di José Antonio Ocampo
Il Sole 24 Ore
12 novembre 2010
NEW YORK
Il dibattito di questi giorni sulla guerra delle valute mette in evidenza due aspetti paradossali dell'economia globale. Il primo è che non esiste alcun meccanismo che metta in relazione le regole del commercio mondiale con le fluttuazioni dei tassi di cambio. Dopo che i paesi passano anni a negoziare delle regole condivise per il commercio internazionale, le fluttuazioni dei tassi di cambio possono, in pochi giorni, avere sul commercio un impatto maggiore di tutti quegli accordi faticosamente concordati. Inoltre, le fluttuazioni dei tassi di cambio sono essenzialmente determinate dai flussi finanziari e possono quindi non contribuire in alcun modo alla correzione degli squilibri commerciali globali.
Il secondo paradosso è che un'espansione della propria base monetaria può essere del tutto inefficace all'interno del paese che l'adotta, ma può generare importanti esternalità negative sugli altri. Questo è ancora più vero nel caso dell'alleggerimento quantitativo attualmente in atto negli Stati Uniti, dato che il dollaro americano è la principale valuta di riserva globale.
Finora, durante la crisi finanziaria e la conseguente recessione, gli Stati Uniti non sono riusciti a rilanciare la crescita del credito, che è il meccanismo principale attraverso il quale una politica monetaria espansiva impatta sull'attività economica nel mercato interno. Al contrario, gli stessi hanno provocato un enorme flusso di capitali verso i mercati emergenti, dove stanno generando bolle nei prezzi degli assets. Indebolendo il dollaro, però, questa politica comporta effetti negativi sui loro partner commerciali (e lo stesso vale per le politiche monetarie recentemente adottate dal Giappone).
Alcune proposte sono attualmente al vaglio per affrontare il primo di questi paradossi permettendo ai paesi di ricorrere al meccanismo di risoluzione delle controversie in seno all'Organizzazione Mondiale del Commercio quando vi sia il sospetto di una manipolazione del tasso di cambio. Ma questo sarebbe un errore, in quanto servirebbe solo ad indebolire uno dei pochi meccanismi oggi capaci di rendere vincolanti gli accordi multilaterali.
L'imposizione unilaterale di dazi di compensazione contro i paesi sospettati di manipolare il proprio tasso di cambio sono egualmente da evitare, anche se questo non significa certo che la Cina non debba fare degli sforzi per aggiustare il valore artificialmente basso delle propria valuta, sebbene le si debba riconoscere che sta già contribuendo a risolvere il problema attraverso un innalzamento dei salari all'interno del proprio territorio.
Un modo migliore di procedere sarebbe quello di ripensare seriamente il ruolo della regolamentazione dei movimenti internazionali di capitale. Se c'è un aspetto su cui quasi tutti sono stati d'accordo durante la crisi, questo è che la deregolamentazione delle attività finanziarie può causare grande instabilità macroeconomica.
Il G-20, tuttavia, ha posto l'accento su un aggiornamento della regolamentazione finanziaria soltanto all'interno dei confini nazionali, lasciando le operazioni finanziarie transfrontaliere completamente fuori dalla propria agenda, come se non richiedessero alcuna regolamentazione e, di fatto, come se non facessero parte della finanza globale. Un peculiare artificio linguistico è usato al riguardo: mentre la regolamentazione finanziaria all'interno dei confini nazionali si chiama col proprio nome, la regolamentazione finanziaria internazionale viene chiamata controllo.
Una discussione seria sulla regolamentazione dei movimenti globali di capitale farebbe del bene sia ai paesi avanzati che alle economie di mercato emergenti. L'efficacia di un'espansione monetaria può essere accresciuta nei paesi avanzati riducendo le rapide fuoriuscite di capitale dovute al carry trade e a simili pratiche della finanza internazionale.
D'altronde, questo non implicherebbe che un ritorno verso il principio fondativo del FMI: è nel miglior interesse di tutti i membri permettere ai paesi di perseguire le proprie politiche macroeconomiche di piena occupazione, anche qualora questo implichi una regolamentazione dei movimenti di capitale. È per questa ragione che tale regolamentazione è permessa dal FMI e che il tentativo di introdurre la convertibilità dei capitali nello statuto del FMI è stato sconfitto nel 1997.
I mercati emergenti avrebbero molto da guadagnare da una correzione degli incentivi all'arbitraggio tra i tassi d'interesse, che sono all'origine dei movimenti di capitale. Una riforma del genere fungerebbe anche da meccanismo di coordinamento a livello internazionale, visto che un coordinamento nella regolamentazione finanziaria tra i paesi importatori netti di capitale sarebbe difficile da ottenere. In assenza di un tale coordinamento, gli approcci unilaterali adottati recentemente potrebbero generare ulteriori distorsioni.
Questo tipo di correzione permetterebbe anche ai paesi emergenti di perseguire le politiche monetarie restrittive di cui hanno ora bisogno, data la loro maggiore solidità macroeconomica. Il mondo sarà infatti caratterizzato per molti anni da una forte asimmetria tra la debolezza dei paesi avanzati e la forza delle economie emergenti: questo implica che anche le politiche monetarie adottate da questi due gruppi di paesi debbano rispecchiare la stessa asimmetria. In assenza di una qualche forma di regolamentazione finanziaria internazionale, non sarà facile gestire questo processo.
Molti tipi di regolamentazione sono estremamente sensati, come il FMI ha riconosciuto più volte. Un esempio è il requisito della creazione di un accantonamento precauzionale sui movimenti internazionali. I fondi comuni d'investimento ed altri fondi privati richiedono dei termini minimi d'investimento: simili restrizioni sulla disponibilità del proprio capitale dovrebbero essere applicate anche agli afflussi di capitale. Per alcuni tipi di transazione si dovrebbero imporre ingenti requisiti di capitalizzazione e consistenti accantonamenti per ragioni di prudenza, se proprio non li si vuole proibire completamente. Questo vale in particolar modo per la concessione di prestiti in valuta estera ad agenti economici che non hanno entrate in tale valuta.
Avrebbe senso, in generale, imporre requisiti di capitalizzazione per possibili squilibri valutari nel proprio portafoglio, insieme a requisiti di margine sui derivati in valute estere. I contratti futures non trasferibili dovrebbero essere soggetti ad un'attenta regolamentazione e supervisione nei paesi di origine e destinazione. Infine, l'introduzione di una tassa sulle transazioni in valuta estera la cosiddetta Tobin tax, proposta dal premio Nobel per l'economia James Tobin potrebbe essere una politica estremamente facile da implementare.
José Antonio Ocampo, professore alla Columbia University, è stato Sottosegretario Generale agli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite e Ministro delle Finanze in Colombia.
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