Il ritorno della fiducia riduce l’interesse per gli interventi pubblici
I paralleli con i paletti di Mattioli e i dilemmi della nuova finanza che si occupa di tutto: dal welfare al trading
Massimo Mucchetti
Corriere della Sera
30/9/09
Nel giorno in cui Unicredit e Intesa Sanpaolo decidono di affrontare i problemi con le forze proprie e del mercato, anziché ricorrere ai Tremonti bonds, conviene ragionare sulla dichiarazione con cui il ministro dell’Economia aveva raccomandato l’emissione delle obbligazioni che portano il suo nome: «Le banche non possono dettare la linea ai governi». Sul piano generale Tremonti ha ragione. La politica ha una legittimazione più vasta e profonda della banca. L’azione dei governi e dei parlamenti trova la sua forza e il suo limite nelle elezioni a suffragio universale e nelle altre forme di indirizzo e controllo democratico che si esprimono nel territorio. Le banche private e privatizzate, invece, rispondono a un’entità liquida e inafferrabile, senza volto né patria, e perciò stesso non democratica: il mercato finanziario internazionale. Il ministro vorrebbe riportare l’economia dentro la democrazia ridefinendo i rapporti tra governo, imprese e banche, ma le sue soluzioni sembrano restare al di qua di questo problema di fondo ereditato dal Novecento.
Il primato delle banche non è una novità. Il mondo l’aveva già sperimentato nei primi decenni del secolo scorso: negli Usa con quelli che il grande giurista Louis Brandeis, inascoltato dalla politica per vent’anni, chiamava i money trust di Wall Street; in Italia con la mostruosa fratellanza siamese tra banca e impresa, per usare le parole del banchiere- umanista Raffaele Mattioli. Quel primato generò il crac del ’29. Poi, per mezzo secolo, le banche vennero ridimensionate a raccoglitrici di depositi e creditrici delle imprese. Mentre la finanza veniva lasciata ai finanzieri, i governi guidavano i grandi investimenti infrastrutturali direttamente o attraverso istituti di credito speciale e il welfare era assicurato da istituzioni statali o dalla contrattazione sindacale nei grandi gruppi privati. Con la rivoluzione reaganian-thatcheriana, la banca ha riconquistato il centro della scena. Trasformando il credito in finanza, ha messo le famiglie in grado di consumare più di quanto avrebbero loro consentito i redditi da lavoro. Concentrandosi fra loro, le principali banche sono diventate troppo grandi per fallire. Legando sempre più pensioni e sanità ai fondi privati e assicurativi, la banca- finanza ha svincolato il welfare dallo Stato e dalle imprese e ne ha sostanzialmente assorbiti gli enormi flussi monetari. In Italia meno che altrove, ma ci sta provando.
È in questa mutazione profonda e globale che si ripropone la supremazia della banca-finanza, non certo nei discorsi che può fare un banchiere, esercitando i suoi diritti di cittadinanza. Ed è su questa mutazione che, ove la si consideri pericolosa, si deve intervenire per riequilibrare i poteri reali tra politica, banca- finanza, e imprese. Ma come? La Robin Tax e i Tremonti bond hanno rivelato scarsa tempestività e finalità incerte, e comunque proporzionate alle loro modeste dimensioni: la prima ha tosato le banche quando ormai producevano meno lana e quella poca serviva per affrontare la gelata dell’economia; i secondi sono serviti - il loro annuncio è servito, e questo è stato riconosciuto da Unicredit e Intesa Sanpaolo - a «tenere» nel dopo Lehman, ma adesso che la fiducia è tornata sui mercati le loro condizioni li rendono poco interessanti per quanti hanno alternative meno onerose e invasive e, soprattutto, migliori. La scelta, al dunque, è stata economica. Unicredit non prende aiuti nemmeno in Austria. Vara un aumento di capitale che rafforza stabilmente la banca perché non si restituisce. Ne riduce il profilo di rischio, e dunque «lima» il costo della raccolta e può aiutare l’erogazione del credito. Intesa Sanpaolo segue un percorso più complesso, articolato su obbligazioni speciali e cessioni di cospicue attività marginali. Ma già oggi l’assicurazione del suo debito è tra le meno care d’Europa e la struttura patrimoniale è tale da poter soddisfare anche una domanda di prestiti più alta dell’attuale.
Certo, la pressione polemica contro i banchieri può stimolarli a essere un po’ più «generosi». Ma il credito resta un contratto privato e non può diventare un diritto civile a prescindere dal merito di chi lo chiede. Diversamente, chi e come tutelerebbe i depositanti? Non è dunque con la mera polemica che si smonta la banca-finanza. Negli anni Trenta, gli Usa approvarono il Glass-Steagall Act e la l’Italia la riforma bancaria ispirata da Alberto Beneduce per separare il credito commerciale dall’investimento finanziario e risistemare le banche sul sedile posteriore. Sarebbe illusorio riproporre sic et simpliciter quei modelli, ma bisognerà pure far sì che nel mondo - più negli Usa che in Italia - le nuove disponibilità, ottenute in virtù delle garanzie pubbliche, si indirizzino verso la produzione e non ancora verso il trading dei titoli. In mancanza di un pensiero politico forte, tante tensioni verbali faranno forse da sponda a qualche regolamento di conti che promuova un banchiere amico, ma alla fine lasceranno il campo a quanti ritengono che basti un po’ di manutenzione del sistema: qualche ritocco ai bonus, un inasprimento dei requisiti patrimoniali, ma con comodo, un bel codice etico.
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