mercoledì 30 settembre 2009

«Il Festival del diritto, un flop. Folla solo ai concerti gratis»

Snobbati Garimberti, Freccero e Calabresi. Va meglio al giudice Cataldo, ma come giallista
A Piacenza teatri mezzo vuoti, folla solo ai concerti gratis

Mauro Romano
Italia Oggi
28 settembre 2009

Si è concluso domenica scorsa il Festival del diritto organizzato dal Comune di Piacenza che è retto da una giunta di centro sinistra. L'iniziativa ha voluto inserirsi sulla scia dei vari festival della letteratura o della filosofia che hanno avuto successo in altre province italiane. Questi ultimi sono, essenzialmente, occasioni di turismo culturale ipersemplificato di massa che si basa su due fattori. Il primo è che, chi vi partecipa, si sente gratificato perché si sente riconoscere, senza grandi sforzi e particolari verifiche, la sua qualità di intellettuale-intelligente e cosmopolita. Il secondo è che si possono avvicinare gli autori, letterati o filosofi che essi siano (meglio i secondi dei primi, fanno più fino), per farsi rilasciare delle dediche appassionate e tornare a casa dicendo agli amici: «Sai che ho visto questo e quello?».

È, in fondo, questa la stessa formula che il comune di Piacenza ha voluto riprodurre sul tema del diritto ma che, in questo caso ha fatto cilecca.

Primo perché nessuno torna a casa soddisfatto per dire agli amici che ha visto Guido Rossi o Stefano Rodotà. Né oserebbe (a meno di essere cerebroleso) chiedere a costoro una dedica affettuosa.

Secondo, perché gli addetti ai lavori nel settore giuridico dispongono in Italia di un sacco di occasioni di incontri molto più specializzati e autorevoli nei quali dibattere i temi giuridici di attualità.

Terzo, perché, tenendo conto del punto poc'anzi illustrato, un Festival del diritto erga omnes, di tipo popolare, come quello organizzato dal Comune di Piacenza, finisce per essere, come poi si è connotato, non un Festival del diritto ma della politica.

Non a caso, fra i relatori più reclamizzati c'erano, in due separati incontri, il presidente della Rai, Paolo Garimberti, il presidente di Rai Sat, Carlo Freccero, e, in un altro incontro ancora, il direttore de la Stampa, Mario Calabresi, delle cui competenze giuridiche non c'è alcuna traccia nel loro curriculum.

Oppure si è puntato su Giancarlo De Cataldo, non perché egli sia un giudice (come lui ce ne sono migliaia in Italia) ma perché egli è una scrittore giallista molto noto. Il risultato di queste scelte è che, anche se a Piacenza c'è un'ottima facoltà di girusprudenza della Università Cattolica, e nonostante l'iniezione volonterosa di studenti a far da pubblico, i dibattiti erano tutti quasi deserti. La tavola rotonda con Paolo Garimberti (alla quale avrebbe dovuto partecipare anche Fedele Confalonieri di Mediaset, che però ha dato forfait solo all'ultimo) condotta addirittura da un editorialista del Financial Times (tanto per non farsi mancare niente) e con altri due autorevoli relatori, aveva un pubblico di 98 persone (il vostro cronista, per scrupolo, le ha contate) anche se si teneva di sabato, giorno di riposo, in uno splendido teatrino (la Filodrammatica), in pieno centro e nelle ore di mercato quando, dopo essersi preso una pasta deliziosa dal «Bar Galetti» (merita sempre una sosta), uno avrebbe sempre potuto fare un passo alla «Filo» giusto per vedere chi c'era e che cosa stava succedendo. E invece no. Gli altri incontri avevano anche solo venti persone di pubblico, compresi gli impiegati del Comune che erano stati vivamente pregati di farsi vedere. Per fortuna che c'erano, a fare massa nelle location più imbarazzanti, come il salone medioevale del Palazzo Gotico, i giovani «deportati» scolastici (per i quali vale il motto evergreen, sempreverde: «Meglio il Festival del diritto che una mattinata di lezioni»). L'evento poi è stato pubblicizzato sulla stampa locale con titoli che evidenziavano, strabuzzando gli occhi, la «massa di giovani al Festival». Titolo che, potenza della lingua, era vero e falso allo stesso tempo. Oso escludere, per il bene dell'università italiana, che, agli universitari che hanno frequentato questo Festival siano stati accordati (com'è successo in molte altre occasioni simili, specie al Sud) i soliti crediti che servono a impudicamente semplificare il loro percorso accademico.

Che il Festival del diritto di Piacenza sia stato un costoso fallimento lo dimostra del resto il fatto che nessuno, proprio nessuno, dei temi in esso trattati è uscito dalla cerchia cittadina. Nessun media nazionale infatti se è accorto che a Piacenza ferveva né questo Festival né questo dibattito. Solo i due quotidiani locali («la Libertà» e «la Cronaca») ci si sono doverosamente gettati a capofitto, dedicando al Festival del diritto dalle 4 alle 5 pagine quotidiane e dimostrando cosi che il Festival costava come se fosse stato un evento nazionale (un milione di euro in tutto, quando i conti complessivi saranno fatti) e si è invece connotato come un evento assolutamente provinciale che, se ci fosse attenzione all'oculato uso delle risorse pubbliche, dovrebbe essere quanto prima abolito. Al costo di quest'evento inutile, infatti, tanto per dare un'idea, si potrebbero pagare 85 mila pranzi completi alla Caritas, destinazione, questa, alla quale un'amministrazione di centro sinistra come quella di Piacenza e anche le fondazioni che hanno concorso a finanziare questo Festival, non dovrebbero essere insensibili, particolarmente in questo momento di crisi.

In compenso, hanno avuto un grande successo di pubblico i numerosi concerti veramente pregevoli e «agratis» (ha pagato Pantalone, grazie) fra i quali emergono quello di jazz in piazza Cavalli e il concerto al Teatro Municipale dell'Ensemble Berlin, oltre alle molte altre occasioni di intrattenimento, anche teatrali, delle quali ci sfugge (ma potremmo essere noi, i distratti) le connessioni con il diritto.

E, sempre in compenso, grazie al Festival (domestico) del diritto, i piacentini, che sono abituati a vivere in una città tranquilla fino all'assopimento, hanno provato, per tre giorni di seguito, il brivido di vivere a Beirut o a Bagdad con i cortei insonni di macchine blindate con i lampeggianti accesi, le sirene dispiegate e lo stridìo arrabbiato delle gomme che sibilavano nelle anguste strade medioevali del centro per poter scorazzare, di qui e di là, i potenti del diritto calati soprattutto da Roma al fine di partecipare a questo infinito «Porta a porta».

Un «Porta porta» non stop, tipo «Isola dei famosi». Anche se, con in più, una noia più pervasiva del borotalco. Infatti, come si è detto, mancava il pubblico. E poi, a dirci il vero, da questo un-ending, ininterrotto, e fluviale «Porta a porta» mancava solo Bruno Vespa. Ma l'anno prossimo, adeguando il budget, si potrebbe provvedere. È un'idea. Buttata lì, con nonchalance. Che speriamo però, sia chiaro, non sia accolta. Meglio precisare perché, questi qui, potrebbero anche prenderti sul serio.

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