"La sinistra italiana oggi detesta Germania, Svezia e le socialdemocrazie del nord Europa perché la loro stessa esistenza denuncia il suo fallimento."
Mario Saccone interviene con grande intelligenza nel dibattito su ipotesi uscita sviluppo da euro.
Teoria economica ed economia reale
Ho iniziato a seguire questo argomento (già nel precedente thread) sperando di avere dei dati sicuri contro la sciagurata (a mio avviso) ipotesi di Bagnai. Preciso che non considero l'uscita dall'euro una cosa in se assurda e impossibile, ma considero sciagurata e facilona la valutazione delle conseguenze che tale scelta avrebbe.
Non so bene se sia uscita da questa discussione una rappresentazione chiara e indiscutibile della realtà. Mi sembra di no. Ma credo che si possano trarre alcune considerazioni di metodo utili per tutti. La prima è questa. Sarebbe certo utile che si potesse anche seguire nelle singole azioni politiche e economiche e con i dati statistici, l'evoluzione dei fatti, come cerca di fare Bisin. Ma non è detto che sia sempre possibile. Citando con un po di ironia una delle classiche osservazioni dei liberisti intransigenti, (vera in se, anche se spesso è usata strumentalmente ) e cioè che il mondo è troppo complesso perché lo si possa pianificare, credo si possa anche dire che il mondo è troppo complesso perché si possano ricostruire le conseguenze delle decisioni economiche con la precisione di una catena di cause ed effetti indiscutibili, da cui si possano ricavare delle ricette economiche assolutamente certe. Credo che ci sia un metodo più concreto, anch'esso non indiscutibile, ma però tale che è possibile individuare le motivazioni politiche e sociali delle diverse posizioni.
La vera risposta a Bagnai non sta tanto nella teoria economica quanto nell'economia reale, bella spessa e tangibile. Quando le idee di Bagnai hanno cominciato a circolare, la vulgata della sua ipotesi, come lui stesso la proponeva, si concludeva con l'osservazione , che una volta usciti dall'euro, si sarebbe potuto svalutare e a questo punto ci aspettava una nuova era di benessere e di boom economico. La prima cosa che viene in mente a chi ha esperienze appena un po diversificate di lavoro produttivo e di produzione, è che questa è una sciocchezza facilona e pericolosa. Il modello di riferimento è quello nefasto della produzione di bassa qualità e di basso costo che ha portato l'economia italiana alla crisi, magari salvando in qualche modo i bilanci annuali, ma affossando il futuro del paese, futuro che è il nostro presente. Ma se allora era percorribile, oggi non lo è più: merci a basso costo e spesso neanche di bassissima qualità ci invadono da tutte le parti e non esiste alcuna possibilità di concorrere con la produzione dei paesi in via di sviluppo.
Non c'è bisogno di essere economisti per vedere certe cose. Io lavoro dalla fine degli anni 60 ed ho visto intere industrie, dall'informatica alla chimica, alla siderurgia sparire o quasi dal paese. In particolare nel mio settore, l'informatica, agli inizi del 60 l'Italia era uno dei soli 4 paesi in grado di sviluppare un sistema informatico completo: hardware e software. Oggi l'informatica italiana ha un livello medio bassissimo. Non esiste più la progettazione dell'hardware e non esiste quasi software italiano venduto nel mondo. Forse può essere oggettivo che certe opzioni, come quelle dell'hardware siano poco praticabili in un mondo globalizzato. Ma sicuramente in Francia. Germania e Inghilterra sono rimaste quote sostanziose di capacità produttive che permettono a questi paesi di aver nel settore una bilancio commerciale meno squilibrato del nostro.
La storia dell'uscita dell'Olivetti di Adriano Olivetti dal settore a metà degli anni 60, è emblematica. Abbandonare l'informatica fu il diktat posta dalla FIAT, tramite il Direttore Generale Valletta, come condizione per l'intervento di Mediobanca. Il sindacato neppure sapeva cosa produceva l'Olivetti. Un po di documenti fatti da qualche sindacalista di base sono usati oggi dal sindacato per dimostrare una sua presunta sensibilità, ma di fatto il sindacato non si è mai accorto che esisteva un lavoro mentale produttivo, quello dei progettisti e dei programmatori. A me capitò di cercare di spiegare ad uno del sindacato che noi impiegati tecnici, producevano esattamente come gli operai che facevano l'hardware e che quei cassoni che venivano venduti così a caro prezzo non c'era solo il lavoro degli operai specializzati ma anche incorporato, il nostro lavoro mentale, i programmi. . Secondo loro non era vero. Il software era un servizio e noi impiegati sindacalizzati, eravamo delle avanguardie! E' un fatto che il sindacato ha trascurato gli interessi degli impiegati tecnici sacrificati al mito dell'uguaglianza. Con il risultato paradossale che cacciati via i tecnici per aver trascurato di difenderne la professionalità, i sindacati, senza problemi difendono i privilegi degli impiegati della PPAA. Ma quanto è costato, e costa al paese l'indifferenza sindacale, alla professionalità ed alla qualità del lavoro?
Credo che questi siano i temi di una critica da fare a Bagnai ed a suoi coriferi. Da cui deriva anche che c'è la malafede nella contrapposizione tra Italia e Germania, e più in generale tra i paesi del mediterraneo e quelli del Nord,. La contrapposizione, che esiste di fatto su molti aspetti, è però secondaria rispetto all'elemento principale che la sinistra italiana cerca di nascondere e cioè che le socialdemocrazie del nord hanno agito concretamente sul lavoro e l'economia, mentre le sinistre del sud Europa hanno sprecato fatiche e lavoro di tre generazioni di lavoratori senza riuscire a dare un reale contributo al loro sviluppo ed alla loro emancipazione. Oggi la Germania ha una economia produttiva che ha retto allo stress della globalizzazione, ha un welfare che permette ai lavoratori tedeschi di reggere la crisi. Ha dei problemi certo, ma l'attenzione e la cura con cui la nostra sinistra guarda alla Germania, con cattiveria e con la speranza che anch'essa vada in crisi, è una esperienza spiacevole. La sinistra italiana oggi detesta Germania, Svezia e le socialdemocrazie del nord Europa perché la loro stessa esistenza denuncia il suo fallimento.
Però questa critica riguarda in parte anche voi. Io credo che la discussione vada riportata ai suoi elementi concreti. Anche se dietro c'è una spiegazione in termini di teoria, la cosa importante è l'attenzione all'economia reale. Se si parla di economia reale tante distinzioni "teoriche" saltano. In questo sito si è più volte detto giustamente che non è vero che i mercati liberi siano mercati senza regole, per cui se si scende a discutere non del principio ma delle pratiche con cui è possibile liberalizzare i mercati, si esce dalla contrapposizione ideologica per entrare nell'economia reale. L'unico economista, almeno tra quelli che conosco, che ha coniugato la teoria con la verifica della pratica è stato Sylos Labini. Credo che il suo libro del 1995 la crisi italiana, seppur datato in molte parti, visto che lui credeva di rivolgersi ad un centro sinistra riformista mentre si rivolgeva di fatto a dei "conservatori", nell'analisi dei motivi della crisi è attualissimo: una grande industria monopolistica e i cui interessi si intrecciano con la classe politica, una piccola industria frenata dai monopoli e dalla politica, una scuola che non è in grado di formare le professionalità necessarie.
Oggi, nella crisi totale di un sistema politico non si tratta di cercare gli spazi per il trionfo di una ideologia, ma gli interessi comuni con cui portare il paese fuori dal guado. E allora si aprono possibilità politiche reali di alleanze inattese e di obiettivi comuni anche tra classi e settori diversi. Alleanze ovviamente temporanee. Usciti dalla crisi la contrapposizione si riaprirà, ma a questo punto sarà su obiettivi concreti. Finalmente potremo come paese uscire dall'opposizione ideologica tra integralismi opposti che ci portiamo dietro dal 1948.
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