4 marzo 2017
Ho letto con interesse la recente notizia della convention fondativa di un nuovo movimento politico: Forza Europa.
Tra i promotori del movimento ho riconosciuto politici di ispirazione liberale da sempre consapevoli del valore che il progetto Europeo ha costituito per gli Italiani.
Naturale quindi vedere in costoro un impegno politico volto a “salvare” il sogno europeo ed europeista oggi, come non mai dal dopoguerra, così in difficoltà.
Perché la difficoltà?
Non solo perché la coscienza degli interessi non è il forte di buona parte di noi italiani (e non solo), e quindi servirebbe sempre farci capire bene il valore aggiunto di una UE, ma anche perché la fiducia tra gli stati, e le genti, dell’Europa, sta paurosamente declinando.
E quando nel partner il comportamento fa percepire una intenzione malevola, difficile una unione regga.
Centrale è quindi la fiducia, fiducia non tanto e non solo degli italiani verso l’Europa, ma soprattutto fiducia tra i popoli dell’Europa.
Quindi, al di là della fiducia degli italiani verso le istituzioni europee, la partita dell’Europa si gioca internamente ai singoli paesi ed è una partita fatta di comportamenti e non di parole.
Essendo il problema in primis di fiducia, si tratta di ristabilire la fiducia tra i diversi paesi, che, spesso a torto ma a volte a ragione, si sentono presi in giro o vessati dagli altri paesi.
Quindi, per ridare fiducia alla prospettiva europea ed europeista, serve (ri)stabilire una adeguata fiducia tra le popolazioni europee.
E questo richiede, per i singoli paesi, rimettere ordine all’interno, perché nessuno sarà mai così folle da compromettere il proprio futuro vincolandosi a paesi irresponsabili, quando non apertamente volti ad acquisire rendite parassitarie.
Non servono dunque partiti o movimenti dell’Europeismo declamati, ma partiti o movimenti che mirino a stabilire comportamenti interni tali da ripristinare la fiducia tra i popoli europei.
In Italia questo vorrebbe un soggetto politico con tre chiari focus: i conti, i confini, la costituzione.
Provo a chiarire i singoli punti.
- I conti. Cosa prevedeva il patto di Maastricht per stabilire tra i vari paesi un livello di fiducia minimo per poter condividere e cogestire una moneta? Prevedeva che i singoli paesi avrebbero tenuto i conti in linea con un moderato e sostenibile intervento governativo. Non prevedeva che la spesa pubblica potesse avere una funzione propulsiva nello sviluppo dei singoli paesi, ma al più una funzione anticiclica limitata nella quantità e nel tempo. E questo alla luce non tanto delle teorie quanto delle esperienze di un secolo segnato dal continuo aumento della spesa pubblica. Queste regole servivano anche a confermare la costituzione di un unico mercato europeo che poteva essere ostacolato dalla pratiche, portatrice di barriere protettive, delle svalutazioni delle monete nazionali. Come è andata? È andata che oggi l’Italia sfida la stessa tenuta europea con i suoi conti, conti derivati da comportamenti irresponsabili, e di chiara impronta clientelare, contrassegnati da spese pubbliche insostenibili dal paese. Vogliamo che la UE e l’euro reggano? Tagliamo la spesa pubblica drasticamente. È questo che propone il nuovo movimento? Se si, quanto, quando e come?
- I confini. La libera circolazione delle persone presuppone il presidio dei confini esterni della UE. Mi sembra che le notizie italiane, con la marea di immigrati clandestini dall’africa, con qualche migliaio poi finiti a Calais, siano tra le cause della vittoria della brexit. Comunque sia, lo sbraco delle frontiere esterne non crea quelle condizioni di fiducia per le quali una “unione” tra stati possa prosperare. Anche qui: come intendiamo affrontare questa che può essere una opportunità ma solo se ben gestita dal paese, di certo non se subita? Oggi lo sbraco della frontiera italiana è fonte di disordine interno e di paura tra i partner europei. Su la risposta alla sfida immigrazione dal terzo mondo la UE gioca la propria esistenza. Anche qui: cosa vogliamo fare e perché? Siamo disposti a mettere uno stop ad una immigrazione che sembra sempre più invasione, visto che non ha limiti da parte italiana? Perché se diciamo di volere salvare la UE e nel frattempo si agisce per sfasciarla, dubito si stia facendo ciò che oggi serve.
- La costituzione. Parlo di quella italiana. Dal centralismo sabaudo ( coi suoi tratti di stato dinastico più che nazionale) non siamo ancora usciti. Uno dei motivi che rendono l’Italia iper-regolamentata e soffocata dalla burocrazia sta nell’assetto istituzionale troppo semplicistico per un paese così complesso. Uno degli effetti collaterali di questo centralismo burocratico in un paese con una così debole storia “nazionale”, è di renderlo diviso, come è tipico degli imperi burocratici.
Una rifondazione dell’Italia su un patto federativo delle sue molteplici genti, ne sarebbe l’esito e il mezzo. Anche qui, solo una rinnovata Italia può essere un attore propulsivo credibile per la UE, che tanto più la vogliamo unita tanto più deve essere a misura delle genti che la costituiscono.
Senza un forte e pieno federalismo, la stessa Italia, così disunita al proprio interno, può dare fiducia ai partner di una “unione” europea? Anche su questo punto, questo nuovo movimento cosa vuole, perché e come ritiene di riuscire a portare avanti i propri obiettivi?
Ecco le mie sintetiche e un po’ crude considerazioni (con domande) agli autori del progetto di “Forza Europa”. Considerazioni (e domande) che immagino non siano solo mie e che, mi auguro sinceramente, troveranno adeguate e convincenti risposte.
Carlo Annoni
7 marzo 2017
Caro Carlo,
innanzitutto una precisazione. Al momento Forza Europa non è un movimento politico, ma una campagna politica permanente in difesa delle istituzioni europee, della sua moneta e delle regole del mercato comune. Pensiamo che quello europeo sia l’ambito che rende più concreto e praticabile il perseguimento dell’autentico interesse nazionale di tutti i Paesi membri, a partire dal nostro, che la storia ha dimostrato essere il più bisognoso di un “vincolo esterno” (appunto: europeo) per fare prevalere politiche virtuose, o almeno non smaccatamente viziose – non solo in tema di finanza pubblica.
Pensiamo insomma che l’Europa non sia un bel sogno umanistico, ma un utile ausilio pratico e ovviamente che non sia – come pensa la compagnia assortita dei “sovranisti” – la pietra al collo sulle prospettive di crescita del Paese, ma la ciambella di salvataggio a cui dobbiamo rimanere attaccati nei mari agitati dell’economia e della politica globale.
Come hanno sempre pensato tutti i federalisti – da Carlo Cattaneo a Ernesto Rossi – di questo Paese contagiato da sindromi macro o micro centralistiche, l’ordine federale è un quello più efficiente per regolare i rapporti tra i diversi livelli politico-territoriali, non quello più “imperiale”. E questo vale a maggior ragione per l’Ue, che non è un super Stato, ma una costruzione originale che prova da sessant’anni a rispondere, con una forma specifica e “anomala” di sovranità, alla crisi morale, politica, strategica e ovviamente economica dello Stato Nazione in Europa. Come dice l’ex Presidente della Commissione Frans Timmermans “esistono due tipi di Paesi membri nell’Ue: quelli troppo piccoli, e quelli che non hanno ancora capito di essere troppo piccoli”.
Tu poni tre questioni specifiche: la spesa pubblica, la questione dei confini e la Costituzione italiana e mi chiedi di rispondere dal punto di vista europeista. Lo faccio volentieri
- Sulla spesa pubblica sono d’accordo con te. La dimensione e la struttura della spesa pubblica italiana e della più sensibile di tutte – quella sociale – non ha tratto rimedio e giovamento dalla partecipazione italiana all’eurozona. Ci siamo mangiati il dividendo dell’euro, cioè la riduzione del costo di servizio del debito, aumentando insieme la spesa e il debito. Mettere mano alla spesa pubblica, cioè ridimensionarla e riqualificarla è una esigenza nazionale, non è una richiesta europea. Faccio però notare come, anche in quest’ambito, l’unico ancoraggio contro l’etica e l’estetica dello sbraco, del deficit spending, della lotta “partigiana” all’austerità sia, ancora oggi, più a Bruxelles e a Francoforte che a Roma. Sulle ricette, penso che le migliori e più realistiche – non a caso inascoltate – siano state quelle di Carlo Cottarelli.
- Sui confini ti darò una risposta scandalosa e probabilmente sgradita. Non penso che i confini esterni dell’Unione possano diventare una porta “tagliafuoco” e non penso che la pressione migratoria dal Sud del mondo sia un fenomeno cui abbia solo senso resistere. In Italia, perché il tasso di dipendenza demografica non peggiori, abbiamo bisogno di 150.000 nuovi ingressi all’anno di stranieri in età da lavoro. Penso, come te su questo – immagino – che l’immigrazione non possa diventare la piaga biblica che è diventata per l’esplosione politica del Nord Africa e del Medio Oriente. Immigrazione non deve per forza fare rima con barcone. Ma la risposta che io immagino è anche in questo caso europea. La politica di difesa e di sicurezza, che l’Europa della Guerra Fredda poteva felicemente delegare agli americani, è diventata una rogna che dobbiamo imparare a grattarci da soli (non solo perchè adesso c’è Trump). Anche in questo caso registro che il deficit di cooperazione, e quindi il cosiddetto fallimento europeo nel controllo dei flussi migratori, dipende dall’indisponibilità degli stati membri non esposti sulle frontiere esterne dell’Unione a condividere i costi e le responsabilità di questa impresa.
- Sulla Costituzione italiana, condivido lo scetticismo sulla possibilità di rimediare in tempi brevi al problema gravoso della sua intoccabilità democratica, dal mio punto di vista dimostrata anche dall’esito del referendum dello scorso 4 dicembre, che si limitava a una modesta “rifunzionalizzazione” del sistema bicamerale e del rapporto tra Stato e Regioni ed è stato liquidato e rigettato come un affronto alla sacra Carta. Sono d’accordo con te: il centralismo burocratico non consolida il sentimento nazionale di un paese dilaniato da molteplici fratture economiche, sociali e territoriali. Lo Stato unitario è in Italia una somma di particolarismi, interessati ad accaparrarsi il controllo delle risorse pubbliche, non un’articolazione di realtà politico-territoriali autonomamente responsabili delle proprie scelte e dei propri risultati. Ma anche su questo punto solo la realtà federale europea offre un modello, almeno teorico, per la “federalizzazione” efficiente dello Stato italiano.
Un caro saluto
Carmelo Palma
13 marzo 2017
Ti ringrazio, Carmelo, per avermi onorato con una risposta di merito alla mia “lettera aperta agli amici di Forza Europa”.
La premessa che fai, in cui ricordi i “perché” dell’Europa, non solo é condivisibile ma è il succo di quello che ci fa sentire, entrambi, europeisti.
Quando peró affronti le questioni specifiche che avevo proposto, allora, al di là dei tratti comuni, emergono differenze anche significative, differenze che, per altro, trovano un tempestivo corrispettivo nel white paper di Juncker.
Come ben sai, Juncker ha proposto cinque scenari di riferimento attorno cui discutere e procedere; sono tutti scenari europeisti, ma tutti sono molto diversi e diversamente desiderabili, in funzione delle proprie idee, analisi e principi ispiratori.
Non mi scandalizza quindi ci siano diversità, magari profonde, su qualcuno dei punti in discussione: ci sono diverse possibili europe possibili anche nei documenti ufficiali della UE.
Altro elemento da considerare: non tutti gli scenari sono egualmente fattibili.
E proprio la questione dei confini, che tu vedi come occasione per una Europa “che fa molto di piú” (insieme?) , ritengo sia, al di là che mal fondata in termine dell’analisi che proponi, una condizione per una possibili crisi irreversibile europea.
Mal fondata: Che senso ha parlare di deficit demografico, così riecheggiando ben altri regimi? È un deficit sul piano economico? Non direi. Abbiamo un tasso di occupazione di 10 punti sotto alla media degli stati sviluppati, abbiamo una emorragia di risorse italiane qualificate e ambiziose, e non è l’importazione, a caro prezzo, di immigrati a bassissima qualificazione (dati medi) e di problematica integrazione, a rendere sostenibile un sistema fatto di lacci, lacciuli e di tanti privilegi e clientele.
Il problema della competitività è fatto di scarsità di tecnica e management, di imprenditori costretti a lottare contro la invasività dello stato e senza poter contare di livelli accettabili di sicurezza e giustizia. Il problema della competitività non è fatto di braccia.
O parliamo di numeri solo per contare di piú in Europa e nel mondo? Allora mettiamo ogni anno all’asta 150.000 permessi e almeno risparmiamo i soldi della prima accoglienza. In realtà certi numeri significano molto poco, e da noi servono solo a mascherare l’insostenibilità di uno stato baraccone.
Vogliamo parlare di demografia nazionale? Affrontiamo analiticamente la questione e proviamo a capire perché un paese che non eccelle in tasso di occupazione, tanto meno femminile, sia così afflitto da scarsa natalità degli autoctoni. E magari proviamo a individuare politiche che creino le condizioni per incoraggiare la natalità degli italiani.
Purtroppo nel “dobbiamo farci carico dei problemi degli altri” trasformato in una passiva accettazione della fine dei nostri confini, vedo una ideologia e vedo una pericolosissima convergenza tra l’impotenza di governanti inetti e succubi alle volontà di altri poteri (da sempre in oltretevere stanno i principali nemici dell’idea di Italia come nazione), e le ideologie anti occidentali del post marxismo.
Non sarebbe una novità la convergenza in funzione anti-nazionale di un certo universalismo cattolico e dell’internazionalismo post-marxista uniti insieme contro la nazione italiana.
Purtroppo l’Italia non ha problemi di braccia, ma ha un problema di competitività e questo non verrà risolto da questa immigrazione stracciona e di difficile integrazione, come l’immigrazione senza controlli e senza requisiti che stiamo vivendo.
Questa immigrazione, che si può definire invasione, ha caratteristiche ben difficilmente assimilabile ai valori e tradizioni dell’Occidente, e non aiuterà di certo questo paese a diventare più nazione e quindi uno stato meno costretto a campare di clientela e più focalizzato sul proprio core di responsabilità.
Si badi bene che la mia non è rifiuto della immigrazione, anzi.. ma è solo rifiuto di una immigrazione subita passivamente, da un paese incapace di porre requisiti e controlli al roprio accesso. Proprio questa politica italiana sulla immigrazione, caratterizzata da impotenza e frustrazioni, tanto meno aiuterà una qualsiasi evoluzione della UE, perché quello che alla fine l’Italia chiede è che il fallimento dell’Italia come stato sovrano sia condiviso con gli altri partner europei. E se pensiamo all’europa come risposta al nostro fallimento, temo andremo semplicemente a mostrare agli europei che l’europa è e rimane una prospettiva non utile da essere ulteriormente percorsa.
Ricordiamoci che l’Europa non nasce dalla negazione degli interessi nazionali, ma dall’idea che gli interessi nazionali possano convivere, pur nella loro conflittualità, in un contesto pacifico: quello che all’inizio era il MEC, poi la CEE, e ora la UE. Sembra poco, ma ci sono volute due guerre mondiali per accettarne l’idea.
Come per i conti quello che l’Italia chiede è di socializzare i debiti mantenendo privilegi e clientele in casa, così per i confini l’Italia chiede di socializzare il proprio fallimento nel campo della sicurezza, ma evitando di fare i propri conti all’interno con la subalternità a idee e forze antinazionali.
E anche sulla questione che sollevo del patto costituzionale e dell’assetto istituzionale del nostro paese, l’Italia deve trovare una propria originale via ad un assetto federale. O pensiamo che paesi con conti a posto e società abbastanza unite vogliano e possano accettare pacificamente di cedere sovranità a paesi sulla via del fallimento? Come l’euro richiedeva che ciascun paese facesse i compiti a casa, così richiederebbe una qualsiasi evoluzione politica federale della UE. Il nostro compito, anche qui gravoso, è l’affermarsi di un patto federale tra le genti d’Italia che disinneschi quella che, dal compimento della unità politica, è una vera e propria fonte di instabilità interna, ma anche esterna.
Detto in altre parole: pensare che la UE si faccia carico strutturalmente dei tanti vizi italiani vorrebbe dire per alcuni suoi paesi membri andare sistematicamente e indefinitamente contro ai propri interessi, e non credo che questa UE, votata ad un assistenzialismo strutturale e permanente tra stati, faccia strada.
Che poi l’Italia di oggi sia in grado di fare i compiti a casa su conti, confini e costituzione, direi è quanto di meno probabile ci sia.
Non c’è neppure coscienza dei propri interessi, e di come funzioni il sistema..Figurarsi delle responsabilità.
Ma almeno, sia tra noi “europeisti” chiara la responsabilità “interna” della crisi e possibile implosione della UE.
Poi potremo meglio entrare anche nel dibattito proposto da Juncker su quale sia l’Europa del prossimo futuro.
Carlo Annoni
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