mercoledì 30 settembre 2009

Scelta di mercato e riforme ancora da fare

Il ritorno della fiducia riduce l’interesse per gli interventi pubblici

I paralleli con i paletti di Mattioli e i dilemmi della nuova finanza che si occupa di tutto: dal welfare al trading

Massimo Mucchetti
Corriere della Sera
30/9/09

Nel giorno in cui Unicredit e Intesa Sanpaolo decidono di affrontare i pro­blemi con le forze proprie e del mer­cato, anziché ricorrere ai Tremonti bonds, conviene ragionare sulla di­chiarazione con cui il ministro del­l’Economia aveva raccomandato l’emissione delle obbligazioni che portano il suo nome: «Le banche non possono dettare la linea ai governi». Sul piano generale Tremonti ha ra­gione. La politica ha una legittimazio­ne più vasta e profonda della banca. L’azione dei governi e dei parlamenti trova la sua forza e il suo limite nelle elezioni a suffragio universale e nelle altre forme di indirizzo e controllo de­mocratico che si esprimono nel terri­torio. Le banche private e privatizza­te, invece, rispondono a un’entità li­quida e inafferrabile, senza volto né patria, e perciò stesso non democrati­ca: il mercato finanziario internazio­nale. Il ministro vorrebbe riportare l’economia dentro la democrazia ride­finendo i rapporti tra governo, impre­se e banche, ma le sue soluzioni sem­brano restare al di qua di questo pro­blema di fondo ereditato dal Nove­cento.

Il primato delle banche non è una novità. Il mondo l’aveva già speri­mentato nei primi decenni del seco­lo scorso: negli Usa con quelli che il grande giurista Louis Brandeis, ina­scoltato dalla politica per vent’anni, chiamava i money trust di Wall Stre­et; in Italia con la mostruosa fratel­lanza siamese tra banca e impresa, per usare le parole del banchie­re- umanista Raffaele Mattioli. Quel primato generò il crac del ’29. Poi, per mezzo secolo, le banche vennero ridimensionate a raccoglitrici di de­positi e creditrici delle imprese. Men­tre la finanza veniva lasciata ai finan­zieri, i governi guidavano i grandi in­vestimenti infrastrutturali diretta­mente o attraverso istituti di credito speciale e il welfare era assicurato da istituzioni statali o dalla contrattazio­ne sindacale nei grandi gruppi priva­ti. Con la rivoluzione reaganian-tha­tcheriana, la banca ha riconquistato il centro della scena. Trasformando il credito in finanza, ha messo le fami­glie in grado di consumare più di quanto avrebbero loro consentito i redditi da lavoro. Concentrandosi fra loro, le principali banche sono diven­tate troppo grandi per fallire. Legan­do sempre più pensioni e sanità ai fondi privati e assicurativi, la ban­ca- finanza ha svincolato il welfare dallo Stato e dalle imprese e ne ha so­stanzialmente assorbiti gli enormi flussi monetari. In Italia meno che al­trove, ma ci sta provando.

È in questa mutazione profonda e globale che si ripropone la suprema­zia della banca-finanza, non certo nei discorsi che può fare un banchiere, esercitando i suoi diritti di cittadinan­za. Ed è su questa mutazione che, ove la si consideri pericolosa, si deve in­tervenire per riequilibrare i poteri rea­li tra politica, ban­ca- finanza, e im­prese. Ma come? La Robin Tax e i Tremonti bond han­no rivelato scarsa tempestività e finalità incerte, e comunque proporzionate alle loro modeste dimensioni: la prima ha tosato le banche quando ormai producevano me­no lana e quella poca serviva per af­frontare la gelata dell’economia; i se­condi sono serviti - il loro annuncio è servito, e questo è stato riconosciu­to da Unicredit e Intesa Sanpaolo - a «tenere» nel dopo Lehman, ma ades­so che la fiducia è tornata sui mercati le loro condizioni li rendono poco in­teressanti per quanti hanno alternati­ve meno onerose e invasive e, soprat­tutto, migliori. La scelta, al dunque, è stata economica. Unicredit non pren­de aiuti nemmeno in Austria. Vara un aumento di capitale che rafforza sta­bilmente la banca perché non si resti­tuisce. Ne riduce il profilo di rischio, e dunque «lima» il costo della raccol­ta e può aiutare l’erogazione del credi­to. Intesa Sanpaolo segue un percor­so più complesso, articolato su obbli­gazioni speciali e cessioni di cospi­cue attività marginali. Ma già oggi l’assicurazione del suo debito è tra le meno care d’Europa e la struttura pa­trimoniale è tale da poter soddisfare anche una domanda di prestiti più al­ta dell’attuale.

Certo, la pressione po­lemica contro i ban­chieri può stimolarli a essere un po’ più «generosi». Ma il cre­dito resta un contrat­to privato e non può di­ventare un diritto civile a prescindere dal merito di chi lo chiede. Diversa­mente, chi e come tutelereb­be i depositanti? Non è dunque con la mera polemica che si smon­ta la banca-finanza. Negli anni Trenta, gli Usa approva­rono il Glass-Steagall Act e la l’Italia la riforma bancaria ispirata da Alber­to Beneduce per separare il credito commerciale dall’investimento finan­ziario e risistemare le banche sul sedi­le posteriore. Sarebbe illusorio ripro­porre sic et simpliciter quei modelli, ma bisognerà pure far sì che nel mon­do - più negli Usa che in Italia - le nuove disponibilità, ottenute in virtù delle garanzie pubbliche, si indirizzi­no verso la produzione e non ancora verso il trading dei titoli. In mancan­za di un pensiero politico forte, tante tensioni verbali faranno forse da sponda a qualche regolamento di con­ti che promuova un banchiere amico, ma alla fine lasceranno il campo a quanti ritengono che basti un po’ di manutenzione del sistema: qualche ri­tocco ai bonus, un inasprimento dei requisiti patrimoniali, ma con como­do, un bel codice etico.

Nessun commento:

Posta un commento