(28 aprile, 2007) Corriere della Sera
IL DUBBIO
Di Piero Ostellino
Ha scritto l' International Herald Tribune: «Il prossimo presidente sarà o un atlantista di centrodestra per il quale i francesi devono lavorare di più e pagare meno tasse, oppure una donna che persegue un programma economico di sinistra e l' ambizione di modernizzare il partito socialista». Commenta Jean Daniel, storico intellettuale della sinistra: «Una definizione molto sommaria, ma non errata». A sua volta, il no global Paul Ariès scrive: «I francesi sono affascinati dal sarkozismo così come altri lo sono stati dal blairismo, dal bushismo e dal berlusconismo (...), diverse versioni della stessa ideologia, la rivoluzione conservatrice mondiale». Bene. Se fossi francese, a me basterebbero la definizione del quotidiano americano e i giudizi di Daniel e di Ariès per convincermi a votare Sarkozy. Il quale, che piaccia o no, è il rappresentante di una politica al passo con i tempi, riformista, che Ariès - con l' abilità che ha la sinistra di chiamare conservatore il cambiamento e progresso l' immobilismo - interpreta come «la rivoluzione conservatrice mondiale», mentre è innovativa, rappresentativa del ceto medio che lavora, produce e vuole pagare meno tasse. Sarkozy è un uomo estraneo non solo al vecchio establishment, ma alla storica cultura francese - di destra come di sinistra - statalista, protezionista, antiamericana. Berlusconi - che non riesce mai a guardare oltre il proprio ombelico - dice che ha «copiato» dai suoi libri. Io ho ritrovato nel suo discorso, dopo il successo al primo turno, gli echi e persino le parole di Lord Acton per un liberalismo in difesa «del bambino storpio e della vittima di circostanze accidentali, dell' idiota e del pazzo, del miserabile e del reo, del vecchio e dell' ammalato, del curabile e dell' incurabile» in un contesto economico e sociale e con modalità politiche diversi rispetto a quelli in cui operava il grande cattolico-liberale inglese. Anche Ségolène Royal è, nell' ambito della sinistra e a suo modo, una novità. Ha sbaragliato la vecchia guardia socialista. Parla un linguaggio accattivante per i media - soprattutto quelli vicini alla sinistra, cui piace immaginarla modernizzatrice - e, contemporaneamente, programma di governare in modo tradizionale. Come, da noi, i nostri riformisti: innovatori (a parole), conservatori (al governo). Dice: «La responsabilità individuale e la ricompensa del merito non sono valori conservatori, ma progressisti (...), Tony Blair ha ottenuto innegabili successi (...), non basta difendere il servizio pubblico e il modello sociale: occorre riformarli per garantirne il futuro». Ma, poi, propone un programma contraddittorio: salario pubblico di un anno ai giovani che si affacciano sul mercato del lavoro, aumento di quello minimo e delle tasse, applicazione più rigorosa delle 35 ore lavorative (dopo averle criticate), rinazionalizzazione del settore energetico, barriere economiche e tasse contro la delocalizzazione delle aziende. Costo: 50 miliardi di euro. Bene. Se fossi francese, a me basterebbero questi dati di fatto per non votare Ségolène Royal. Ho ascoltato recentemente Pietro Ichino alla presentazione a Milano del bel libro di Luca Ricolfi (Le tre società, ed. Guerini), un altro uomo di sinistra che è penetrato nel territorio dell' individualismo metodologico, è diventato liberale, forse non lo sa ancora neppure lui ma, in ogni caso, non lo potrebbe dire senza correre il rischio di essere classificato di destra. Ha detto Ichino: sarebbe ora che chi non è più d' accordo con la sinistra votasse a destra e chi non è più d' accordo con la destra votasse a sinistra. In nome di un sano empirismo, della realtà «effettuale», non delle chiacchiere, aggiungo io.
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