adenauer, decidevano delle politiche economiche e sociali, guardando ai confini nazionali e ai bilanci. Oggi Obama non controlla emigrazione, valore della moneta cinese, traffico delle merci e dei capitali, luoghi di produzione, neppure il Congresso o il partito. Deve appellarsi al G-20 e ne viene frustrato. Né la Merkel, Sarkozy o Monti possono decidere la rotta di Berlino, Parigi e Roma da soli, devono convivere con mercato europeo e regole globali. Un mestiere impossibile, quello del leader di governo in questo secolo.

Per difendere insieme sviluppo e libertà, Lo scontro delle idee riporta un affascinante albero genealogico del nostro tempo, con articoli pubblicati in 90 anni di Foreign Affairs , testimonianze di un cammino tragico e, per noi occidentali, a lungo pacifico. Appaiano a sorpresa due italiani, Giovanni Gentile, autore nel gennaio 1928 del saggio Le basi filosofiche del fascismo (grazie alle Corporazioni il fascismo garantisce più libertà agli individui del liberalismo classico) e il suo rivale Benedetto Croce, con l'articolo Of liberty dell'ottobre 1932 (senza una preoccupazione sociale il liberalismo declinerà). Ritroviamo un sorprendente Lev Trotzky che in Nazionalismo e vita economica dell'aprile 1934 scrive «la contraddizione sociale in Europa diventerà insopportabile». «Non abbiamo scelto i saggi storici più importanti, o quelli scritti dagli autori più celebri» spiega il direttore Rose, la selezione è stata fatta per ricostruire il Dna teorico del presente, perché «nello scontro delle idee» non era scontato che sviluppo e democrazia si affermassero.

E ora, chi vincerà lo «scontro delle idee»? Che Manifesto starà scrivendo il filosofo autore dell’«Ismo» dominante del XXI secolo dopo Socialismo e Liberalismo? Kupchan annota malinconicamente come la nostra democrazia, in America come in Europa, sia «malata» di impotenza e incapacità a decidere nel mondo globale, chiusa su Internet a protestare. Fukuyama, coraggiosamente, prova a immaginare direttamente il leader prossimo venturo.

Vivremo, scrive Fukuyama, anni di salari stagnanti e disuguaglianza crescente, che semineranno scontento. Ma allora perché, né in Europa né in America, torna al potere una sinistra anticapitalista, francamente socialista? Perché, malgrado il disastro della finanza a Wall Street, le proposte radicali non persuadono gli elettori, che chiedono più sviluppo e salario, non la diversa società di Marx. E la carenza di idee nuove a sinistra impoverisce anche la destra, ferma ai precetti di Ronald Reagan e Lady Thatcher, meno tasse e Stato, meno regole, più mercato. Fukuyama idealizza un «populismo tecnocratico», che protegga il ceto medio, colonna della democrazia, grazie a politiche economiche realistiche, contenere gli eccessi del mercato, accettare la globalizzazione senza protezionismo ma difendere i più deboli, a scuola, sul lavoro, nelle pensioni e sanità da una corsa che li esclude. Tecnocratico perché senza sviluppo e tecnologia la ricchezza non si crea, ma populista perché senza un cuore e una rabbia vera a difesa del ceto medio e dei lavoratori, la ricetta economica globale non parla e non mobilita i cittadini, svuotando la democrazia ed esponendola a quei virus autoritari che credevamo distrutti. Insomma l’anonimo redattore del Manifesto delle Idee del 2012 ha oggi sul tavolo le foto di Monti e Passera, ma legge anche i discorsi di Bobo Maroni e Beppe Grillo.

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