Intervento in aula Regione Emilia-Romagna per il Piano Territoriale Regionale
di Marco Barbieri
Bologna, 18 ottobre
Sul far della sera, sono finalmente appartato da questa antica città veneranda e dotta, da tutta questa folla, che, sotto i suoi portici sparsi per quasi tutte le vie, può andare e venire, al riparo del sole e della pioggia, e baloccarsi, e fare acquisti e attendere ai fatti suoi. Son salito sulla torre a consolarmi all'aria aperta. Veduta splendida! A nord si scorrono i colli di Padova, quindi le Alpi svizzere, tirolesi e friulane, tutta la catena settentrionale, ancora nella nebbia. A occidente, un orizzonte sconfinato, nel quale emergono soltanto le torri di Modena. A oriente, una pianura uniforme fino all'adriatico, visibile al sorgere del sole. Verso sud, i primi colli dell'appennino, coltivati e lussureggianti fino alla cima, popolati di chiese, di palazzi e di ville.
Questo è il ritratto dell'Emilia Romagna che inconsapevolmente traccia Johann Wolfgang Goethe, durante il suo Viaggio in Italia del 1786. Oggi in fondo non vedremmo cose molto diverse. Nel 1786, naturalmente, l'Emilia Romagna non esisteva. Eppure Goethe ne traccia un ritratto istintivo dall'occidente all'adriatico, partendo proprio da un termine straordinario: "orizzonte sconfinato".
Uno spazio così grande ed attraente per le possibilità, per la libertà che concede.
Il territorio, il paesaggio, in Emilia Romagna non sono semplicemente un incidente di percorso, una serie di ostacoli - di monti - a cui l'uomo deve adeguarsi o dei quali deve essere complice. Il territorio dell'Emilia Romagna è l'Emilia Romagna stessa anche nella sua identità.
E' forse proprio per queste caratteristiche di potenzialità spaziali in-finite che l'Emilia Romagna è stato forse uno dei primi teatri di "gesti urbanistici".
La via Emilia, appunto. Una retta artificiale e perfetta che trasforma lo spazio illimitato in spazio fruibile dal 190 a.C.. Le storiche iniziative di bonifica che si sono susseguite e perfezionate nei secoli. E Biagio Rossetti, naturalmente, quello che è stato definito come "il primo urbanista", l'autore dell'addizione erculea di Ferrara: mentre Cristoforo Colombo nel 1492 scopriva le Americhe, Biagio Rossetti scopriva l'idea moderna di spazio e di città - ed oggi il centro di Ferrara è patrimonio dell'UNESCO -.
E' dunque innanzitutto con la misura dello spazio che dobbiamo occuparci con il nuovo PTR. Un dilemma che parla di limiti autoimposti. Le mura della città servono per definirla, non solo per proteggerla, ma per renderla vivibile e comprensibile.
Ed è con lo stesso sguardo di Emilio Lepido, di Goethe o di Rossetti che, da questa torre, dobbiamo essere in grado di stupirci e di interpretare, di leggere cosa serve oggi all'Emilia Romagna.
Il limite dello sviluppo è la qualità
Il tema del rapporto tra il limite dello sviluppo e la qualità dello stesso è vecchio dunque tanto quanto il nostro territorio, visto che la nostra regione è giovanissima. Quando ci si chiede come usare uno spazio confinato si è obbligati a immaginare dei confini artificiali: una volta lo si faceva per scopi difensivi, ma da Rossetti in avanti - ripeto, parliamo della seconda metà del quattrocento - c'è qualcosa di più. La città deve essere anche il simbolo di se stessa, e chi la abita non deve semplicemente possedere gli spazi, ma essere la misura degli spazi stessi.
E' dal crollo delle mura - avvenuta in molte città tra la fine del 1800 e l'inizio del '900 - che sono state spesso sostituite dalle "circonvallazioni" che le nostre città hanno cominciato a crescere senza sosta.
Negli ultimi 25 anni in Emilia Romagna, senza nemmeno un metro quadro realizzato fuori dal piano regolatore, si è costruita un'altra Emilia Romagna, si è raddoppiato il suolo urbanizzato.
[Francesco Erbani, saggista e giornalista]
E' ovvio che il ritmo è impressionante e non ulteriormente replicabile. Un altro raddoppio nel giro di 25 anni non è certo prevedibile.
Ma la considerazione non è legata ad una filosofia di "vincolismo" o di "proibizionismo" sull'utilizzo del territorio. Il nostro territorio è antropizzato praticamente metro per metro. Anche l'agricoltura è antropizzazione. La considerazione è legata al funzionamento dell'organismo - regione, che non può basarsi sull'assenza del limite come filosofia di fondo.
Abbiamo a che fare con uno dei tessuti economici più forti e dinamici a livello europeo, che ha bisogno di risposte serie: ma le risposte serie non sono scritte né nell'espansionismo a basso costo né nel "blocco".
Diciamola così: per i Romani i "limiti" non erano semplicemente un concetto filosofico o matematico. Erano delle pietre. Le pietre che segnalavano i confini e che erano considerate sacre, irremovibili se non a prezzo di compiere un crimine addirittura contro delle divinità specifiche che le tutelavano.
Ora, la divinità che protegge i nostri "limiti" è oggi un principio chiaro: appunto, la qualità.
Se si rimuove il principio chiave della qualità come limite allora si hanno le regioni-capannone, come è accaduto nel Nord-Est, da cui l'economia semplicemente fugge a gambe levate perchè può trovare identiche condizioni nei paesi in via di sviluppo, pagando meno. Una impresa sceglie di investire in Emilia Romagna non solo per la sua posizione o per la sua dotazione infrastrutturale, ma per ciò che socialmente essa rappresenta. Perchè sa di potervi trovare intelligenza e creatività,
L'assessore Gilli questa mattina ha citato l'Ocse che sostiene che "al cuore dell'economia della conoscenza c'è la creatività che scaturisce dall'incontro di diverse discipline. La capacità di attirare e mantenere i talenti è un fattore estremamente più importante che attirare i capitali. Oggi sono i capitali che seguono i cervelli e non viceversa".
L'impresa insegue dunque i cervelli, certo, ma investe in Emilia Romagna anche perchè sa che i suoi dipendenti possono contare sulle scuole per i propri figli, su di una sanità che funziona, ma sopratutto su di una coesione sociale oggi sempre più mitologica e tutta da ricostruire. E oggi dobbiamo fare il possibile perchè proprio questo accada. Dobbiamo quindi pensare ad un PTR che non pensi aree da definire, ma una unità da costruire. Vivere bene significa lavorare bene. Sulla semplice "quantità" l'Emilia Romagna - ma anche l'Italia o l'Europa - non potranno mai competere con il mercato globale, se non snaturandosi e piombando nel baratro.
Questo livello di attrattività per l'economia ha successo, naturalmente, solo se applichiamo due altri ingredienti che rendano il meccanismo del rapporto tra economia e territorio funzionante. Primo: le infrastrutture. L'Emilia Romagna non parte naturalmente da zero, ma esistono zone e rotte che soffrono quotidianamente. La logistica anche di distretti importanti non è certo la risposta adeguata alle esigenze del territorio. Inquina molto meno un sistema logistico che funziona - tra ferrovie e centri di smistamento - di una colonna in autostrada. Secondo: la semplificazione burocratica. Le aziende chiedono procedure rapide, chiare, in cui si facciano tutte le valutazioni ambientali e tecniche del caso, ma si abbiano risposte certe e rapide. Il fattore tempo è quindi determinante: sta proprio nella chiarezza delle nostre idee e delle procedure uno degli elementi fondamentali perché la nostra "qualità" sappia stare al passo con la corsa del nostro dinamico sistema produttivo.
Tornando all'abbattimento delle mura di cinta della città. In molti casi dettato per motivazioni che oggi troveremmo più o meno assurde. In molti casi furono occasioni di accesi dibattiti. Il dibattito a Bologna tra "demolitori" e "conservatori" vide misurarsi intellettuali, speculatori, sanitari pro ricambio aria, teorici delle "magnifiche sorti umane e progressive". Le mura, semplicemente, non servivano più: non solo perchè le esigenze difensive erano palesemente scemate, ma anche perchè non rappresentavano più il confine del dazio da pagare.
Tra i demolizionisti, tuttavia, troviamo con ogni probabilità anche la larga parte del popolo. Al di là dell'immenso patrimonio storico ed architettonico distrutto con l'abbattimento (vorrei vedere se oggi ci fossero a chi mai verrebbe in mente di abbatterle) non stupisce questo ragionamento. "Progresso", "libertà", "crescita" sono parole che poco si adattano ad una cinta muraria, per quanto nobile possa essere. Ma c'era sopratutto una definitiva domanda di inclusione. La richiesta del superamento del concetto di periferie.
Illusione, naturalmente.
La periferia non è un concetto fisico, ma sociale. E ne abbiamo oggi la testimonianza più forte: molte grandi città del globo hanno la periferia in centro e il "centro storico" nei nuovi quartieri a specchio, vicino all'aeroporto.
La richiesta costante, tuttavia, è semplicemente una.
La coesione.
La coesione è coesione di spazi, dunque. Non devono esserci centro e periferia, ma un organismo che funziona e vive in parallelo, senza gerarchie di rapporto. O il rischio è che prima o poi accada quello che abbiamo visto accadere a Parigi, con la rivolta delle banlieu contro i "cittadini".
Ma è anche e soprattutto coesione tra i cittadini.
E non mi sto riferendo, badate, semplicemente all'"integrazione dei cittadini stranieri". C'è gente nata in Emilia Romagna che penso sia tanto straniera quanto chi arriva da lontano.
Coesione in latino significa non solo "essere unito", ma anche "avere connessione". Il contrario di coesione, dunque, non è solo "divisione", ma "solitudine".
Oggi molti giovani sono soli. Molti anziani sono molto soli. Le famiglie costrette a vedersi solo all'ora del TG della sera ed al sabato al centro commerciale sono complessivamente sole.
Dobbiamo immaginare uno sviluppo in cui nessuno resti solo.
Questa è la vera sfida dell'Emilia Romagna, all'altezza della sua storia e del suo presente. Una sfida che non si vince né con la risposta puramente quantitativa, né con una risposta conservatrice. Né demolitori, né conservatori.
Dobbiamo essere, semplicemente, innovatori.
Ed allora dire di no ai quartieri-ghetto diventa una missione prioritaria, naturalmente.
Servono nuove soluzioni. La Regione deve farsi promotrice di nuovi strumenti che, con il protagonismo degli enti locali, crei modelli di convivenza diffusa nelle città, ma anche in piccole realtà del territorio. Esistono delle intere frazioni-ghetto, intendendo luoghi in cui esistono delle concentrazioni di comunità così omogenee da non comunicare. Allora l'edilizia agevolata non può più pensare solo a quartieri "artificiali" progettati ad hoc, ma deve misurarsi con soluzioni che spezzino il cerchio dell'isolamento, magari con interventi che lavorino per miscelare, per contaminare, per favorire il dialogo di pianerottolo, che viene prima di ogni altro grandi progetto di socializzazione.
Ma i quartieri-ghetto non sono semplicemente le chinatown o gli stabilimenti industriali abbandonati e ricolonizzati dagli immigrati. I quartieri-ghetto sono quelli che semplicemente non sono connessi, che preludono alla solitudine. Dove non si abita, ma al massimo si vive.
Le nostre città rischiano la deriva della frammentazione estrema, rischiano di riempirsi di quelli che Augè chiama "nonluoghi", vale a dire gli spazi omologati a livello planetario - aeroporti, grandi vie di comunicazione, centri commerciali, parchi di divertimento - senz'anima, dove il diritto ad entrare è legato ad un pagamento, ad un consumo.
Le nostre città si spaccano così in tre.
La città dell'abitare, dove si dorme e si brucia il poco tempo in famiglia.
La città del produrre - centri direzionali e capannoni produttivi - dove si passa la parte "attiva" della giornata con l'unica soluzione di continuità, per i più fortunati, della pausa pranzo al bar.
La città del consumare, dove ci si reca a spendere grosso modo quello che si è guadagnato durante la settimana, magari surrogando per questioni di tempo la gita fuoriporta del finesettimana.
Queste tre parti della città sono unite, fisicamente, da ingorghi di traffico ad orari predefiniti.
Ma può capitare che siano magari lontanissime, fisicamente. Magari la città dell'abitare di una famiglia può essere in realtà lontana trenta o quaranta chilometri dal resto: è in aumento infatti il fenomeno di chi va ad abitare fuori dai capoluoghi preferendo i piccoli centri. Non solo per stile di vita ma semplicemente per il costo della residenza in città. Si creano così non solo dei quartieri, ma dei veri e propri comuni-dormitorio dove il lavoro da fare per l'inclusione sociale è enorme.
E' scontato che il quartiere ideale è quello in cui si può tornare a casa a pranzo. In cui si può fare la spesa mentre si torna a casa dal lavoro. In cui i ragazzi possono andare a scuola a piedi da soli. In cui i nonni possono abitare al piano di sopra perchè il costo degli affitti e degli appartamenti non costringe nessuno ad andarsene. In cui anche gli stranieri che lavorano possono prendere casa senza bisogno di contratti in nero o di garanti strozzini. Ed al centro del quartiere c'è la piazza. La piazza italiana. Con il municipio, la chiesa ed il caffè dove perdere tempo. Perchè questo oggi è il vero lusso: avere tempo.
C'è un altro elemento fondamentale del quartiere ideale: la bellezza.
Certo, è un concetto relativo. Ma la bruttezza, invece, non lo è. E la bellezza deve essere un vero e proprio diritto, sopratutto per chi abita il Paese di cui dovrebbe essere la capitale mondiale della bellezza. Aria non inquinata, servizi, certo. Ma anche la bellezza deve diventare un valore collettivo da tutelare. Le strade prive di negozi e, magari, circondate da verde incolto, diventano luoghi di proliferazione del crimine. Un ambiente ideale per lo sviluppo di patologie criminali a cui non si può certo porre un efficace rimedio con le recinzioni, i sistemi di allarme o i poliziotti "di quartiere".
E dove sono questi quartieri ideali? Nelle periferie delle città dove si chiama qualche bravo architetto a realizzarle?
No. Non dobbiamo mirare semplicemente a realizzare qualche utopia nei nuovi spazi, ma dobbiamo innanzitutto lavorare su quello che c'è. La riqualificazione urbana è stata una delle sfide su cui questa Regione ha investito moltissimo. Alcune buone operazioni sono partite, ma il problema è lungi dall'essere risolto.
Qui sta un altro dei limiti dello sviluppo.
Lo sviluppo della qualità e non della quantità significa avere il coraggio di crescere nel territorio dato.
Grandi città europee hanno investito moltissimo in questo senso.
Il rischio è che, col tempo, ci facciamo sorpassare da chi è sempre stato dietro di noi.
Si citano spesso la Spagna e i grandi interventi di Barcellona e Bilbao. Bilbao è un esempio straordinario, dettato forse dalla disperazione addirittura per la potenziale morte di quella città.
Dice Mario Pezzini, [Vice Direttore, Direzione Sviluppo Territoriale dell'OCSE]
"Sono sempre rimasto impressionato da Bilbao che 30 anni fa era una città morta, con il 35% di disoccupati, il fiume senza più ossigeno, il porto che non funzionava più. La città decise in quelle condizioni di fare tre investimenti: spostare il porto dall'interno del fiume all'esterno (operazione da 300 milioni di Euro), bonificare il fiume (operazione da 900 milioni di Euro) ed attirare Guggenheim, che stava ai tempi cercando una sede in Europa, senza trovarla a causa di una richiesta di 130 milioni di Euro. Il Governo locale decise inoltre di affidare all'architetto Santiago Calatrava la costruzione di un aeroporto. Stiamo parlando di un enorme rischio, ovviamente giustificato dalla paura della "morte" della città, ma che, una volta preso, ha portato ad azione propulsiva non certo impostata sulla conservazione e la preservazione".
Come restare al vertice? E' ovvio che sia necessario immaginare una terza via tra "conservatorismo" e "demolizionismo". Demolizionismo in urbanistica oggi significa prima di tutto agevolare semplicemente quella che gli economisti del settore chiamano "free riding", ovvero l'iniziativa del singolo che vuole portare a casa il massimo per sé e basta. Serve l'innovazione, che passa quindi prima di tutto attraverso una condivisione ampia a tutti i livelli.
Ad oggi siamo in presenza di una situazione non perfetta dal punto di vista dei rapporti tra i vari livelli istituzionali. I piani urbanistici si sovrappongono in quello che non a caso viene chiamato "mosaico", in cui ogni tessera è comunque un colore a sé.
Da questo punto di vista ho trovato inopportuna la scelta del consigliere Varani di usare un termine importante come "sussidiarietà" per questo contesto.
Diciamo che la Regione scrive il soggetto del film e sceglie di produrlo, la Provincia ne trae la sceneggiatura, ai comuni spetta la regìa - spesso poi di attori discretamente riottosi -. E' ovvio che in questo tipo di rapporto a scatola chiusa, però, il prodotto finale rischia di essere spesso non aderente al soggetto iniziale: soprattutto perché dal medesimo soggetto vengono tratte centinaia di interpretazioni finali.
Nell'immaginare quindi i rapporti nel giusto modo, chi produce il film, chi scrive il testo e chi fa la regia devono sedere sempre di più allo stesso tavolo. Serve per garantire il risultato. In una parola, serve sempre più politica nell'immaginare compiutamente la nostra regione.
Da questo punto di vista, mi viene in mente un'altra frase di Marc Augè:
"Mi pare, prima di tutto, che gli urbanisti, gli architetti, gli artisti, i poeti dovrebbero acquisire la consapevolezza del fatto che i loro destini sono collegati, perché identica è la loro materia prima"
Ma, permettetemi, sono convinto che tutto questo sia anche la materia prima della nostra missione. E quindi è giusto e doveroso che nell'immaginare il nuovo PTR ci sentiamo tutti colleghi di urbanisti, architetti, ma anche di artisti e poeti, per pensare al futuro di questo territorio tra la via Emilia ed il West.
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