di Marco Ferrante
«Poiché il 90 per cento della sinistra italiana è fatta di riformisti per forza, ora i suoi dirigenti e i suoi intellettuali si trovano nella paradossale situazione di mangiarsi le mani perché avrebbero voluto scrivere loro il libro di Tremonti».
Da il Riformista
9/4/09
La discussione sul rapporto tra diritto ed economia, regole e mercato, che ha portato alla costituzione di un comitato di consulenza al ministero dell’Economia, dove si discute di legal standard, non ha ancora suscitato un vero dibattito a sinistra. Per almeno due ragioni.
La prima è lo spiazzamento, il continuo processo di metamorfosi che prima la fine della storia e poi la sua improvvisa ripresa ha imposto alla sinistra italiana. Dice Nicola Rossi, senatore del Pd: «Credo che il richiamo all’idea di più regole sia congeniale alla pancia del centrosinistra italiano, ma mi sembra che ci si arrivi troppo tardi, dopo Giulio Tremonti. D’altra parte, la difesa del mercato non è mai stata davvero assorbita a sinistra. Dunque, direi che, poiché il 90 per cento della sinistra italiana è fatta di riformisti per forza, che hanno dovuto controvoglia praticare cose che erano altre, diverse, dalla loro formazione, ora i suoi dirigenti e i suo intellettuali si trovano nella paradossale situazione di mangiarsi le mani perché avrebbero voluto scrivere loro, La paura e la speranza, il libro di Tremonti».
C’è una seconda ragione, forse «contingente», come dice Rossi, che però ha un suo peso soprattutto per i riformisti. Vediamo.
La seconda ragione è questa: la cultura e la prassi politica da cui nasce la Grande Crisi Finanziaria si sono sviluppate proprio a sinistra, in quella forma di nuovo lib-lab nato negli anni 90 tra l’America di Bill Clinton e la Gran Bretagna di Tony Blair, sotto le insegne della terza via di Anthony Giddens, di cui furono parte pezzi cospicui della classe dirigente economica internazionale, da Robert Rubin a John Corzine, già Ceo di Goldman Sachs, attuale governatore del New Jersey.
L’innovazione dei terzaviisti fu di rubare il bagaglio del conservatorismo economico alla destra, a partire dalla politica fiscale. Come spiega un osservatore indipendente dei fatti italiani, Alberto Giovannini, già professore di economia e finanza a Columbia University, «successivamente – forse a causa di una specie di distrazione – accadde che poiché il mainstream politico ritenne che l’economia finanziaria era sempre in grado di aggirare i vincoli posti dai regolatori, tanto valeva che i regolatori non ficcassero il naso sull'evoluzione del mercato». L’effetto fu dunque che Stati Uniti e Gran Bretagna svilupparono implicitamente un’idea di politica economica costruita sul boost finanziario. Volete una casa? Finanziatevela al 100 per cento. Volete un’auto da 50.000 dollari? Idem. Questa impostazione trovò una formulazione anche nel conservatorismo di George W. Bush con la sua ownership society, la società dei proprietari.
La combinazione degli interessi politici ed economici consentì buoni ritmi di crescita, ma innescò una bolla finanziaria.
La polemica tremontiana sul mercatismo nasce dall’analisi di quella fase. Per Giulio Tremonti, il mercatismo è la zelante applicazione di un meccanismo sedicente liberale su cui si innesta un metodo postcomunista. In questa chiave la terza via fu un’espressione per l'appunto mercatista.
In Italia, dopo la prima fase degli anni 90 (privatizzazioni, pacchetto Treu, liberalizzazione dell’energia e prima fase della liberalizzazione del commercio), lo sviluppo del terzaviismo ha seguito un ulteriore percorso: prima la costituzione di un’area trasversale riformista, quella dei volenterosi, poi l’individuazione simbolica della cosiddetta agenda Giavazzi che individuava nell’azione culturale di uno degli editorialisti di punta del Corriere della Sera la strumentazione del liberalismo democratico; e infine il liberismo di sinistra, dal titolo di un fortunato pamphlet dello stesso Francesco Giavazzi con Alberto Alesina, in cui si sosteneva che gli effetti delle politiche liberiste sono di sinistra. Interessano ogni singolo cittadino, in quanto consumatore. Spingono alla crescita economica i cui effetti sono benefici per tutti. La crisi finanziaria dà vigore alla contestazione a questo tipo di approccio. C’è chi ritiene che l’obiettivo della crescita a tutti i costi sia sbagliato. E che sia sbagliata anche la difesa militante della finanza come strumento di democrazia economica.
Come ha scritto Paul Krugman due settimane fa sul New York Times: «È fallito un intero modello di banca, un sistema finanziario superfetato che ha fatto più male che bene». Il filone critico krugmaniano si sviluppa e spunta qua e là sempre più frequente. È appena uscito uno svelto pamphlet del Mulino firmato dall’economista Ronald Dore, che con un argomento krugmaniano, appunto, ha polemizzato con la tesi di Alesina e Giavazzi sulla tenuta del valore di un bene – per esempio una casa a Genova – garantito dalla copertura finanziaria della diversificazione dei rischi: «Godetevi la vostra casa e pensate serenamente che il potervi godere la vostra abitazione non è influenzato dal fatto che la vostra ricchezza immobiliare sia esposta alle fortune dell’economia genovese».
L’altra critica al liberismo di sinistra riguarda soprattutto i simboli utilizzati nella battaglia di idee. Non dovevano essere i taxi da liberalizzare (una giusta liberalizzazione che riguarda però una quantità limitata di beneficiari), ma semmai le linee aeree, l’elettricità e via dicendo, cioè settori di più ampio impatto sulla vita delle famiglie. Come ha detto il sociologo Bruno Manghi, in una intervista recente, la sinistra si è occupata di taxi, dimenticandosi di quello che stava accadendo nella finanza. Dice Nicola Rossi: «Sono obiezioni che non mi convincono: dei problemi finanziari si era perfettamente accorto per esempio un economista come Luigi Spaventa, e nei nostri documenti degli anni scorsi ci sono dei riferimenti ai rischi della finanziarizzazione. Quanto ai simboli non sono d’accordo. Nella prima stagione di governo, cioè negli anni 90, la sinistra italiana si è occupata di monopoli e di mercati aperti, fu la stagione delle Authority. In una seconda fase, poiché si era scoperto che era difficile vincere le resistenze di interi settori economici che tendevano alla conservazione, si è scelta la strada emblematica, taxi, farmacie, cioè le lenzuolate: ma i simboli non vanno sottovalutati».
Per alcuni la difesa della democrazia finanziaria non deve essere messa in imbarazzo dal fatto che la terza via sia stata messa ko dallo scoppio della crisi finanziaria. Una settimana fa Giavazzi ha scritto che l’America sta lavorando sulla leva finanziaria, mentre l’Europa, più arretrata, si concentra sulla questione della fissazione delle regole. Da questo punto di vista, Giulio Napolitano sul Riformista dell’altro giorno, ha notato che le differenze in questo tra Europa e America sono meno nette di quanto appaia. Giovannini dice: «La difesa della democrazia finanziaria nasce dalla preoccupazione che la cultura liberale in Italia è così fragile che ci vuole poco ad abbatterla». Spiega ancora Rossi: «C’è di sicuro la contingenza delle responsabilità della terza via, però noi dovremmo riprendere a discutere e a chiedere più libertà perché viviamo ancora in un paese dominato dall’iper-regolazione e da una cultura dello stato che si occupa regolarmente di quello di cui non dovrebbe occuparsi».
Ed è questa la ragione principale per cui i liberali (di sinistra, ma non solo in verità) sono poco disponibili alla questione posta dal ministro dell’Economia sulla necessità innanzitutto di ricondurre l’economia dentro un sistema di norme; e poi decidere, in un secondo momento, se ci piace di più il mercato o lo stato. Così l’ha spiegata lo stesso Tremonti in una risposta a un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Gregorio Gitti, professore di diritto privato alla statale di Milano, osserva: «Bisognerebbe puntare a ristabilire un equilibrio tra diritto ed economia. Anche solo pensando che nel deposito millenario delle norme civilistiche, c’è l’accompagnamento giuridico degli scambi economici».
Ma questo equilibrio per ora non trova spazio nella discussione. Per dare l’idea di come la dialettica su questi temi si sia incartata, è curiosa la discussione sugli ordoliberali, un gruppo di liberali tedeschi che dettero un contributo alla formulazione di economia sociale di mercato, su cui si reggerà l’ordinamento economico tedesco per tutta la seconda metà del Novecento. Gli antitremontiani non amano il riferimento agli ordoliberali. Eppure in un’intervento del 1998 all’Istituto Gramsci sul rinnovamento del pensiero liberale, Valerio Zanone, storico liberale di sinistra, uno dei fondatori del lib-lab italiano a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli 80, notava che nell’ordoliberalismo esiste un legame tra mercato e società aperta. Certo, si può discutere, si può dire che Eucken è un positivista, mentre Hayek crede nella norma come recepimento dell’ordine che scaturisce dal mercato, ma la sostanza - per quello che dovrebbe riguardare la crisi di fronte alla quale ci troviamo - non cambia: non c’è mercato senza legge e siccome noi abbiamo (molto) bisogno del mercato, in questo momento abbiamo assolutamente bisogno di legge. Insomma non ci sarebbe bisogno di prendersela tanto con gli ordoliberali, a meno che l’obiettivo non sia l’offensiva egemonica di Tremonti, il quale viene sospettato di utilizzare Eucken per recuperare in termini di potere un maggiore interventismo sull’economia, sotto la forma di primato politico delle regole sul mercato. Ma questo è un altro discorso, da regolare nei rapporti di forza oggi in campo.
In generale la crisi non sta producendo una discussione identitaria nel centrosinistra. «È un’opportunità, ma il confronto non è partito, molti cercano di tenere una visione difensiva per la conservazione di un patrimonio di consenso in calo», dice Gitti. Aggiunge Rossi: «Il problema è che la sinistra non solo è senza identità da offrire al paese, ma è incapace di generarne, la sua unica preoccupazione è rimuovere». Ma la cosa più singolare è che il tema in discussione - deve prevalere il diritto o l’economia? - non diventa un tema di battaglia neanche da parte di chi liberale non è, e non lo è mai stato - anticapitalisti, comunisti, no global - e che sulla prevalenza della legge sul mercato potrebbe costruire la rivendicazione di un successo ex post, di una vittoria culturale, il riconoscimento di una supremazia morale.
Ieri è stato presentato un documento firmato da tre economisti di centrosinistra, Emiliano Brancaccio, Paolo Leon e Stefano Fassina, che nella loro area politica sono stati culturalmente in minoranza ai tempi della terza via. E’ un contributo commissionato dai metalmeccanici e dalla funzione pubblica della Cgil - cioè dall’asse tra Gianni Rinaldini e Carlo Podda - con cui si apre la discussione in vista del congresso del prossimo anno. Il documento propone una sere di soluzioni di politica economica. Dice Fassina, della direzione nazionale del Pd e responsabile finanza pubblica ed economia internazionale del partito: «In questo documento affrontiamo anche il tema delle regole sociali e ambientali con cui il mercato dovrà confrontarsi, perché in questa fase la legge deve prevalere sull’economia. Certo, è singolare che proprio nel momento in cui crolla il fondamentalismo di mercato, la sinistra europea si ritrova al minimo storico. Il problema è che una parte di noi si è rifugiata nelle icone, nelle parole d’ordine del deficit spending, della proprietà pubblica e del lavoro fordista; mentre un’altra parte di noi è stata subalterna a una cultura che non era la nostra».
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