venerdì 24 febbraio 2012

La Crisi Italiana

Proposto da Mario Saccone segnalo questo importante articolo di Paolo Sylos Labini del 1995.
 Il testo è stato abbreviato in alcune delle sue parti più collegate alla situazione politica di allora. Ritengo sia un testo ancora valido per le considerazioni più generali sull'economia italiana.
 Il testo completo è rintracciabile sul sito della Fondazione Sylos Labini.




Paolo Sylos Labini
LA CRISI ITALIANA
INDICE
Premessa                                                                                vii
1.   Le origini della crisi                                                           3
<La crisi ideologico-politica, p. 4> - Tare antiche e recenti della società italiana, p. 9 - La crisi economica e finanziaria, p. 12 - Stato e mercato, p. 16 - Mutamenti della struttura sociale, p. 22 - La fluidità della situazione politica, p. 25 - Le prospettive, p. 26
2.   Bisogna fare i conti con Marx                                        28
<Le responsabilità di Marx, p. 28 - Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde, p. 34 - Marx e i comunisti, p. 37 >- La posizione della sinistra verso le piccole imprese, p. 40 - Le formule partecipative, p. 42 - Lotta di classe e odio di classe, p. 43 - Marx e Machiavelli, p. 45
3.   La legge finanziaria, il rovesciamento della scala di priorità e il conflitto d’interessi
47
Economia reale ed economia finanziaria, p. 47 -< La legge finanziaria, p. 50 - Le critiche al governo Berlusconi, p. 56 - Obiezioni ad una interpretazione moralistica, p. 58> - Un’obiezione politica, p. 62
4.   La riforma dello stato sociale                                          66
Insegnamenti utili per il futuro, p. 66 - Tre grandi aree di spesa, p. 69 - La posizione dei sindacati, p. 71
5.   Una politica per accelerare la crescita dell’occupazione e lo sviluppo civile del Mezzogiorno
74
La crescita dell’occupazione, p. 74 - La creazione di nuove imprese, p. 77 - Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno, p. 80 - Il livello d’istruzione dei lavoratori, p. 82 - L’andamento dell’occupazione negli ultimi quarant’anni, p. 83
6.   La scuola, la ricerca scientifica e la qualità del lavoro
86
Una condizione preliminare per riorganizzare il sistema scolastico, p. 88 - Riflessioni sulla riforma universitaria, p. 88 - I gravi problemi della ricerca, p. 91
Nota:  le parti messe tra <> sono state tolte per avere un documento snello focalizzato sulla situazione italiana e sulla crisi economica. Il documento nella sua interezza è facilmente recuperabile all'indirizzo:    http://dspace.unitus.it/handle/2067/170
Nota :Le pagine dell'indice non corrispondono a causa non tanto delle parti tolte ma della diversa formattazione. Il numero di pagine complessivo di questa edizione ridotta è di 26 pagine
1.
Le origini della crisi
Quella che stiamo vivendo è una crisi grave e sconcertante. Molti pensavano che l’Italia stava uscendo da un periodo oscuro, dominato da numerosi sintomi di degenerazione, fra cui una dilagante corruzione, per entrare in tempi brevi in una fase di miglioramento politico e sociale. Finora di questo miglioramento non c’è alcuna indicazione, anzi, pare che sia in atto un grave peggioramento: aumenta giorno per giorno il numero di coloro che si vanno convincendo che siamo caduti dalla padella nella brace (con diversi elementi positivi a favore della padella).
Lo svolgimento ha preso avvio poco meno di tre anni fa dalle inchieste aperte da alcuni giudici di Milano sulle così dette tangenti – che sarebbe più corretto definire secanti, come mi faceva notare un amico matematico –; le inchieste, oramai passate alla storia col nome di Tangentopoli, sono tuttora in corso.
Per cercare di comprendere quel che sta accadendo in un modo non superficiale dobbiamo cercare di andare oltre gli eventi contingenti e di considerare la crisi in atto adottando una prospettiva più ampia. A questo scopo possiamo prendere le mosse dalla concezione di Adamo Smith, il quale, prima di essere un economista, era un filosofo.
Secondo Smith, per cercare di comprendere l’evoluzione di una determinata società conviene studiare tre aspetti: cultura, istituzioni ed economia. Interpretando Smith, possiamo dire che la cultura comprende l’istruzione, l’etica, le abitudini, le idee e le ideologie prevalenti nella società. Le istituzioni comprendono le forme organizzative e l’assetto giuridico della società sia nella sfera del diritto pubblico che in quella del diritto privato. L’economia in senso proprio comprende le risorse naturali e la posizione geografica e riguarda la produzione e il commercio dei beni e le relazioni che si stabiliscono fra gli uomini nelle attività produttive e commerciali. I tre aspetti vanno visti unitariamente; così, la crescita della produzione e degli scambi è fortemente condizionata, anche se non puntualmente determinata, dall’evoluzione della cultura e delle istituzioni.
In questo periodo in Italia stiamo vivendo una crisi multipla: ideologico-politica, istituzionale ed economica.
La crisi ideologico-politica
<Analizza Gli effettti della guerra fredda in termini di corruzione, criminalità organizzata e contrapposizione ideologica>
Tare antiche e recenti della società italiana
Lo sviluppo del capitalismo in Italia è stato tardivo. I paesi ritardatari, nella fase iniziale, sono costretti a concentrare le loro risorse sulle grandi infrastrutture – che comprendono le ferrovie – e sulle industrie pesanti, come la siderurgia (la quale riceve un particolare impulso se il governo attribuisce un’elevata priorità agli armamenti). Ma infrastrutture e industria pesante in un paese ritardatario, per definizione economicamente molto arretrato, con pochi imprenditori moderni e con un mercato molto ristretto, esigono un robusto intervento pubblico. Di qui due caratteristiche del capitalismo italiano, come anche di quello di diversi altri paesi ritardatari. La prima consiste in una spaccatura fra poche grandi imprese moderne direttamente o indirettamente sostenute dallo Stato, e piccole imprese, che restano a lungo di tipo tradizionale e sono quindi assai poco dinamiche; la seconda caratteristica è data dalla commistione tra pubblico e privato in economia con i connessi gravi rischi di abusi e corruzione. In Italia la spaccatura fra grandi e piccole imprese e la commistione tra pubblico e privato divennero ancora più accentuate durante la prima guerra mondiale, per via delle commesse militari, e poi nelle vicende che seguirono la crisi del 1929, che costrinse il governo a compiere numerosi salvataggi di grandi banche e grandi imprese.
Sotto l’aspetto civile, occorre tener ben presente che sino al 1912 in Italia c’era, bensì, una libertà politica degna di considerazione, ma la democrazia era assai circoscritta. Aveva diritto al voto poco più di un decimo della popolazione. Nel 1913 il suffragio divenne più ampio – il diritto di voto fu esteso a circa un quinto della popolazione, che era tuttavia pur sempre una minoranza –.In quel tempo la stragrande maggioranza degli italiani era analfabeta o semi-analfabeta. Dopo due anni venne la guerra e poi il fascismo.Pertanto, nel nostro paese la democrazia è un fenomeno relativamente recente.
Tutto questo ha favorito una situazione di non partecipazione o di separatezza tra classe politica e popolazione. Fino alla prima guerra mondiale tale separatezza non fomentò, come era possibile, una diffusa corruzione nella vita politica ai più alti livelli poiché in quel tempo di regola – ma non sono rare le eccezioni – si dedicavano alla politica membri di cospicue famiglie borghesi o dell’aristocrazia terriera, tutte persone che non pensavano certo alla politica come mezzo per migliorare le loro condizioni economiche o addirittura per arricchirsi. Diversamente stavano le cose al livello politico locale, soprattutto nel Mezzogiorno, come il meridionale Gaetano Salvemini mise spietatamente in evidenza in scritti famosi, ed in certe porzioni dell’economia, specialmente là dove aveva luogo la commistione cui ho accennato. In politica, almeno al vertice, gli standard morali erano relativamente buoni.
Con la prima guerra mondiale, soprattutto attraverso i gradi intermedi dell’esercito, e subito dopo la guerra, entrano tumultuosamente sulla scena sociale e politica schiere di persone appartenenti alla media e piccola borghesia (specialmente piccola borghesia impiegatizia), schiere già in espansione e la cui crescita riceve un vigoroso impulso dalla guerra. Qui non sono rari purtroppo gli individui famelici e di moralità scadente – la fame si rivolge non solo verso il danaro, ma anche verso il potere e l’influenza sociale –; per affermarsi, questi individui vanno sia a destra che a sinistra, e sia all’estrema destra che all’estrema sinistra. Le violente lotte sociali nel primo dopoguerra, l’angoscia per il bolscevismo, l’ascesa del fascismo sono da considerare in questo quadro.
La separatezza fra popolazione e classe politica diventa acuta con la dittatura fascista e la corruzione si estende soprattutto fra gli alti gerarchi. Diviene tuttavia galoppante dopo la seconda guerra mondiale e specialmente negli ultimi vent’anni. Come in ogni paese che perde una guerra, la sconfitta che conclude la seconda guerra mondiale rappresenta un trauma grave per l’intera società. Nel nostro paese il trauma è stato gravissimo non solo per le sofferenze di ogni genere ma anche per l’impressionante contrasto fra retorica militaresca e imperialistica e penosa realtà, un contrasto messo a nudo prima dall’assai infelice campagna di Grecia e poi dalla tragica spedizione in Russia. Il trauma non è stato ancora superato ed è rimasta, almeno in parte, quella scarsa fiducia in se stessi che spinge molti italiani ad atteggiamenti spietatamente autocritici, che stupiscono non pochi stranieri. Finita la guerra nel modo tragico e vergognoso che ben conosciamo – la catastrofe non fu solo militare, ma anche politica e morale – numerosi giovani si rivolsero al Partito comunista, che usciva da quella spaventosa esperienza con grande prestigio grazie alle persecuzioni subìte e grazie alla Resistenza, che li aveva visti fra i più impegnati. Quei giovani, come molti altri, che si rivolgevano ad altri partiti avevano l’ansia di rinnovare radicalmente una società di cui la guerra aveva rivelato tare gravissime. Al tempo stesso, tutti coloro che aborrivano i comunisti e coloro che ad essi sembravano alleati o affini, si rivolgevano in gran parte verso la Democrazia cristiana che, grazie soprattutto al capillare sostegno anche organizzativo della Chiesa cattolica, si presentava come il “baluardo contro il comunismo”.
Lo scontro di cui ho parlato va visto in un tale contesto.
La crisi economica e finanziaria
Fra le tre aree di Smith – cultura, istituzioni, economia – non sussistono paratie stagne; e gli stessi problemi economici che oggi affliggono il nostro paese sono in vari modi collegati con la crisi ideologico-politica e con la crisi istituzionale. L’incubo del nostro paese e della classe politica è costituito dall’enorme debito pubblico; esso rappresenta anche il principale ostacolo al nostro pieno ingresso in Europa. Il debito pubblico ha raggiunto le dimensioni che conosciamo anche per effetto dei prezzi pagati per fini di stabilizzazione sociale e politica. Lo stato sociale s’inseriva in una tendenza comune a tutti i paesi industrializzati; ma in Italia esso ha assunto i connotati assistenziali e clientelari che conosciamo – sia rispetto agli utenti sia nell’ambito dei pletorici apparati che lo amministrano – perché nella pratica politica i fattori cui accennavo hanno avuto un peso di rilievo.
Al fabbisogno finanziario derivante dai disavanzi di bilancio lo Stato fa fronte con la vendita di titoli pubblici: non occorre aderire alla teoria monetarista per riconoscere che disavanzi sistematicamente finanziati con la stampa di biglietti aggravano l’inflazione. Difatti, oramai da tempo i governi evitano di seguire questa strada. Anno per anno però il disavanzo tende a crescere a causa del crescente onere per interessi, salvo che non si attuino adeguati tagli di spesa o non si accrescano i tributi – due vie politicamente assai difficili da percorrere –. Se, com’è accaduto in Italia da parecchi anni, il disavanzo complessivo aumenta ed aumenta il volume dei titoli da vendere, il tasso dell’interesse subisce una spinta verso l’alto, per convincere i risparmiatori a cedere allo Stato una parte cospicua dei loro risparmi. Il volume dei titoli da vendere è dunque il primo determinante del tasso dell’interesse. Il secondo determinante è costituito dall’intensità della pressione inflazionistica. Un terzo determinante è di carattere internazionale: per sostenere la quotazione della lira rispetto alle altre monete e contrastare l’inflazione importata occorre mantenere l’interesse ad un livello tale da scoraggiare l’esodo di capitali e, se occorre, da attirare capitali dall’estero. Cosicché, se nei paesi con cui abbiamo relazioni commerciali e finanziarie l’interesse tende a flettere, una tale flessione imprime una spinta verso il basso anche all’interesse interno, com’è accaduto fino a pochi mesi fa. Tuttavia, se cresce la massa dei titoli da vendere, è ben difficile che possa aver luogo una significativa riduzione dell’interesse. Ora, un interesse relativamente alto ha conseguenze negative sia sugli investimenti pubblici che su quelli privati. Sui primi un alto interesse ha conseguenze negative poiché, quando la massa dei titoli da vendere è grande e crescente, il gravoso onere per interessi induce il governo a comprimere tutte le spese che politicamente possono essere compresse, a cominciare dalle spese per investimenti. Quanto al settore privato, un alto interesse decurta i profitti netti e in questo modo frena gli investimenti. Ma gli investimenti rappresentano la molla principale dello sviluppo: bassi investimenti comportano uno sviluppo basso o nullo. Proprio per questo motivo un aumento dell’interesse a breve a volte è usato dalla banca centrale per indurre sindacati e associazioni padronali a contenere gli aumenti dei salari.
In tutti i paesi industrializzati dal 1989 e fino all’autunno del 1993 le economie si sono dibattute in una situazione vicina al ristagno e la schiera dei disoccupati è decisamente aumentata. Dall’autunno del 1993 si è profilata una ripresa economica internazionale, che ha ridotto in misura sensibile la quota dei disoccupati negli Stati Uniti, dove la ripresa è stata netta, mentre l’ha ridotta molto poco in Europa e, in particolare, in Italia. Bisogna osservare che la disoccupazione può aumentare anche quando la produzione non diminuisce, per effetto dell’aumento della produttività, che procede quasi senza interruzione anche quando c’è ristagno. Bisogna anche osservare che un certo ammontare di disoccupati è fisiologico, giacché si ricollega al tempo occorrente, per i giovani, per cercare un impiego e, per tutti, per cambiare lavoro. La disoccupazione raggiunge e supera livelli patologici quando il tempo per la ricerca e il cambiamento diviene molto lungo. In questo dopoguerra si è notato che la disoccupazione fisiologica – o “di attrito” – che permane anche in condizioni di sostenuta espansione, è andata crescendo, essenzialmente perché, con l’aumento del livello medio d’istruzione e col miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, coloro che desiderano trovare o cambiare occupazione sono in grado di attendere più a lungo. Quando c’è ristagno cresce la divergenza fra lavori desiderati e lavori disponibili; e poiché ben difficilmente un laureato o un diplomato accetterà un posto di lavapiatti o di facchino nei mercati generali, la disoccupazione non potrà non aumentare. Né giova affermare che la disoccupazione non esisterebbe se tutti fossero disposti ad accettare qualsiasi lavoro, giacché la divergenza cui ho accennato denuncia un problema genuino. Problemi di tal genere sono frequenti soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.
Più in generale, occorre osservare che da circa vent’anni la velocità della crescita è diminuita in tutti i paesi industrializzati (in Italia il saggio di aumento annuale medio del prodotto lordo è sceso dal 5,5% al 2,5%): effetto, questo, di diversi fattori, tra cui è da ricordare la sempre più vigorosa concorrenza mossa, in modo diretto o indiretto, da un numero crescente di paesi del Terzo mondo, sia in certe produzioni di base, come l’acciaio e la chimica, sia in diverse produzioni di beni di consumo, come i prodotti tessili e le calzature. Per i paesi industrializzati la via maestra per contrastare gli effetti negativi di tale concorrenza è di accelerare la crescita delle produzioni ad alta tecnologia, ciò che comporta un’intensificazione degli sforzi per la ricerca. In questo campo l’Italia è in grave ritardo.
Stato e mercato
Oggi hanno luogo vivaci discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia paesi decisamente statalisti, come l’Italia. Il problema della riduzione dell’area pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi ideologica e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra particolarmente importante nel nostro paese, dove l’area pubblica è fra le più estese dei paesi industrializzati – mettendo da parte, beninteso, i paesi che facevano parte del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini profondamente diversi.
Quando si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l’azione pubblica nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica di scambi in cui sia la domanda che l’offerta fanno capo a tanti soggetti privati ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre parole, si fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di questo genere un mercato in cui l’offerta ovvero la domanda è controllata da un soggetto solo, sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che controlla il prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere considerati come mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente dall’azione di tanti e tanti soggetti:
- il mercato del lavoro, la cui forma si approssima al monopolio bilaterale e nel quale, per di più, in certi paesi, come il nostro, è rilevante l’intervento pubblico;
- il mercato delle aree fabbricabili, dove l’offerta è fortemente condizionata dall’autorità pubblica;
- il mercato delle opere pubbliche, in cui è la domanda ad essere condizionata dall’autorità pubblica;
- il mercato di beni e servizi che presuppongono concessioni da parte di autorità pubbliche, come ad esempio i telefoni, le acque minerali, le emittenti televisive e radiofoniche;
- il mercato dei beni prodotti in regime di monopolio naturale, come l’energia elettrica;
- i mercati di diversi prodotti industriali, come le armi e i prodotti farmaceutici, richiesti in misura significativa da organismi pubblici;
- i mercati di molti prodotti agricoli, i cui prezzi sono in qualche modo regolati dall’autorità pubblica, anche per effetto di accordi internazionali, come quelli del Mercato comune europeo.
I mercati del credito sono condizionati non solo dalla banca centrale, che è un organismo pubblico, ma, più fondamentalmente, dall’autorità pubblica, che spesso controlla, attraverso pacchetti azionari di maggioranza, numerosi istituti di credito. Analogamente, sono controllate dall’autorità pubblica diverse grandi imprese industriali, società di assicurazione, di trasporto, di comunicazione. La scuola, la ricerca, la sanità sono attività in misura più o meno ampia – spesso molto ampia – gestite o controllate da autorità pubbliche. A conti fatti, sembra che il mercato operi pienamente solo nell’area, pur vasta, delle piccole imprese e nell’area delle medie e grandi imprese nei settori aperti alla concorrenza internazionale, anche se, in queste come in altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi per interessi e i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che a rigore alterano il libero gioco del mercato.
È dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per l’economia italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la domanda si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In effetti, se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del reddito nazionale – una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi europei –, negli Stati Uniti la quota, tutt’altro che modesta, è di circa il 35%; in quel paese è molto minore l’incidenza delle spese sociali, mentre è maggiore quella delle spese militari – in quel paese ha tuttora gran peso politico, oltre che economico, il così detto complesso militare-industriale –.
È indubbio però che, nell’ambito dei paesi industrializzati, da noi l’intervento pubblico sia fra i più estesi. Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già osservato che il capitalismo moderno in Italia ha cominciato a svilupparsi con ritardo ed ha avuto bisogno fin da principio di interventi pubblici particolarmente robusti. Altri interventi, come quelli che portarono alla creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione di certi rami ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche, da esigenze strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche e di grandi imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica che ebbe inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena.
Per bloccare un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della disoccupazione, lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e grandi banche. Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese all’iniziativa privata appena possibile. Ma per decenni sono state operate privatizzazioni solo in via eccezionale.
Anzi, sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali e banchieri privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto due casi – petrolio ed elettricità – in cui l’intervento pubblico è stato compiuto perché si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine, in Italia l’allargamento dell’intervento pubblico è stato favorito da correnti dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il corporativismo, il marxismo.
È necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall’economia o dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti – da tutti o da quasi tutti i partiti, di destra, di centro o di sinistra – nel loro stesso interesse: dal momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha significato controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche statizzate, con vantaggi di potere e con vantaggi economici.
Anche in Italia si è profilato un movimento contro l’intervento dello Stato e in favore delle privatizzazioni e del “mercato”. Le resistenze sono grandi. Sotto l’aspetto dell’interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che giustificate, giacché l’allargamento dell’area statale nel nostro paese è andato ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte a favore delle privatizzazioni sono tre: 1) l’esigenza di una maggiore efficienza; 2) la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla vendita di imprese pubbliche; 3) l’esigenza di porre fine agli abusi di ogni genere perpetrati dai partiti nell’area statale. La prima motivazione ha una base incerta (quasi tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di società per azioni); la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la terza la motivazione di maggior rilievo.
La reazione all’intervento pubblico ed a favore del “mercato” significa cambiamento e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole, come alcuni sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei singoli che sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto giuridico e istituzionale, frutto di un’evoluzione plurisecolare: sistemi di contratti, tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di organismi pubblici addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni complesse, come quelle svolte da intermediari finanziari e da società per azioni, condizionano, racchiudono ed anzi costituiscono il mercato.
Come nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia e fuori, concetti gravemente erronei.
Il liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono. In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa libertà del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo spazio assegnato ai mercati in libera concorrenza, con l’eliminazione delle posizioni di monopolio, là dove ciò è possibile, e con l’introduzione di controlli di vario genere per le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho dato esempi più sopra; infine, il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia all’“eccesso” dell’intervento pubblico in economia.
Due riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado d’intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno se come misura si usa la quota delle spese pubbliche.
Io sostengo che in Italia l’intervento pubblico è andato troppo avanti, non solo per motivi legati all’evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.
Seconda riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo, era, in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale, era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente contrario ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere l’intervento pubblico nell’economia, ma in questa direzione non si spingeva affatto così lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi limito a ricordare che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non due: oltre la difesa e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione di quelle opere pubbliche e la creazione di quelle istituzioni, specialmente nell’area dell’istruzione, che non sono – o non sono sufficientemente – profittevoli per i privati, mentre sono vantaggiose “per una grande società”.
Mutamenti della struttura sociale
Conviene riflettere sui dati delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro paese dopo la fine della guerra.
Tab. 1. Categorie economiche (composizione percentuale)
                                               1951      1971      1983      1993
1. Agricoltura                            43        18        13         9
2. Industria e artigianato               35           42           35           32
3. Servizi              15           30           36           41
4. Pubblica amministrazione             7         10        16             18
Tab. 2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)
                                                    1951   1971   1983   1993
1. “Borghesia”                            2          3          3          3
2. Classi medie urbane   26           38           46           52
di cui:
impiegati privati                5             9            10           11
impiegati pubblici             8            11           16           18
artigiani                5             5             6             6
commercianti      6             8             9            11
3. Contadini proprietari                 31           12            8             6
4. Classe operaia              41           47           43           39
di cui:
salariati agricoli               12            6             4             3
operai dell’industria       23           31           28           25
commercio, trasporti e servizi            6         10        11             11

Sotto l’aspetto delle categorie economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti sono avvenute in agricoltura (l’esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi – ormai l’occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della popolazione attiva –. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali, è fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti i commercianti – circa il doppio –, mentre la “classe operaia”, dopo essere aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non arriva al 40%.
Queste profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte. In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l’avvertenza che il divario economico fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale, che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951 negli ultimi anni.
Queste quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud e Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la delinquenza minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell’intera società, in generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità più bassa della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere addirittura in direzione opposta.
Le trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione delle posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso della così detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle grandi imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del sindacato. Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti di tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di questo tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in tempi brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti – proprietari terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell’industria e dei servizi –. Così l’orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto, comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali, politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla crisi ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.
La fluidità della situazione politica
La crisi in atto nel nostro paese ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica quali ben raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro dov’è la destra e dove la sinistra. L’intero quadro politico è in via di radicale trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell’ubiquità politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono ulteriormente allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in passato. La frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico, è ancora più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai lavoratori salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia che fa capo alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi imprese oggi sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si dibattono le imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più complesso dalla presenza di una non trascurabile schiera d’immigrati extra-comunitari, che sono disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i lavoratori italiani, anche quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a svolgere. Fra coloro che avversano un’ulteriore restrizione dei flussi d’immigrazione ci sono persone che paventano le difficoltà economiche conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano le capacità di adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore meccanizzazione di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle importazioni di certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un allargamento dell’immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare che il modo per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani non è questo, ma sta nel predisporre, d’accordo con altri paesi europei, progetti di sviluppo scolastico ed educativo (ciò che, fra l’altro, può contribuire alla flessione della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa nel campo della produzione, a cominciare dall’agricoltura.
Le prospettive
Se le prospettive immediate sono caratterizzate da grande fluidità, per le prospettive non immediate dobbiamo riconoscere che siamo entrati in una crisi gravissima, da cui tuttavia possiamo uscire in tempi non lunghi, anche se non brevi, e possiamo avviarci a divenire un paese veramente e pienamente civile. Ciò potrà accadere se sapremo introdurre alcune riforme essenziali, non solo nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione della pubblica amministrazione, della sanità, della scuola, dell’Università, della ricerca. Chi studia l’evoluzione della società inglese nel secolo scorso può trarre motivi di conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella società erano profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi: la pubblica amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta, dopo alcune importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In effetti, di motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento che stiamo vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.


2.
BISOGNA FARE I CONTI CON MARX
Le responsabilità di Marx
<Analizza le responsabilità di Marx rispetto alla situazione attuale>
Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde
<Valuta l'apporto teorico di Marx>
Marx e i comunisti
<Considera più specificatamente le conseguenze del pensiero di Marx sui comunisti italiani>
La posizione della sinistra verso le piccole imprese
La scarsa considerazione per le piccole imprese da parte di molti esponenti della sinistra politica e sindacale può essere in una certa misura riconducibile alla tesi marxista della progressiva concentrazione delle imprese. Questa tesi non è erronea in sé. Per un lungo periodo, a partire dalla fine del secolo scorso, si è osservata una tale tendenza in diversi rami dell’industria e della finanza, anche se negli ultimi due decenni essa, a quanto pare, si è arrestata o si è addirittura capovolta. L’errore sta nell’interpretazione di tale tendenza, che cioè le grandi e grandissime imprese sarebbero destinate a dominare un numero crescente di mercati e a condizionare in misura crescente il potere politico, al livello interno e nei rapporti internazionali; questa è l’interpretazione che può essere ricondotta a Marx e a Lenin. C’è poi l’interpretazione di Schumpeter, secondo il quale la capacità d’innovare tende a essere sempre più una prerogativa delle grandi imprese. Entrambe le interpretazioni vanno respinte, non perché – mi riferisco a Marx e a Lenin – le grandi imprese non contino, ma perché non è vero che abbiano un peso crescente e non è vero che in paesi democratici gruppi sociali diversi, come quelli rappresentati dai militari, dagli intellettuali e da organizzazioni politiche, siano puramente subordinati ai gruppi economici – certe volte è vero il contrario –. Quanto all’interpretazione di Schumpeter, appare ormai evidentemente infondata la tesi secondo cui le piccole imprese avrebbero avuto un ruolo sempre più marginale nel campo essenziale delle innovazioni; non di rado, il loro ruolo è invece di primaria importanza. (Conviene notare che la teoria della concentrazione costituisce una delle basi della teoria leninista dell’imperialismo.)
La tesi del processo di concentrazione poteva indurre, come ha indotto, i marxisti a considerare con freddezza, ma non necessariamente con avversione, le piccole imprese. Una certa avversione è riconducibile al marxismo per via dell’“antagonismo di classe”, che nelle piccole imprese è affievolito o annullato. È riscontrabile, specialmente nel passato, una notevole freddezza non solo da parte dei marxisti ma anche della sinistra non marxista; presumibilmente una delle ragioni sta nel fatto che la forza dei sindacati di norma è maggiore nelle grandi che nelle piccole imprese e, sia pure in misure e con caratteristiche diverse secondo i paesi, i sindacati hanno influenza sui partiti e sulla vita politica.
 Abbiamo tuttavia in Italia una situazione che appare in contrasto con le osservazioni appena espresse: in Emilia e in altre zone del Centro-Nord hanno prevalso a lungo i partiti di sinistra di tipo marxista e, in particolare, i comunisti, eppure le piccole imprese hanno avuto uno sviluppo molto notevole e, non di rado, sono state create da ex operai specializzati che erano e sono poi rimasti comunisti. Il paradosso si spiega tenendo conto che la “pace sociale”, che nelle piccole imprese quasi sempre s’instaura, per motivi strutturali, ha decisamente favorito lo sviluppo di quelle imprese, con vantaggi sia dei lavoratori che dei “capitalisti”.
D’altra parte, anche in questo caso è rimasta una notevole ambiguità: nei fatti – e soprattutto nei fatti riguardanti le zone cui alludevo dianzi – l’atteggiamento del Partito comunista verso le piccole imprese era sostanzialmente favorevole, ma in via di principio, al livello della politica economica nazionale, restava la freddezza, se non proprio l’ostilità.
Con la costituzione del Partito democratico della sinistra le cose sono alquanto cambiate; ma il cambiamento resta ancora in superficie.
Le formule partecipative
Fra i residui perniciosi del marxismo sul piano della politica economica vanno annoverati i residui che si manifestano nell’avversione a tutte le formule che, in senso lato, possiamo definire partecipative. Fra queste possiamo considerare: le integrazioni retributive e i premi collegati con gli aumenti di produttività o di profittabilità delle imprese, la partecipazione agli utili, varie forme di partecipazione alla gestione, l’azionariato dei lavoratori e, più ampiamente, il cosiddetto azionariato popolare. Il motivo dell’avversione sta nel fatto che tutte queste forme partecipative comportano collaborazione fra lavoratori dipendenti e capitalisti; ma non si può collaborare col “nemico di classe”: è un peccato, se non un tradimento. Ora, che le forme appena ricordate possano prestarsi ad abusi, non c’è alcun dubbio; ma se dovessimo rifiutare ogni forma o formula che comporta il pericolo di abusi, non potremmo fare assolutamente nulla al mondo – e non solo nel mondo delle imprese –.
D’altra parte, il pericolo di abusi era relativamente elevato alcuni decenni or sono, quando il livello d’istruzione dei lavoratori dipendenti era relativamente basso e quando i sindacati non disponevano di uffici studi bene attrezzati. Oggi le cose sono cambiate, ma quell’avversione persiste, sia pure solo come residuo di una dottrina politicamente perniciosa.
3.
LA LEGGE FINANZIARIA, IL ROVESCIAMENTO DELLA SCALA
DI PRIORITÀ E IL CONFLITTO D’INTEREssi1
Passato, presente, futuro. Nei capitoli precedenti ho espresso alcune riflessioni su due temi molto ampi, che riguardano essenzialmente il passato, antico e recente: le origini della crisi della società italiana e la crisi del marxismo, coi suoi residui perniciosi. In questo capitolo discuterò questioni riguardanti il presente, mentre nei capitoli successivi considererò le prospettive e tratterò alcune linee di politica economica riguardanti i più gravi problemi di carattere, al tempo stesso, economico e civile: disoccupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca.
Oggi c’è una situazione che alcuni giudicano paradossale: l’andamento dell’economia reale è favorevole; è l’economia finanziaria che va male. Vediamo meglio.
Economia reale ed economia finanziaria
Le esportazioni tirano, grazie alla ripresa internazionale ed alla svalutazione della lira, la bilancia commerciale è decisamente attiva, la produzione industriale cresce ad un ritmo sostenuto e cresce il reddito. D’altro lato, i capitali esteri se ne vanno, con effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti e sulla lira, che perde colpi rispetto alle altre monete, specialmente rispetto al marco; al tempo stesso la Borsa va male e aumenta l’interesse a breve e, ancor più, quello a lungo termine e sale il divario fra il nostro tasso e quello degli altri paesi industrializzati.
Alcuni hanno detto che questa divaricazione fra economia reale ed economia finanziaria economicamente è priva di senso; si può spiegare solo per l’azione di qualche fattore del tutto anomalo, come per esempio un complotto, nazionale o internazionale. Non è così. Non è la prima volta che ha luogo una netta divergenza fra economia reale ed economia finanziaria. Un esempio rilevante si ebbe non molti anni fa negli Stati Uniti.
Nell’ottobre 1987 vi fu un crollo in Borsa – del 30% in pochi giorni – simile a quello che nel 1929 segnò l’inizio della grande depressione, e numerosi economisti ritennero che stesse per aver luogo una nuova grande depressione. La depressione non ci fu e non ci fu neppure una recessione, che Guido Carli, fra gli altri, aveva giudicato probabile, e l’economia reale continuò ad espandersi. La crisi finanziaria venne superata nel giro di tre mesi, grazie all’intelligente politica del Sistema della riserva federale, che attraverso operazioni di mercato aperto iniettò dosi massicce di liquidità, controbilanciando una netta flessione della moneta bancaria, preludio di una flessione dell’economia reale. La divergenza fra economia reale ed economia finanziaria ebbe dunque luogo, ma durò poco; probabilmente, se la crisi finanziaria fosse durata più a lungo, la stessa economia reale sarebbe stata coinvolta e forse travolta. In effetti, anche se non implicano sintonia di movimenti dei grandi aggregati, esistono nessi essenziali fra economia reale ed economia finanziaria, la quale non è regolata da abili e diabolici speculatori (gli gnomi di Zurigo, nella pittoresca concezione un tempo diffusa a sinistra, che fa il paio con la teoria dei complotti, tuttora diffusa a destra), ma subisce spinte da mutevoli aspettative, condizionate, fra l’altro, dallo stato delle finanze pubbliche, dalle emissioni dei titoli pubblici, dai tassi dell’interesse, dai cambi e dalla pressione inflazionistica. Le principali cinghie di trasmissione fra il settore finanziario e quello reale sono rappresentate dai tassi dell’interesse e dai finanziamenti bancari e azionari alle imprese.
Dunque, da alcuni mesi nel nostro paese è in atto una divaricazione fra i due settori, la quale è imputabile a ragioni politiche. Più precisamente, il grave ritardo nella presentazione della legge finanziaria, i gravi contrasti interni alla maggioranza e i conflitti sociali hanno scosso la fiducia degli operatori stranieri, inducendo molti investitori a lasciare il nostro paese. Come conseguenza di ciò, il livello dei titoli pubblici a lungo termine (futures) che al principio della primavera era di 120 lire, è sceso al valore nominale di emissione, 100 lire; ciò significa che il tasso dell’interesse a lungo termine, che era sceso di circa due punti, è risalito al livello di sei mesi fa e il differenziale fra i nostri tassi e quelli tedeschi è aumentato anche di più. Al tempo stesso, la quotazione del marco, che alcuni mesi fa era di 940-950 lire ora supera le 1020 lire; il dollaro è salito da 1500 a 1600 lire e più. Il tasso a breve è aumentato – è stato aumentato di mezzo punto lo sconto ufficiale, soprattutto come segnale rivolto al mercato dei cambi –; ed è aumentato di più il tasso a breve praticato dalle banche sui prestiti alle imprese. La preoccupazione maggiore riguarda il dollaro, che ora, in parte per ragioni interne, simili a quelle che hanno provocato l’aumento del marco, e in parte per effetto del rialzo dello sconto negli Stati Uniti, ha mostrato una tendenza a salire: se l’aumento si consoliderà o, peggio, se proseguirà, si aggrava il rischio di un’inflazione importata, dato che noi paghiamo in dollari la maggior parte del petrolio e delle materie prime acquistate all’estero.
La legge finanziaria
Il ritardo della legge finanziaria ha decurtato i tempi di preparazione: solo tre settimane contro i tre mesi (o poco meno) dei tanto criticati governi presieduti prima da Amato e poi da Ciampi. Eppure non occorreva del genio per comprendere che, con l’incubo del debito pubblico e l’enorme deficit di bilancio, la preparazione e poi il varo della legge finanziaria dovevano avere la massima priorità. E di fatti al principio di giugno Berlusconi aveva dichiarato, certo anche per consiglio del ministro del Tesoro Dini, che entro luglio sarebbe stata messa a punto la finanziaria. Il ritardo ha avuto gravi conseguenze, giacché è mancato il tempo per gli studi preliminari e per gli incontri con le parti sociali. O meglio: le pensioni erano state oggetto di uno studio approfondito da parte della Commissione presieduta da Onorato Castellino, un economista rigoroso e competente. Ma per giungere ad una legge equilibrata e ampiamente accettabile, il governo doveva considerare con lo stesso impegno e con la stessa serietà anche le altre due grandi aree di spesa: la sanità, dove si poteva fare un’opera di disboscamento radicale, e i trasferimenti agli enti locali, problema su cui la Lega avrebbe potuto dare un importante contributo di razionalizzazione e di risparmio. Un tempo adeguato avrebbe consentito una serie di incontri con sindacati, industriali ed esponenti dell’opposizione; avrebbe consentito anche un più sistematico dialogo all’interno della maggioranza, già divisa da forti dissensi.
Il tempo non c’è stato – tre settimane sono poche assai – e la legge finanziaria è nata male, giacché solo il problema delle pensioni è stato studiato in modo adeguato, ma lo studio è stato seguìto da rari incontri coi sindacati e con poche e, a quanto pare, tempestose riunioni interne al governo. È vero: la finanziaria è squilibrata, nel senso che colpisce soprattutto i pensionati e i lavoratori dipendenti, ma io credo che questa è la conseguenza, non di un disegno preordinato, ma della dannata fretta. La questione della sanità è stata sostanzialmente lasciata nelle mani di un solo ministro, che ha fatto quello che ha potuto – i tagli sono stati abbastanza consistenti, è vero, ma potevano essere più razionali e molto più incisivi, come appare anche dal fatto che le proteste dei sindacati hanno riguardato quasi soltanto le pensioni e assai poco la sanità –. Con un tempo sufficiente a disposizione, tutto questo sarebbe risultato evidente e sarebbe risultato chiaro che consistenti risparmi potevano essere ottenuti anche prima della riforma, pur necessaria e urgente, delle finanze locali. La legge finanziaria richiede un tempo non breve giacché presuppone tre fasi: quella dello studio, quella degli incontri tra governo e parti sociali e la fase dell’approvazione in Parlamento.

< tolte considerazioni sul motivo del,ritardo> 

La crisi finanziaria in corso ha colpito numerosi risparmiatori. Negli ultimi otto mesi sono fuggiti dall’Italia – niente meno – ben 60 mila miliardi di lire; nello stesso periodo in Borsa si registra una perdita di oltre 70 mila miliardi per la flessione dei corsi azionari, mentre l’aumento dei tassi di interesse, a breve e a lungo termine, ha effetti negativi sul bilancio pubblico (ogni punto d’interesse comporta un maggior onere di 15 mila miliardi) e sugli investimenti privati.
Al principio di dicembre il governo ha scongiurato all’ultimo momento uno sciopero generale rinviando alcuni interventi qualificanti per le pensioni. In questo modo è stata salvata la pace sociale, e ciò è un bene; ma si è aperta una nuova falla nei conti pubblici, che va ad aggiungersi al probabile maggior onere per interessi e alla probabile sovrastima di certe entrate e di certi risparmi di spesa.
All’origine dello squilibrio che ha condotto a far gravare sulle pensioni una quota troppo alta dei risparmi di spesa troviamo, di nuovo, quel rovesciamento della scala di priorità di cui ho detto e della conseguente maledetta fretta nel preparare la legge finanziaria.
È bene ricordare che i sindacati avevano protestato contro le misure riguardanti le pensioni non perché si opponevano alla riforma in sé, ma perché volevano che la riforma fosse oggetto di un provvedimento specifico e perché criticavano duramente il metodo: volevano, a mio parere giustamente, essere consultati in modo sistematico.Data l’importanza della materia e degli interessi in gioco, ciò vale anche per i partiti di opposizione, quale che sia il governo.È anche bene ricordare che, sulle pensioni, il Pds ha preparato un progetto serio e rigoroso, che segna una vera e propria svolta rispetto alla linea prevalentemente assistenzialistica del passato: è un segnale importante, da non sottovalutare.
È stato detto e si continua a dire: ha vinto la destra, la sinistra ha perso. Magari fosse così. Io, che mi considero un laico di sinistra, pensavo da tempo che per un certo periodo un governo di destra poteva essere utile al paese per accelerare sia l’opera di risanamento delle finanze pubbliche sia il processo di privatizzazioni – due operazioni tipicamente “di destra”.Questo governo non ha fatto né l’una cosa né l’altra. La verità è che il leader non è né di destra né di sinistra: è interessato essenzialmente ai suoi affari. Questo comincia a diventar chiaro a un numero crescente di persone, anche fra i membri e fra i consiglieri del governo. L’aumento del saggio dell’interesse danneggia gli imprenditori, specialmente i piccoli, le perdite sulle azioni e sui titoli a medio e a lungo termine colpiscono i risparmiatori; se poi la pressione inflazionistica si aggraverà a causa dell’aumento del dollaro, allora la schiera, già ampia, degli oppositori di questo governo crescerà con una velocità travolgente.
Riflettendo sulle vicende degli ultimi mesi si deve concludere che il governo Berlusconi ha assunto connotati chiaramente sovversivi giacché ha scatenato una sorta di guerriglia contro tutte le istituzioni che contano (se i successi appaiono limitati è solo perché le resistenze sono state assai più forti del previsto). Ecco le istituzioni che sono state oggetto d’attacco; l’elenco è impressionante: la Rai-Tv, il Consiglio superiore della magistratura (al principio), la magistratura, la Banca d’Italia, i sindacati, i grandi giornali e lo stesso Presidente della Repubblica. Questa guerriglia istituzionale è già costata al paese diverse decine di migliaia di miliardi di lire.
Le critiche al governo Berlusconi
<Contiene considerazioni sull'operato del governo Berlusconi non direttamente economiche>
Obiezioni ad una interpretazione moralistica
<vedi sopra>
Un’obiezione politica
<considerazioni politiche non direttamente rilevanti>
4.
LA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE
Insegnamenti utili per il futuro
Dopo i risultati delle elezioni amministrative e l’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, oggi (principio di dicembre 1994), il governo in carica si dibatte in gravi difficoltà. Non è possibile prevedere quali saranno i prossimi svolgimenti, anche se dobbiamo essere ben consapevoli che Berlusconi non è un politico normale e che non se ne andrà senza aver compiuto tutti i possibili tentativi e accettato tutti i possibili compromessi per restare al potere. Nel precedente capitolo mi sono soffermato sul governo Berlusconi perché credo che da questa infelice esperienza si possono ricavare importanti insegnamenti per il futuro, principalmente due.
Primo insegnamento. Quello del conflitto d’interessi non è un problema soltanto etico: è un problema di grande rilevanza economica e politica.
Per il futuro occorrerà risolvere seriamente questo problema, per esempio, fissando delle incompatibilità assolute e introducendo un vero blind trust – quello proposto dalla Commissione non era neppure un myopic trust.
Secondo insegnamento. Il debito pubblico ha raggiunto dimensioni gigantesche e il deficit di bilancio, in assenza d’interventi chirurgici, tende a crescere sia per la lievitazione automatica di certe spese, sia perché, essendo finanziato con titoli, cresce solo per questo motivo l’onere per interessi. Per bloccare questa spirale infernale, dobbiamo dare tagli molto incisivi specialmente alle spese maggiori che crescono automaticamente. E poiché il grosso di tali spese si riferiscono alla previdenza, all’assistenza e alla sanità, dobbiamo renderci ben conto che la preparazione della legge finanziaria – ed oramai mi riferisco alla prossima legge – investe, niente meno, l’intera riforma dello stato sociale. Ed è su questo fondamentale problema che intendo soffermarmi in questo capitolo.
Oramai, il debito pubblico e il relativo onere per interessi sono diventati una pesantissima palla al piede per la nostra politica economica: le spese d’investimento sono le prime a soffrirne e difatti, in termini reali, dal 1990 al 1993 sono diminuite del 16%, e quest’anno la diminuzione risulterà ancora più accentuata. Non si può predisporre alcuna vigorosa politica tendente alla crescita dell’occupazione ed allo sviluppo del Mezzogiorno senza ridurre drasticamente il deficit pubblico che alimenta il debito. Oramai sia dentro che fuori del governo si pensa che una manovra addizionale sia indispensabile in tempi brevi, anche ricorrendo ad aggravi fiscali, in pieno contrasto con le promesse elettorali.
Ma se vogliamo alleggerire drasticamente la paralizzante palla al piede del debito pubblico, per la legge finanziaria relativa al 1996 dobbiamo prepararci ad un taglio anche superiore a quello compiuto dal governo Amato, che fu di ben 90 mila miliardi: e dobbiamo prepararci, io credo, ad un taglio dell’ordine di 100 mila miliardi e forse più.
Certo, si può operare non solo sulle spese, ma anche sulle entrate tributarie, sia intensificando la lotta all’evasione sia introducendo un’addizionale Irpef. Più volte ho proposto d’inviare “commandos” di esperti nei paesi in cui il fisco funziona per imitare creativamente, nei metodi pratici, e, se occorre, anche in certe norme, quel che conviene imitare. Ma una tale azione, che comunque va fatta, non può avere effetti rapidi. Nel passato avevo anche suggerito d’introdurre un’addizionale Irpef, una misura che ha il vantaggio di far pagare soprattutto i redditieri più abbienti e di non avere effetti di tipo inflazionistico, ma ha lo svantaggio di colpire principalmente i lavoratori dipendenti e i redditieri più onesti. Non mi pare che oggi sia rilevante l’obiezione che mi fu rivolta due anni fa, che cioè un inasprimento fiscale poteva indebolire la domanda di beni di consumo, con ripercussioni negative sulla congiuntura economica, che allora era molto insoddisfacente. Tutto considerato, però, il contributo principale alla riduzione del deficit non può provenire che da risparmi ottenibili con la realizzazione di tagli delle principali categorie di spese sociali. È qui che si pone il problema di una riforma dello stato sociale, che sia radicale e che sia concepita in modo unitario. Imporre con la forza una tale riforma non è possibile, come esperienze antiche e recenti hanno confermato. Può essere attuata col consenso delle parti sociali. Ma per ottenere risultati adeguati servono a poco le intese parziali; occorre invece un patto organico con le parti sociali – sindacati (di sinistra, di centro e di destra), associazioni degli imprenditori, grandi e piccoli, ed altre associazioni di categoria.
Tre grandi aree di spesa
Ai tagli di trasferimenti riguardanti le spese sociali conviene aggiungere tagli riguardanti i trasferimenti agli enti locali. Per avere solo un’idea di larga massima delle dimensioni finanziarie per i diversi trasferimenti nel 1993 (si tratta di cifre tonde, in migliaia di miliardi): previdenza 260, assistenza 30, sanità 90; in totale, 380 mila miliardi, mentre i trasferimenti agli enti locali, al netto delle spese sanitarie, ascendono a 80 mila miliardi.
Si pone un importante quesito: come possono tagli molto rilevanti consentire la sopravvivenza stessa dello stato sociale?
In via di principio, la risposta non è ardua: lo stato sociale non va demolito, va trasformato e reso più snello e più robusto proprio per salvare la sua funzione principale, che è quella di sostenere ed aiutare i più deboli. Può apparire come un’azione di pura e semplice solidarietà in sé apprezzabile ma non rilevante dal punto di vista economico o da quello sociale.
Non è così. La prestazione, a spese della collettività, dei servizi sanitari ai non abbienti, a lungo andare, tenendo in vita e in salute persone che in questo modo possono accudire figli molto piccoli, tende a ridurre la microcriminalità; inoltre, le persone che altrimenti sarebbero morte o diventate invalide nel corso del tempo possono dare il loro contributo allo sviluppo economico e, alcune, allo sviluppo culturale della società. Considerazioni analoghe valgono per le pensioni, dove pesa molto di più la questione dei diritti acquisiti. Tutto questo, però, significa che lo stato sociale va salvato anzi rafforzato per la fascia bassa dei redditieri; la fascia dei redditieri medi può essere aiutata con incentivi fiscali e quella dei maggiori redditieri neanche in tal modo: in queste due fasce possono avere un ruolo importante le mutue e le assicurazioni.
Questo criterio, che nella sua formulazione essenziale appare ovvio e che io avevo prospettato in modo articolato dieci anni fa, è stato via via tenuto presente nei diversi tentativi di effettuare risparmi sulle spese sociali. Si tratta, però, di non procedere attraverso interventi frammentari: si tratta di por mano a una riforma organica, preparata adeguatamente.
È stato affermato che nelle recenti vicende è emerso  che né i partiti di opposizione né i sindacati avevano progetti alternativi. Io dico che può essere fatta una critica opposta: i partiti di opposizione e i sindacati di progetti ne avevano fin troppi; è mancato un progetto unitario, ben definito nelle linee essenziali, anche se non troppo dettagliato. Penso che i diversi partiti e i sindacati, sia di destra che di sinistra, dovrebbero accordarsi per cominciare a delineare un progetto unitario di riforma dello stato sociale. Forse il Consiglio dell’economia e del lavoro potrebbe essere l’organismo adatto per coordinare un tale lavoro. Ma un progetto operativo può essere predisposto solo dal potere politico e, in particolare, del governo. Io mi auguro che Berlusconi, che ormai è diventato un ostacolo al miglioramento della situazione economica e politica, venga messo da parte e si pervenga a un nuovo governo, sia pure dichiaratamente provvisorio, che ponga, fra le sue priorità, la riforma istituzionale e quella delle autonomie locali e che avvii immediatamente la preparazione della legge finanziaria per il 1996. In una tale prospettiva, converrebbe ricostituire subito la Commissione di studi presieduta da Castellino per rendere più razionale, per il futuro, la riforma delle pensioni; e converrebbe creare altre due Commissioni: per la sanità e per i trasferimenti agli enti locali o, più ampiamente, per la riforma delle finanze locali. Già esistono, in Parlamento, Commissioni che si occupano di questi problemi. Occorrono però, a fianco e a sostegno di queste, Commissioni di studio che non facciano altro lavoro e che siano composte da specialisti. Appena pronte le relazioni preliminari delle tre Commissioni bisognerebbe avviare le discussioni con le parti sociali, con le associazioni di categoria e con le parti politiche che sono fuori dal governo, quale che esso sia, riconoscendo che la riforma dello stato sociale rappresenta oramai un’emergenza nazionale.
La posizione dei sindacati
Mi è stato obiettato: è ingenuo attendersi che i sindacati siano pronti a collaborare a misure che comportino tagli incisivi delle spese sociali; potranno dare il loro consenso solo a tagli marginali: la difesa dello status quo per i sindacati e, in particolare, per i sindacati di sinistra è pressoché un riflesso condizionato. La prova è data dalla durissima resistenza ai risparmi, attuali e futuri, connessi con la riforma delle pensioni, una resistenza che ha indotto il governo, per preservare la pace sociale, a rinviare tale riforma.
Io contesto questo punto di vista. L’opposizione è stata condizionata dalla fretta e quindi dalla scarsezza di incontri col governo, dalle conseguenti decisioni, largamente unilaterali, e dall’insufficiente considerazione delle altre aree di spesa. A mio giudizio, la dura opposizione va messa in relazione anche col deterioramento dell’immagine di Berlusconi: non solo coloro che operano nei mercati finanziari interni e internazionali, ma anche i lavoratori – numerosissimi lavoratori – modificano la loro condotta sulla base del giudizio che si formano del governo in virtù dell’evidenza empirica. In effetti, le due leggi finanziarie, quella preparata da Amato e quella di Ciampi, provocarono manifestazioni di protesta e scioperi di gran lunga meno vigorosi ed estesi di quelli attuali. Ma c’è un altro motivo per cui non si può dar ragione agli scettici. Al tempo del primo accordo sul costo del lavoro del 1992 pochi pensavano che i sindacati avrebbero rinunciato a qualsiasi forma di scala mobile. Eppure questo è accaduto: merito del governo Amato che seppe portare avanti gradualmente gli elementi dell’accordo; merito dei sindacati – la Cgil dovette affrontare una grave lacerazione interna – e delle associazioni degli imprenditori, che fecero diverse concessioni.
Sempre nel 1992 Amato aveva elaborato, attribuendo deleghe al governo approvate poi dal Parlamento, alcuni capisaldi delle riforme delle pensioni e della sanità, su cui i sindacati si erano espressi favorevolmente; un anno dopo il governo Ciampi aveva decisamente esteso l’accordo sul costo del lavoro, includendo anche misure, rimaste poi inattuate, sulle scuole professionali, sulla ricerca ed altre; gli effetti dei due accordi sono stati chiaramente positivi, in primo luogo, sull’inflazione, e poi, in modo indiretto, sul deficit pubblico.
Se poi si riconosce che gli obiettivi da perseguire con le assai più ampie possibilità aperte dai tagli sono socialmente rilevanti – ne parlerò nei due capitoli che seguono – allora né i sindacati, né i partiti di sinistra e di centro, né i partiti classificabili nell’area di destra faranno un’opposizione a oltranza.
5.
UNA POLITICA PER ACCELERARELA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE
E LO SVILUPPO CIVILE DEL MEZZOGIORNO
La crescita dell’occupazione
La riforma, che dovrebbe rendere più vigoroso lo stato sociale soprattutto per la fascia meno abbiente della popolazione, dovrebbe, al tempo stesso, comportare minori spese e liberare risorse adeguate per finanziare un programma con tre grandi obiettivi, fra loro strettamente interconnessi: occupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca. Dell’occupazione e del Mezzogiorno parlerò brevemente in questo capitolo; ai problemi della scuola e della ricerca accennerò nel capitolo successivo, che è anche l’ultimo.
Tre sono le interpretazioni analitiche della disoccupazione: l’interpretazione dei liberisti, quella keynesiana e quella degli economisti che, in mancanza di un termine più preciso, chiamerò post-keynesiani; corrispondentemente, tre sono le strategie di politica economica, anche se è bene avvertire subito che fra le tre correnti di pensiero non c’è più quella contrapposizione che si poteva osservare fino a qualche anno fa.
Per i liberisti, la disoccupazione si combatte rendendo i salari più flessibili verso il basso, ciò che si ottiene riducendo drasticamente quegli interventi esterni al mercato introdotti dallo Stato e dai sindacati, che spingono i salari su livelli più alti di quelli che il mercato determinerebbe. I liberisti raccomandano la drastica riduzione dei vincoli che ostacolano la mobilità da un’attività ad un’altra e da un’impresa ad un’altra e, più in generale, la flessibilità nel mercato del lavoro.
Per i keynesiani, è raccomandabile, nel breve periodo, ridurre il tasso dell’interesse, espandere le spese pubbliche, produttive e improduttive, da finanziare con emissione di titoli; con riferimento al lungo periodo, raccomandano d’introdurre tributi, per redistribuire i redditi ed accrescere così la propensione al consumo, e di attuare un “controllo sociale degli investimenti”.
Fra i post-keynesiani, le posizioni sono diverse.
Questo non è il luogo per approfondire i problemi appena accennati. Mi limito ad osservare che il difetto dei liberisti sta in ciò, che essi trascurano il fatto che i salari non sono solo costi, sono anche redditi, talché una loro riduzione frena la domanda di beni di consumo. Inoltre, i liberisti si riferiscono a livelli “troppo alti” dei salari, mentre le difficoltà dipendono dal fatto che non di rado i salari crescono più della produttività, comprimendo progressivamente i margini di profitto e, al tempo stesso, determinando o accentuando l’aumento dei prezzi. Invece, sulla convenienza di accrescere la flessibilità nel mercato del lavoro sono ormai d’accordo tutti gli economisti, liberisti e non liberisti, ma alcuni, ed io fra questi, sostengono che, se è vero che una flessibilità troppo limitata è dannosa sotto l’aspetto economico, lo è anche una flessibilità “eccessiva” (ho cercato di spiegare questa nozione in un saggio di carattere teorico).
Quanto alle altre raccomandazioni, tutti gli economisti sono d’accordo sulla convenienza di ridurre il tasso dell’interesse, anche se ci sono differenze nel valutare le condizioni che debbono verificarsi affinché una tale riduzione possa essere attuata senza creare guai.
Mentre oggi neppure i keynesiani più convinti sono disposti a sottoscrivere la raccomandazione di espandere ogni tipo di spesa pubblica, sono numerosi gli economisti che raccomandano investimenti pubblici produttivi o innovativi alla condizione, alcuni aggiungono, di compensare le maggiori spese volte a questi fini con risparmi di altre spese pubbliche.
Fra le linee di politica economica raccomandate dai post-keynesiani, oltre quelle ricordate poco fa, su cui concordano tutti gli economisti, ricordo la raccomandazione di ridurre gli orari di lavoro, di organizzare lavori socialmente utili e di promuovere la creazione di nuove imprese. Esprimerò brevissimi commenti sulla prima e la seconda linea di politica economica, per concentrarmi sulla terza linea – creazione di nuove imprese – che ritengo la più importante e la più feconda di tutte.
Io credo che nel breve periodo la riduzione degli orari promossa dai sindacati e dallo Stato possa essere più una misura difensiva, per contenere l’aumento della disoccupazione in certe industrie, che un modo capace di far crescere l’occupazione. Nel lungo periodo la riduzione delle ore può contenere su un più largo fronte la crescita della disoccupazione; ma bisogna essere ben consapevoli che questa via, la quale può essere percorsa in vari modi, è assai accidentata. Volendo introdurre una nota ironica in una problematica peraltro molto seria, possiamo dire che, in generale, sulla via della riduzione degli orari gli impiegati pubblici sono dei pionieri formidabili!
È certo raccomandabile la proposta, ripetutamente avanzata in forme diverse da diversi economisti, di organizzare un “esercito di lavoro” per servizi d’interesse sociale, non solo in patria (soprattutto per affrontare i problemi dell’ambiente), ma anche per contribuire alla creazione di nuove attività produttive nei paesi del Terzo mondo. Tuttavia, per non andare incontro a delusioni, occorre non sottovalutare né i problemi finanziari né i gravi problemi organizzativi che la proposta di lavori socialmente utili comporta.
La creazione di nuove imprese
In generale, nelle condizioni attuali, nelle quali, diversamente da quanto accadeva al tempo di Keynes, normalmente un’estesa disoccupazione non si associa ad un’ampia capacità inutilizzata, il problema non è quello di riattivare una domanda aggregata caduta da alti livelli precedenti: il problema fondamentale è quello di allargare la capacità produttiva, non solo e non tanto attraverso l’espansione delle imprese esistenti, quanto attraverso la creazione di nuove imprese specialmente nell’industria, e, ancora di più, nei servizi.
Considerando la crescente differenziazione del mercato del lavoro e la crescente importanza delle innovazioni di specializzazione, occorre accelerare l’aumento dei livelli di istruzione e di formazione dei lavoratori, sia riformando il sistema scolastico, sia stimolando la crescita delle occasioni di impieghi qualificati attraverso la creazione di imprese capaci di usare nuove tecnologie e, addirittura, capaci di promuoverle. E poiché uno dei due punti deboli delle piccole imprese sta nella capacità di innovare e di applicare nuove tecnologie (l’altro è costituito dalla capacità di esportare), è necessario che l’autorità pubblica favorisca, sia sotto l’aspetto legale e organizzativo sia sotto quello fiscale e creditizio, la costituzione di consorzi. Alcune misure in questa direzione sono state già prese dal governo Ciampi e dall’attuale governo; ma occorre fare molto di più. Al tempo stesso – ed è un punto di grande rilievo – l’autorità pubblica deve anche predisporre servizi ausiliari per l’assistenza tecnica, prendendo a modello organismi esistenti in altri paesi europei (in Francia c’è l’Anvar). La proposta dei distretti industriali, che è caldeggiata da diversi economisti e che mira a rafforzare e a diffondere, in certe zone, le cosiddette economie esterne, s’inserisce in una tale prospettiva.
Le nuove imprese possono offrire beni e servizi per le grandi imprese che decidono di acquistarli fuori piuttosto che produrli direttamente; oppure beni e servizi la cui domanda aumenta sia perché cresce il reddito individuale sia perché, con tale crescita, si accentua la differenziazione dei bisogni e dei mercati; ovvero beni e servizi prodotti a costi relativi decrescenti grazie al progresso tecnico; o, infine, beni e servizi importati, che possono essere vantaggiosamente prodotti all’interno.
Una forma particolarmente importante di creazione di nuove imprese può essere costituita da quella che ho chiamato “produzione d’imprese a mezzo d’imprese”. Da uno studio presentato dal Censis a un convegno sulla situazione industriale, tenuto a Sorrento nel 1988, risultava che 6-7 nuove piccole imprese su 10 nel Nord e 5-6 nel Sud erano organizzate da lavoratori che dipendevano da imprese di dimensioni maggiori e che si mettevano in proprio. Certe volte il distacco avveniva col pieno accordo delle imprese maggiori, che trovavano conveniente decentrare certe attività e diventavano le principali clienti delle nuove imprese.
Una tale forma di creazione di piccole imprese va decisamente raccomandata giacché le persone acquisiscono, nelle imprese di provenienza, un’ importante esperienza pratica. La creazione di nuove imprese può essere favorita dagli stessi sindacati proponendo, nei contratti collettivi, clausole particolari per le liquidazioni, clausole che possono essere integrate da incentivi fiscali e creditizi decisi dallo Stato. Incentivi di questo genere possono essere previsti per i fondi amministrati dalla Cassa integrazione guadagni, che oggi rappresenta un organismo per distribuire sussidi di disoccupazione. In sostanza si tratta di aiutare i lavoratori in Cassa integrazione e, più in generale, i disoccupati a formare nuove piccole imprese o a diventare lavoratori indipendenti.
La via maestra da percorrere per ridurre progressivamente la disoccupazione è dunque costituita dalla creazione di nuove piccole imprese. È la via maestra non solo per ragioni economiche ma anche per ragioni civili, giacché fa crescere la schiera delle persone autonome, capaci di autogestirsi, persone che rinunciano ad attendere il posto da influenti uomini politici locali. Per tutto il nostro paese, ma specialmente per il Mezzogiorno, ciò riveste vitale importanza, giacché lo sviluppo civile è ben più importante dello sviluppo economico, o, più precisamente, questo è importante solo se è strumentale rispetto a quello.
Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno
La creazione di nuove imprese è importante per il Mezzogiorno in primo luogo perché è in quest’area che il problema della disoccupazione è particolarmente grave. La quota dei disoccupati, infatti, qui supera il 18%, mentre è la metà nel Centro ed è poco più di un terzo (6,5%) nelle regioni settentrionali. È lecito affermare che in queste regioni la disoccupazione supera assai limitatamente il livello fisiologico (livello “di attrito”) che stimo intorno al 5-6%, da due a tre volte più alto del livello fisiologico di trenta o quaranta anni fa. Questo è vero per tutti i paesi industrializzati – con qualche differenza, non particolarmente rilevante, nelle cifre –. Il fatto è che con l’aumento del livello medio di istruzione dei lavoratori, le aspettative di un lavoro gratificante e corrispondente agli studi fatti si elevano e quindi cresce il tempo di attesa che i giovani sono disposti ad affrontare per trovare un lavoro di quel genere; un aumento del tempo di attesa diviene possibile anche per la crescita del reddito familiare medio. Pertanto, considerando puramente la quantità, la disoccupazione è un problema di scarso rilievo nel Nord, assume un certo rilievo nel Centro e appare come un grave problema nel Sud.
Per molti aspetti il problema rientra nella così detta questione meridionale. C’è tuttavia un aspetto particolare, che si ricollega a due caratteristiche della società meridionale odierna. La prima consiste in questo, che la quota principale dei disoccupati è costituita da giovani forniti di licenza di scuola media inferiore o di diploma; questi giovani appartengono a famiglie che, come ho già osservato, possono mantenerli anche dopo la fine degli studi, circostanza che ha frenato le migrazioni dal Sud al Nord. In effetti, quasi tutto l’aumento della disoccupazione nel Sud è imputabile all’aumento delle persone, specialmente donne, in cerca di prima occupazione, un aumento che si è concentrato in quattro anni, dal 1986 al 1989, senza poi regredire. La seconda caratteristica è che la quota dei dipendenti della pubblica amministrazione, che nel Nord ascende al 18% dell’occupazione totale, nel Sud, dove c’è meno da amministrare, è più alta che nel Nord (23%).
E poiché spesso nella media nazionale le retribuzioni del settore pubblico sono cresciute più che nel settore privato e, d’altra parte, nel Sud il settore pubblico, tenuto conto anche della sicurezza, offre spesso retribuzioni più appetibili che nel settore privato, si comprende perché molti giovani, forniti di titoli di studio medi, non di rado perseguiti proprio per ottenere un posto nella pubblica amministrazione, preferiscono aspettare piuttosto che cercare un impiego nel settore privato, dove la domanda di lavoro cresce molto lentamente, o avviare un’attività autonoma. Se è vero che questo fattore ha aggravato la situazione della disoccupazione nel Sud, come è stato messo in rilievo da un recente studio del Centro Europa Ricerche di Roma, è necessario che il governo sia molto cauto tanto nella politica delle retribuzioni quanto nella politica di creazione di nuovi posti di lavoro nel settore pubblico del Sud, favorendo vigorosamente, al tempo stesso, la creazione di nuove imprese per evitare che, nonostante tutto, molti giovani restino in fila di attesa per un posto pubblico, mentre la domanda di lavoro nel settore privato cresce poco o non cresce affatto.
Il livello d’istruzione dei lavoratori
La questione del titolo di studio dei lavoratori è importante anche sotto altri aspetti.
Se si dividono sia gli appartenenti alle forze di lavoro che i disoccupati in quattro categorie, secondo il titolo di studio – persone che hanno al massimo la licenza elementare, licenziati, diplomati e laureati –, si nota che la quota di coloro che hanno al massimo la licenza elementare in Italia è ancora nettamente più alta rispetto agli altri paesi sviluppati (si tratta, in sostanza, di semi-analfabeti): stiamo sul 24% – il 22% nel Centro-Nord ed il 28% nel Sud –. Si tratta di quote patologiche per un paese civile: questi indici debbono convincerci che è necessario intensificare gli sforzi per riorganizzare ed ammodernare l’intero sistema scolastico, cominciando dalle scuole elementari.
L’andamento dell’occupazione negli ultimi quarant’anni
Dal momento che nella campagna elettorale per le elezioni di marzo si discusse molto della promessa di creare un milione di nuovi posti di lavoro e poiché il problema dell’occupazione è comunque un problema grave, conviene ricordare schematicamente le variazioni dell’occupazione nel nostro paese durante gli ultimi decenni.
Se si considera l’occupazione totale, questa dal 1954 al 1974, che pure è stato un periodo di rapido sviluppo produttivo, è diminuita, a causa dell’esodo agrario (tabella 1). Dal 1974 al 1993, l’occupazione totale è aumentata, in media, di 210 mila unità l’anno. Se si considera l’occupazione extra-agricola questa è cresciuta di 420 mila unità l’anno nel periodo 1954-1974; nel ventennio successivo l’aumento – 250 mila unità l’anno – è dovuto soltanto al sostenuto aumento nell’occupazione nel settore dei servizi, privati e pubblici, il quale ha più che compensato non solo la flessione dell’occupazione nell’agricoltura ma anche la flessione nell’industria, imputabile a un rapido processo di ristrutturazione che si è svolto in un periodo di sviluppo più lento. Nel 1993 l’occupazione extra-agricola ha subìto addirittura una caduta, poiché, a causa dell’avversa congiuntura economica, i servizi privati hanno addirittura espulso 300 mila lavoratori e, a causa delle difficoltà finanziarie, la pubblica amministrazione non ha assorbito nuovi lavoratori (tabella 2). Mettendo da parte l’occupazione in agricoltura, che è stata sempre in diminuzione, più o meno forte, la creazione annuale di nuovi posti è stata, negli altri settori, di 320 mila unità l’anno nel quadriennio 1967-70, un periodo di rapido sviluppo, e di 390 mila unità nel 1974, anche questo un anno nettamente favorevole. In quegli anni, però, non si era profilato quel processo di intensa ristrutturazione che ha provocato una cospicua flessione, se pure con interruzioni, nell’occupazione industriale. Sebbene il 1994 sia un anno di ripresa economica, tutti gli istituti di ricerca prevedono un aumento molto limitato dell’occupazione. Le cose potranno andar meglio nel 1995, specialmente se si adotta un’adeguata politica volta a sostenere la crescita dell’occupazione. Ma la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro oggi appare chiaramente a tutti quella che era: una promessa che mirava ad abbindolare gli ingenui.
Tab. 1. Variazioni medie annuali dell’occupazione (migliaia)
                 Agricoltura Industria Servizi    Pubb.    Totale
                                                                          amm.ne
1954-74            –460           120        200        100        –40
1974-93            –150         –130       380        120        210
Tab. 2. Variazioni medie annuali dell’occupazione nei settori extra-agricoli (migliaia)
                          Industria      Servizi       Pubblica          Totale
                                                                Ammin.ne
1959-62               200               40                40                200
1967-70               140             120                60                320
1974                          115            160  115          390
1982-93                              –220           115              30    –75
1993                  –200          –300                  0              –500
Chi vuol farsi un’idea delle relazioni fra le variazioni della struttura dell’occupazione e quelle della struttura sociale può mettere a confronto queste due tabelle con quelle presentate nel primo capitolo.


6.
LA SCUOLA, LA RICERCA SCIENTIFICA
E LA QUALITÀ DEL LAVORO
Sovente si discute del sistema scolastico e della ricerca come di due settori che hanno certamente un ruolo molto importante nella società, ma che vanno considerati separatamente. Si tratta di una concezione gravemente fuorviante. Già gli accenni espressi nel precedente capitolo sulla suddivisione della forza lavoro secondo i titoli di studio mostrano chiaramente che i problemi della scuola, del Mezzogiorno e dell’occupazione costituiscono un insieme da considerare in modo unitario; i problemi della ricerca scientifica, a loro volta, non sono separabili da quelli dell’Università e della qualità del lavoro di tutti e non solo dei ricercatori e degli scienziati. La stessa creazione di piccole imprese, che è quella qui proposta come la via maestra per affrontare i problemi quantitativi e qualitativi dell’occupazione, va vista congiuntamente coi problemi della scuola. È evidente che solo una scuola efficiente può dare un contributo di rilievo alla creazione di nuove piccole imprese: persone semi-analfabete o con basso livello di istruzione ben di rado sono in grado di organizzare nuove imprese, per quanto modeste. D’altro lato, è necessario favorire specialmente la nascita e la crescita di piccole imprese dinamiche anche sotto l’aspetto delle innovazioni per creare posti di lavoro di tipo moderno. A questo scopo servono organismi di assistenza tecnologica alle piccole imprese, come il già citato Anvar francese – ma in Francia ci sono altri due organismi di questo genere; ce ne sono anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti –. Da noi un dipartimento dell’Enea svolge un’assistenza tecnologica alle piccole imprese, ma è necessaria una radicale riorganizzazione per rendere veramente efficiente quell’attività, oggi svolta in modo frammentario. D’altra parte, considerata l’elevata mortalità delle piccole imprese nei primi anni di vita, occorrono anche organismi che operino da “tutor”. Anche in questo campo possono intervenire società private, che tuttavia hanno bisogno di incentivi e di sostegni organizzativi da parte di enti pubblici.
È socialmente utile stimolare la creazione di piccole imprese di ogni tipo; tuttavia la creazione di piccole imprese tecnologicamente avanzate richiede non solo la costituzione e lo sviluppo di organismi di cui si è appena detto, ma anche uno sviluppo più vigoroso di certe Facoltà universitarie, uno sviluppo da considerare nel quadro complessivo della riforma dell’Università; così una crescita più sostenuta dei laureati in ingegneria elettronica può portare con sé una crescita meno lenta di piccole imprese operanti in tale importante settore.
A questo punto è conveniente proporre qualche specifico tema di riflessione sulla scuola, sull’Università e sulla ricerca scientifica.
Una condizione preliminare  per riorganizzare il sistema scolastico
Considerata la dichiarata disponibilità d’intellettuali ed influenti uomini politici del centro e della sinistra a trovare, sulla questione della scuola privata, una soluzione non conflittuale, si può pensare di avviare in tempi brevi la procedura di revisione costituzionale per abolire la norma che vieta il finanziamento della scuola privata e che, alla fine, è risultata un ostacolo ad una riorganizzazione unitaria e, al tempo stesso, razionalmente differenziata del sistema scolastico. Mi riferisco alla norma che così recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti d’istruzione, senza oneri per lo Stato”; mi riferisco anche a quella lunga serie di espedienti che sono stati escogitati dall’italica furbizia per far diventare “con” quel “senza”.
Riflessioni sulla riforma universitaria
Il recente provvedimento del ministro Podestà ha più difetti che pregi; comunque, ha una rilevanza molto modesta. Senza dubbio, occorre por mano in tempi brevi ad alcune essenziali linee di riforma riguardanti, in primo luogo, i professori. Sui concorsi è bene far partecipare alle commissioni docenti di altri paesi europei, ma, forse, non direttamente (c’è il problema della lingua), bensì richiedendo loro un giudizio scritto su un numero prestabilito (limitato) di lavori, eventualmente sintetizzati a cura degli interessati.
Non è detto che i docenti stranieri siano migliori dei nostri; ma sono, quasi sempre, disinteressati; io stesso sono stato invitato a presentare il mio giudizio su un candidato alla cattedra di una Università inglese: in quel paese questa è prassi abituale. Con la stessa prassi, ogni tre o quattro anni, dopo aver vinto il primo concorso, ciascun docente deve essere sottoposto a giudizio per l’avanzamento di carriera e di stipendio. Un’analoga prassi, preferibilmente con una maggioranza di docenti stranieri, deve essere adottata per giudicare, sulla base di una relazione periodica, l’attività di ricerca degli istituti e dei laboratori, sia quelli dell’Università sia quelli degli enti pubblici di ricerca: un tale giudizio, formulato per iscritto da Commissioni di valutazione, deve condizionare l’assegnazione dei fondi per la ricerca, che oggi sono distribuiti alla cieca o, come si dice, a pioggia. Sia i giudizi delle Commissioni dei concorsi sia quelli delle Commissioni di valutazione dovrebbero partire da punteggi preliminari elaborati su dati obiettivi, differenziati secondo quattro o cinque grandi gruppi di discipline; è un metodo che comincia a diffondersi in diversi paesi. Infine, dev’essere reintrodotta la norma (un tempo c’era) secondo la quale i docenti hanno il dovere di tenere lezioni durante l’intero anno accademico: se scelgono corsi “semestrali” devono tenere due corsi in due distinti “semestri” – che in realtà durano, ciascuno, tre mesi e mezzo –. Quale che sia la loro efficacia, le lezioni sono importanti perché stabiliscono una continuità di rapporti fra studenti e docenti. Ricordo che nelle Università americane ogni docente deve tenere due o tre corsi per “term”: ne segue che i docenti italiani sono sovrapagati e sono troppi.
Per pungolare i docenti e indurli ad adempiere nel modo migliore ai loro doveri conviene attribuire agli studenti che abbiano superato un determinato numero di esami il compito di formulare valutazioni sui corsi. In certe Università, anche in Italia, questa è già prassi: si tratta di estenderla e di stabilire regole generali, semplici e chiare.
Anche per gli studenti occorre introdurre nuove regole generali, che non sono affatto in contrasto con l’autonomia delle Università, ma, anzi, possono rafforzarla. È essenziale affrontare alle radici il problema della tremenda “mortalità” studentesca: solo uno studente su tre giunge alla laurea. Occorre, in via preliminare, elevare le tasse universitarie, che oggi coprono poco più del 5% del costo, portandole al 15-20%; contemporaneamente occorre moltiplicare le borse di studio per i “meritevoli”, capaci di coprire le tasse o – per i molto meritevoli – di fornire anche mezzi di mantenimento. Inoltre, va incentivata la pratica, particolarmente raccomandabile perché insegna a contare su se stessi, dei “prestiti d’onore”. Occorre poi istituire, all’entrata dei giovani nell’Università, un colloquio di valutazione ed orientamento ed occorre introdurre l’obbligo di superare ogni anno un numero minimo di esami fissando, al tempo stesso, un periodo massimo per conseguire la laurea, come avviene in paesi più civili del nostro.
Negli anni recenti alcuni passi nella direzione di una riforma valida dell’Università sono stati compiuti; ma i passi più importanti sono ancora da compiere.
I gravi problemi della ricerca
L’indice che viene usato in via preliminare, specialmente per compiere confronti internazionali, è la quota sul prodotto interno lordo delle spese di ricerca; già questo indice non dà motivi di ottimismo: è vero che negli ultimi anni è alquanto aumentato, ma è anche vero che è pur sempre la metà dei valori che si osservano in Gran Bretagna, in Francia, in Germania (1,6% contro il 3-3,2%). Per di più, il governo attuale ha addirittura ridotto gli stanziamenti per la ricerca. Tuttavia, pur non essendo privo di significato, l’indice appena ricordato non ha grande valore: in realtà, se si potesse valutare la produttività, scientifica e sociale, delle spese per la ricerca (ciò è difficile ma, se si compiono studi approfonditi di settore, non impossibile), si arriverebbe alla conclusione che la distanza che ci separa dai partner europei appena ricordati non è di 1 a 2, ma più ampia, presumibilmente non di poco.
Il fatto è che la nostra organizzazione della ricerca è caratterizzata da gravi sprechi e non solo nell’Università, ma anche negli enti pubblici di ricerca: il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Enea, l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l’Istituto superiore di sanità ed altri enti minori. Secondo Felice Ippolito, un uomo che ha dedicato buona parte della sua vita ai problemi della ricerca, il Cnr e l’Enea, in particolare, dovrebbero essere completamente ristrutturati, seguendo i modelli della Francia, della Germania e della Gran Bretagna (“Le scienze”, novembre 1994).
Non solo nell’Università, ma anche negli enti di ricerca non mancano le “isole di eccellenza”: vanno studiate proprio per comprendere che cosa funziona e trarne indicazioni pratiche – pur essendo consapevoli che le “isole di eccellenza” debbono molto alla personalità di singoli scienziati –. Forse sarebbe opportuno promuovere un’indagine parlamentare sull’Università e sugli enti di ricerca, chiamando anche a testimoniare docenti, ricercatori, funzionari, tecnici e studenti.
La ricerca di base è svolta soprattutto (ma non esclusivamente) nell’Università, mentre la ricerca applicata è svolta negli enti di ricerca e nelle imprese private, particolarmente nelle grandi imprese. Bisogna dire che, se i politici hanno gravi responsabilità per la situazione infelice della ricerca nel nostro paese, anche gli industriali non sono affatto privi di colpe, giacché preferiscono investire cospicui mezzi finanziari nel calcio (“circenses”) piuttosto che in cultura: un indice, anche questo, dell’arretratezza civile dell’intero paese tanto nel suo settore pubblico quanto in quello privato. Il giorno in cui vedremo costituirsi una robusta lobby in Parlamento per far passare un provvedimento fiscale che preveda fortissimi sgravi fiscali (ben più incisivi di quelli esistenti) per la costituzione di istituti di ricerca finanziati da imprese private, sarà un gran bel giorno per il paese.
Tuttavia, non basta inventare: per lo sviluppo economico e civile occorre poi applicare le invenzioni, occorre cioè innovare; ed è necessario che le innovazioni si diffondano progressivamente. Ora, l’estensione e la velocità della diffusione dipendono dall’efficienza del sistema scolastico considerato nel suo complesso. A questo proposito può essere interessante una osservazione – forse dovrei definirla soltanto una ipotesi –. I laboratori e gli istituti di ricerca inglesi sono fra i più avanzati del mondo; eppure la performance dell’economia inglese, se si considera la crescita della produttività e il ritmo dell’immissione di nuovi prodotti, appare meno e non più brillante di quella di altri paesi industrializzati: chiaramente, la diffusione delle innovazioni è lenta in Gran Bretagna. Certi indizi inducono a ritenere che ciò dipende dal fatto che le scuole medie non sono particolarmente efficienti. È un’ipotesi da approfondire.
Torniamo al nostro paese, dove le cose vanno certamente peggio. Sotto l’aspetto economico, un debole sistema di ricerca comporta un fiacco e limitato sviluppo di prodotti ad alta tecnologia, con la conseguenza che anche le esportazioni di tali prodotti crescono relativamente poco. Questo è un fatto negativo, poiché, a lungo andare, i prodotti che possono fare tutti sono vulnerabili nella concorrenza internazionale.
La crescita delle attività della ricerca scientifica riveste grande importanza per lo sviluppo economico; ma la ricerca scientifica, intesa in senso lato, è essenziale per lo sviluppo civile, che è assai più importante dello sviluppo economico. I due processi non coincidono, ma si sovrappongono in vari modi. Così lo sviluppo della ricerca scientifica direttamente e indirettamente favorisce la crescita dei posti di lavoro capaci di procurare soddisfazioni intellettuali assai più che soddisfazioni economiche. E in realtà, nonostante la filosofia consumistica e dell’arricchimento, che sembra prevalere, credo che un numero crescente di giovani aspiri più a quelle che a queste.
La scienza non è soltanto, come afferma Adamo Smith, il grande antidoto del fanatismo e della superstizione, ma è anche, come sostengono lo stesso Smith e poi, molto più vigorosamente, il nostro Carlo Cattaneo, il principio primo dello sviluppo economico e dell’incivilimento. La scienza è l’acqua sorgiva che, scendendo dalle montagne può, a cascata, irrigare e rendere fertili e prospere le colline e le vallate sottostanti. Può gradualmente migliorare la qualità del lavoro ossia, in ultima analisi, la qualità della vita.

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