Da Il Riformista
di Marco Ferrante
Una storia infinita
30/9/09
Le due principali banche italiane hanno rifiutato i Tremonti bond. Per rafforzare la patrimonializzazione, Unicredit varerà un aumento di capitale da 4 miliardi e Intesa Sanpaolo procederà con dismissioni e con 1,5 miliardi di obbligazioni. Questo epilogo segna una battuta d’arresto nella strategia di espansione del ministro dell’Economia sul sistema bancario.
I due istituti più grandi hanno preferito non concedere spazio al Tesoro. La preoccupazione delle banche sta tutta in una battuta di qualche giorno fa di Enrico Salza, presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo: piuttosto che prendere i Tremonti bond meglio essere nazionalizzati.
Ma l’esito di ieri pone un’altra questione: da un punto di vista politico quanto paga lo scontro di Giulio Tremonti con i banchieri, le banche e una parte del mondo finanziario? Tremonti cominciò una campagna antibancaria quasi sette anni fa, quando scoppiarono il caso Parmalat e quello dei bond argentini.
Le banche furono accusate di aver collocato, nel silenzio della Banca d’Italia, il debito obbligazionario della periclitante Parmalat spostando di fatto il rischio di default dell’azienda dai loro bilanci ai portafogli dei risparmiatori; e di non aver avvertito gli stessi risparmiatori dei rischi connessi ai buoni del tesoro argentini (rischi che erano peraltro segnalati dagli alti tassi d’interesse a cui venivano proposti i buoni).
Già da allora Tremonti cominciava a maturare una strategia espansiva fatta di due braccia. Far sentire il suo peso di ministro dell’Economia forte sulle banche e sulle fondazioni e darsi una prima forma di carnalità politica scegliendo un tema che in quel momento poteva sembrare popolare: la difesa di alcune centinaia di migliaia di consumatori rispetto allo strapotere delle banche. Ma nonostante il Tapiro di Striscia la Notizia ad Antonio Fazio, né Parmalat, né l’Argentina smossero le masse. La protesta rimase confinata solo entro una quota di popolazione che era rimasta interessata da quei fatti. Nel 2004 Tremonti lasciò il ministero (anche a causa delle tensioni che aveva innescato con le banche e ancora di più con le fondazioni da cui era stato sconfitto in un durissimo scontro di potere, fatti che avevano allarmato Silvio Berlusconi). Tornò nel 2005 in tempo per l’addio di Fazio che lui aveva combattuto come difensore delle banche, ma che in realtà non se n’era andato trascinato da una sommossa popolare, ma deciso alle dimissioni dalla mutata situazione negli equilibri di potere dopo il fallimento delle scalate bancarie su Bnl e Antonveneta che da governatore aveva sostenuto. (Anche dopo le dimissioni di Fazio, negli anni ha continuato una strategia di pressione sulla Banca d’Italia: dalla norma del gennaio 2006 che prevede la statizzazione, mai attuata, dell’istituto con la conseguente nazionalizzazione delle quote detenute dalle banche, fino al recente tentativo di tassare le plusvalenze delle riserve auree, con le frizioni seguitene con Bce e Quirinale).
Ma neppure in quella fase post-scalate il rapporto tra banche e utenti diventò un fatto su cui costruire consenso popolare. Tanto che, quando il governo Prodi si insediò nel 2006, l’introduzione della class action nella lenzuolata di Pierluigi Bersani fu subito giudicata dagli osservatori solo come un’operazione di marketing politico più diretto alle pressanti associazioni consumeriste che non alle masse (non organizzate) dei consumatori. La class action è stata lentamente ridimensionata, fino a essere sostanzialmente smontata dal governo attuale. Molti pensano - probabilmente a ragione - che sia inadatta al sistema italiano, sarebbe troppo penalizzante per le imprese perché la giustizia è lenta e perché non esistono ammortizzatori economici tali da consentire alle imprese di riprendersi dopo una multa (negli Stati Uniti, dove pure è messa in discussione, il sistema economico è più elastico). Ma certo è che in questi mesi il depotenziamento della class action non ha provocato reazioni da parte dell’opinione pubblica, dei consumatori, della gente, delle casalinghe, dei movimenti ecc. ecc. Perché questo tema è oggi meno popolare di quello che si immagini.
Tremonti ha cercato un’altra strada per spingere in direzione antibancaria lo stato d’animo collettivo proponendo lo scorso anno la Robin tax sui cosiddetti extraprofitti che colpiva anche le imprese petrolifere. Ma anche questa mossa non ha innescato movimenti di popolo. Gli italiani non amano la burocrazia bancaria come non amano quella degli uffici anagrafe, ma nemmeno nel momento più duro della crisi economica sono insorti contro le banche ritirando il denaro dai conti correnti.
Certo, esiste una crescente diffidenza da parte soprattutto della piccola e media impresa del nord nei confronti della rigidità del nostro sistema bancario, resa più stringente da Basilea 2. Ma che non si siano creati i presupposti per una rivoluzione dell’opinione pubblica viene confermato da due osservazioni distinte.
La prima: Silvio Berlusconi, cioè il politico italiano da sempre più a contatto con la pancia dell’opinione pubblica non ha finora mai utilizzato i temi finanziari nella sua agenda alla ricerca del grande consenso popolare. Recentemente ha ricordato che avendo suo padre lavorato in banca, conosce bene le difficoltà del sistema bancario nel rapporto con la clientela. Sarà per questo, o per il fatto che i rapporti bancari sono costruiti sulla fiducia (fattore fondante secondo Berlusconi per uscire dalla crisi), o sarà per la costituency delle sue relazioni nel risiko finanziario, certo è che non ha mai trattato le banche come nemici - spesso, semmai, come avversari i banchieri che vanno alle primarie del Pd.
La seconda osservazione parte dalle rilevazioni sulla fiducia. La grande crisi finanziaria globale è nata ai margini del sistema bancario anglosassone. Ancora a gennaio una ricerca Eurisko – che viene effettuata dal 1987 – su un campione rappresentativo di 19 milioni di famiglie dice che il sistema bancario italiano è più sicuro di quello estero (67 per cento). Come spiega Nando Pagnoncelli di Ipsos, «la reazione degli italiani è ambivalente. Se si chiede qual è in generale la fiducia nelle banche, il dato è molto basso, ma se si chiede qual è la fiducia nella vostra banca il dato sale. In generale l’indice di fiducia calato sotto il 30 lo scorso anno è risalito sopra il 30 quest’anno». Dunque, le banche funzionano un po’ da alibi politico, e un po’ servono come avversario per definire l’identità di chi le attacca.
Indipendentemente dalle decisioni prese ieri da Unicredit e Intesa Sanpaolo, resta una questione politica aperta per Giulio Tremonti. Il suo contributo alla cultura del centrodestra nasce negli anni Novanta con un paio di libri molto interessanti sullo stato criminogeno e sulla fiera delle tasse. Lentamente ha spostato il centro delle sue riflessioni sulla globalizzazione e sul ruolo dei poteri che non dipendono dagli stati (tra questi la finanza) e sul rapporto tra economia e diritto. Quanto vale oggi per lui la campagna contro le banche e i banchieri? Perché vi profonde tanta energia? Spiegano gli analisti del consenso che la campagna antibancaria contribuisce per una fetta alla crescita della popolarità del ministro dell’economia, valutata nel complesso sopra il 50 per cento, valore tra i più alti in questo momento. Tremonti riceve dalla campagna antibancaria un dividendo politico che contribuisce a comporre il suo capitale di fiducia, ma rischia di pagare quel dividendo in termini di consenso personale con una parte delle élite (anche se nel corso degli anni i suoi rapporti borghesi sono cresciuti), e di rafforzamento nel centrodestra di forme di diffidenza sociale e di populismo.
Secondo le analisi, nella composizione del consenso personale del ministro, più che il Tremonti antibancario conta - tanto più in assenza di opposizione politica - il ruolo del ministro dell’Economia in quanto tale, quando sostiene lo sforzo del governo sugli ammortizzatori sociali, quando dice che «nessuno resterà indietro» o quando dialoga con il sindacato. Cioè, quando alla costruzione della sua leadership lavora con azioni di inclusività politica.
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