di Stefano Rudilosso
da http://www.brunoleoni.it
Perché si cresce? Nuove prospettive della Scienza Economica
Quanto sarebbe bello vivere in un paese che ha tassi di crescita del 5,3, del 6,6 e dell’8,3% in successione. Questo paese non è il Bengodi, ma l’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. E non sempre si può giudicare un uomo sulla base del raggiungimento dei suoi obiettivi: se così fosse Cristoforo Colombo sarebbe un fallito. L’età della pietra? Certamente non è finita perché sono finite le pietre. Così pure sarà per l’era del petrolio. Perché dunque si cresce? Per discontinuità, innovazione, progresso tecnologico ed innovazione due-punto-zero. Meglio abituarsi a quest’ultimo termine facendo proprio un concetto molto semplice. L’economia 2.0 è ciò che guarda a chi stira una camicia e pensa che, per migliorare la qualità della vita, sarebbe assai meglio che quel tessuto avesse caratteristiche tali da non richiedere di essere stirato.
Questi e tanti altri stimoli di assoluto interesse sono venuti nel corso del convegno «Perché si cresce? Nuove prospettive della scienza economica» svoltosi nella sede di Api Como in via Vandelli in collaborazione con l’Istituto Bruno Leoni e lo studio legale Vestuti Ceruti Cairoli.
Nell’occasione è stato presentato un libro speciale: «Economia 2.0, il software della crescita» di Arnold Kling e Nick Schulz pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni. Un’opera che racconta la mutazione economica in corso da vent’anni su scala mondiale, che porta inevitabilmente a un nuovo modo di guardare alla crescita economica, indotta dal processo dinamico generato dall’innovazione. Ospiti speciali al convegno l’economista Andrea Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, il professor Antonio Pilati, membro dell’Antitrust e autore della prefazione del libro e il professor Guido Vestuti, docente emerito all’Università Cattolica, raffinato uomo di cultura comasco esperto di economia e comunicazione. A fare gli onori di casa il presidente di Api Como Giambattista Cerutti, moderatore del-l’incontro Giorgio Gandola, direttore del quotidiano «La Provincia».
«Tra gli scopi di un’associazione di categoria – ha sottolineato il presidente di Api Como Giambattista Cerutti – certamente c’è anche quello di studiare e promuovere iniziative volte all’elevazione culturale e professionale degli imprenditori associati e, più in generale, dell’intera società e di tutti coloro che sono interessati ai mutamenti economici e che vogliono collaborare alla crescita del proprio territorio. Dunque questo convegno, nella consapevolezza che il tema dell’innovazione rappresenta la strada maestra per il superamento di un fallimento del mercato. Sapendo che, come sempre accade, è il mercato stesso a trovare gli antidoti e quindi le migliori soluzioni per uscire da questa fase di forte recessione. Anche da situazioni critiche e negative insomma si possono trarre gli spunti per mettere in atto i più appropriati correttivi in vista di una nuova fase, quella che tutti noi indichiamo con il termine di ripresa».
Il compito di fare un salto alle origini, e quindi nel passato, è toccato al professor Guido Vestuti. «Alla metà del ‘700 la crescita era dello 0,10%. Dunque - ha sottolineato il relatore - una società statica. La rivoluzione industriale cominciò con la diffusione delle mutande di cotone in Inghilterra. Era il 1750, arrivò sul mercato un intimo di cotone a prezzo ridotto (quelle di lana erano immettibili per buona parte dell’anno, quelle di seta troppo costose) e la società cambiò. Noi spesso guardiamo al passato con malcelata nostalgia. Ma quei secoli erano rappresentati da ben altro: arretratezza, puzza indescrivibile, carestie e grandi pestilenze come la peste, il vaiolo, la malaria. Uno dei grandi dell’umanità – e stiamo parlando di Newton – cambiava la camicia una volta al mese e la stessa camicia serviva anche da pigiama. Cose che oggi, a ciascuno di noi, fanno inorridire. Altro che sguardo nostalgico al passato. Dunque è nel 1750 che prende il via un grande cambiamento, auspicabile, che porta ben presto a crescite in doppia cifra. La rivoluzione industriale, che ha migliorato il mondo e ingentilito il modo di vivere delle persone, proseguì con l’irruzione del treno nel panorama dei trasporti; la ferrovia avvicinò le città, diminuì in modo significativo i tempi di percorrenza e quindi favorì i trasporti delle merci e delle persone. Il progresso s’impose nonostante il categorico avvertimento degli oculisti dell’epoca: le troppe immagini in movimento rendono ciechi. Anche le guerre hanno il loro aspetto positivo, perché sono portatrici di grandi novità tecnologiche e di una velocità sin qui impensabile e che ben riassume il principio dell’accelerazione della storia».
Antonio Pilati, dal 2005 componente dell’Antitrust, ha invece delineato gli ultimi decenni di tumultuosa crescita. «La rivoluzione industriale pur tra mille diversità – ha esordito Pilati – ha molti parallelismi con la fase che ebbe inizio negli anni Settanta-Ottanta. La data simbolica è quella del 1981, con l’avvento del primo personal computer, una macchina che aiuta ad elaborare la conoscenza come mai era accaduto e che rappresenta uno stacco netto con il passato. È l’avvio di una fase caratterizzata da una crescita vertiginosa e da un costante calo dei prezzi. La produttività sale e progressivamente tutti hanno accesso ai depositi del sapere. Siamo nel pieno della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione delle conoscenze e utilizza le scoperte scientifiche per creare nuove macchine, per evolversi a un ritmo sempre maggiore. In questa fase le industrie scoprono un modo nuovo per organizzarsi e per mettere insieme le persone. I principi vengono sempre più applicati in larga scala. Cambia l’economia e mutano anche le banche a fronte di una circolazione di capitali sempre maggiore. È l’avvento di una nuova economia, con un grande, inimmaginabile aumento delle merci. Tutto è diverso rispetto a prima. Perché ci sono momenti di svolta in cui la storia accelera e propone enormi cambiamenti. È un momento molto difficile per chi non sa restare al passo con i tempi. Ma è anche il momento delle grandi occasioni. I rischi sono maggiori, ma il progresso propone grandi balzi in avanti, con la creazione di nuove classi sociali e di nuove situazioni. Il mondo cambia. Insomma non si torna indietro. Non si può crescere senza cambiamento e l’economia due-punto-zero ci sprona a cavalcare il nuovo senza paure. Perché ogni sfida è da sempre nel dna dell’imprenditore e perché la storia insegna che i mercati falliscono spesso. Ma proprio dagli errori si riparte e per questo dei mercati c’è più che mai bisogno».
«Noi oggi utilizziamo con sufficiente appropriatezza il computer – ha poi detto Andrea Mingardi – ma quasi nessuno di noi conosce i principi che regolano il funzionamento del software. Nell’economia questo software è rappresentato dalle idee. Dietro quello che ogni giorno noi vediamo e utilizziamo ci sono delle idee. È la parte più difficile da comprendere, proprio perché nascosta. E nel libro che oggi presentiamo c’è un intero capitolo chiamato la “Pompa dell’innovazione”. Qui si parla degli imprenditori. Cioè di voi. Si cresce a “causa” degli imprenditori. Anche di quelli che hanno fallito. Perché insegnano dove sta l’errore. Perché il sistema impara anche da chi sbaglia. Ci sono comunque imprenditori pronti a rischiare in vista di un profitto futuro. Ma alla base c’è sempre l’idea, cioè il fatto che a qualcuno viene in mente come usare qualche cosa per migliorare la qualità della vita, per andare oltre».
«E perché non continua la crescita e, soprattutto, perché non
esiste una crescita costante? La risposta – prosegue Mingardi – è abbastanza semplice. Anzitutto perché l’economia non è a sviluppo tecnologico costante. Oggi in Italia, con uno sviluppo di pochi decimali, non siamo peggiori di chi negli anni del boom economico cresceva ogni anno di oltre l’8%. È questione di regole, norme, politica e cultura della società. Ci sono poi forze che fanno attrito. Una vera e propria resistenza per mantenere privilegi ormai anacronistici. Accade con norme non scritte, come pure con norme scritte sotto dettatura di gruppi che hanno precisi interessi e che impongono un certo corso piuttosto che un altro. È la politica che fa la differenza, perché cambia le regole del gioco. Viviamo in un piccolo Far West, ma non dobbiamo pensare a sparatorie e scorrettezze. Noi siamo orgogliosi di quanto fatto, nonostante vi siano “bag” di sistema. E di questo non possiamo che essere grati agli imprenditori. Per quanto riguarda il futuro il dibattito deve partire da chi produce ricchezza. Finché chi è in queste condizioni viene visto con sospetto non avremo mai leggi buone. Fare profitto è moralmente positivo, perché rappresenta un vantaggio per sé e per gli altri. Solo i profitti innaturali, quelli fatti da cartelli e da situazioni non chiare, vanno combattuti. Perché quand’anche avessero obiettivi di crescita sono comunque fuorvianti rispetto all’interesse generale. Tutto il resto è lecito, perché il risultato finale è una crescita complessiva positiva e auspicabile».
«Questo libro che oggi presentiamo sull’economia due-punto-zero e questi interventi – ha poi sintetizzato Giorgio Gandola, direttore de La Provincia – rappresentano un monolite da cui far partire la nostra azione. Per essere al passo con i tempi. O meglio ancora per guidare questa fase di grandi cambiamenti. Per coglierne tutte le opportunità. Certo per chi ha scollinato la mezza età non è semplice. Ma nella digitalizzazione bisogna sempre essere affamati di novità e certamente un po’ originali. Certo le difficoltà sembrano incidere e cambiarci. Ma non dobbiamo correre il rischio di trasformare questa nostra bella e grande Italia in un ufficio turistico o poco più. Siamo chiamati a ben altro. Naturalmente per un futuro positivo servono teste giovani, intransigenti. Economisti liberi per affrontare le sfide e crescere ancora. Con la nostra testa e con le nostre capacità, non rassegnandoci mai a vivere tutti in un immenso piano quinquennale planetario».
«Il progetto paese - ha concluso Andrea Mingardi - realisticamente oggi non l’ha nessuno. Certo la politica può definire delle regole, ma è abbastanza chiaro ormai che più fa, più mette steccati e peggio è per la società reale. Credo di saper bene, per esperienza personale, quanto possa essere frustrante nel breve periodo un lavoro culturale. Ma credo anche che, purtroppo, le scorciatoie non esistono. Vale ancora la teoria darwiniana: non sopravviverà il più forte – altrimenti i dinosauri non sarebbero estinti – ma chi meglio si adatta al cambiamento. Serve solo un approccio testardo che sappia pensare al bene della generazione successiva. Dunque innovazione, tecnologia, tante idee. Poi lasciar fare al mercato. Evitando il rischio di passare alla storia come gli oculisti saccenti e miopi della prima rivoluzione industriale».
Da Innovare, 2/2011
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