di Martin Feldstein
Financial Times
Tradotto e pubblicato dal Sole 24 Ore
4 novembre 2010
La politica di espansione quantitativa proposta ieri dalla Fed è un azzardo pericoloso, con pochi benefici potenziali e forti rischi di creare bolle speculative che potrebbero destabilizzare l'economia globale. L'economia americana è debole e le prospettive incerte, ma l'espansione quantitativa non è il rimedio giusto.
La Fed intende comprare titoli di stato a lungo termine, per un valore forse di mille miliardi di dollari o più, riversando altrettanta liquidità sull'economia e sulle riserve bancarie eccedenti.
Le attese in tal senso hanno fatto scendere i tassi d'interesse a lungo termine, depresso il valore del dollaro sui mercati internazionali, spinto in alto il prezzo delle materie prime e dei terreni agricoli e fatto salire i prezzi delle azioni.
Come tutte le bolle, il rischio è che questi incrementi esagerati invertano bruscamente la rotta quando i tassi d'interesse tornano ai livelli consueti. Il pericolo più grande a quel punto lo correranno gli investitori indebitati, compresi quei privati che hanno comprato questi beni con denaro preso in prestito e le banche che detengono titoli a lungo termine. Sono rischi che dovrebbero essere chiari dopo la recente crisi, determinata dallo scoppio delle bolle speculative. Anche se, nello specifico, gli asset che in questo momento stanno crescendo di prezzo sono diversi dall'ultima volta, le probabilità di effetti nocivi quando i prezzi caleranno in seguito allo scoppio della bolla sono drammaticamente simili.
Il problema ora si estende ai mercati emergenti, un gruppo di paesi che non era stato colpito in modo diretto dall'ultima crisi. I tassi d'interesse più bassi negli Usa stanno provocando un forte flusso di capitali verso queste economie, creando volatilità nei cambi. Le economie danneggiate dall'apprezzamento della loro valuta stanno reagendo con misure adatte a proteggere le esportazioni e limitare le importazioni, misure che potrebbero portare a conflitti commerciali.
Più avanti, quando l'economia americana comincerà a crescere, l'incremento della liquidità nel patrimonio delle banche complicherà l'exit strategy della Fed, finora "cautamente fiduciosa" di poter contenere le pressioni inflazionistiche che le riserve eccedenti delle banche potrebbero scatenare. Il risultato potrebbe essere tassi d'interesse più alti, una penalizzazione della domanda o uno sgradito aumento dell'inflazione.
Che cos'è che spinge la Fed a fare tutto questo? Anche se in realtà il suo vero obiettivo è combattere la disoccupazione, Bernanke parla soprattutto della necessità di prevenire la deflazione. Ma non c'è nessuna deflazione. I prezzi dei prodotti di consumo di base sono in aumento e l'inflazione, secondo le previsioni, nei prossimi 10 anni dovrebbe attestarsi mediamente sul 2 per cento.
Considerando che i tassi d'interesse a breve termine sono già prossimi allo zero, alcuni economisti raccomandano misure di espansione quantitativa per ridurre il tasso d'interesse reale, facendo crescere temporaneamente l'inflazione e mantenendo invariato il tasso d'interesse nominale. Un tasso d'inflazione atteso del 4% nei prossimi anni trasformerebbe un tasso d'interesse nominale dell'1% in un tasso reale del -3%, stimolando quel tipo di spesa sensibile alle variazioni del tasso d'interesse. Ma una politica del genere metterebbe a rischio la credibilità della strategia di lungo periodo della Fed in materia d'inflazione.
La tesi di Bernanke in favore dell'espansione quantitativa è basata sulla teoria del "portafoglio bilanciato", che afferma che, quando la Banca centrale compra titoli obbligazionari, cresce la domanda di altri beni, in particolare le azioni, da parte degli investitori, e questo porta a un aumento del loro prezzo e a un incremento della ricchezza e della spesa delle famiglie. I prezzi delle azioni sono già cresciuti del 10% da quando Bernanke ha parlato di questo approccio. Ma quanto cresceranno ancora, e quali saranno le ripercussioni sul Pil?
Per la prima domanda non sono d'aiuto né la teoria né l'esperienza passata. L'incremento del corso delle azioni indotto dall'espansione quantitativa forse in gran parte c'è già stato, per effetto delle aspettative. Una stima ottimistica potrebbe essere un altro 10 per cento. Considerando che le famiglie detengono circa 7mila miliardi di dollari in azioni, questo comporterebbe un aumento della ricchezza di 700 miliardi di dollari, che farebbe crescere la spesa per i consumi di circa lo 0,25% del Pil, un effetto gradito ma drammaticamente limitato per quanto riguarda i redditi e l'occupazione.
Anche gli altri potenziali effetti positivi dell'espansione quantitativa sul Pil sono limitati. Una riduzione dei tassi dei mutui di 20 punti base servirebbe a poco per rilanciare il mercato immobiliare in un momento in cui i prezzi hanno ricominciato a scendere. La maggiore liquidità delle banche non porterebbe alcun vantaggio perché le banche hanno già grosse riserve eccedenti; le grandi aziende traboccano di liquidità; le piccole imprese che non spendono perché non riescono a ottenere prestiti non ne ricaveranno benefici perché le banche da cui dipendono sono a corto di capitali.
La verità è che la Fed non può fare molto altro per potenziare l'attività economica. Serve un'iniziativa da parte del presidente e del Congresso: per aiutare i proprietari di una casa che si ritrovano con un immobile che vale meno del debito che gli resta da rimborsare, per rimuovere il pericolo di un aumento delle tasse e per ridurre il deficit degli anni a venire. Qualunque misura di espansione quantitativa dovrà essere limitata e temporanea.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© FINANCIAL TIMES
Nessun commento:
Posta un commento