Il testo è stato abbreviato in alcune delle sue parti più collegate alla situazione politica di allora. Ritengo sia un testo ancora valido per le considerazioni più generali sull'economia italiana.
Il testo completo è rintracciabile sul sito della Fondazione Sylos Labini.
Paolo Sylos Labini
LA CRISI ITALIANA
INDICE
Premessa vii
1. Le
origini della crisi 3
<La crisi ideologico-politica, p. 4> - Tare antiche e recenti
della società italiana, p. 9 - La crisi economica e finanziaria, p. 12 - Stato
e mercato, p. 16 - Mutamenti della struttura sociale, p. 22 - La fluidità della
situazione politica, p. 25 - Le prospettive, p. 26
2. Bisogna
fare i conti con Marx 28
<Le responsabilità di Marx, p. 28 -
Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde, p. 34 - Marx e i
comunisti, p. 37 >-
La posizione della sinistra verso le piccole imprese, p. 40 - Le formule
partecipative, p. 42 - Lotta di classe e odio di classe, p. 43 - Marx e Machiavelli,
p. 45
3. La legge finanziaria, il rovesciamento della scala di priorità e
il conflitto d’interessi
47
Economia
reale ed economia finanziaria, p. 47 -< La legge finanziaria, p. 50 - Le critiche
al governo Berlusconi, p. 56 - Obiezioni ad una interpretazione moralistica, p.
58> -
Un’obiezione politica, p. 62
4. La riforma dello stato sociale 66
Insegnamenti
utili per il futuro, p. 66 - Tre grandi aree di spesa, p. 69 - La posizione dei
sindacati, p. 71
5. Una
politica per accelerare la crescita dell’occupazione e lo sviluppo civile del
Mezzogiorno
74
La
crescita dell’occupazione, p. 74 - La creazione di nuove imprese, p. 77 - Lo
sviluppo civile nel Mezzogiorno, p. 80 - Il livello d’istruzione dei lavoratori,
p. 82 - L’andamento dell’occupazione negli ultimi quarant’anni, p. 83
6. La
scuola, la ricerca scientifica e la qualità del lavoro
86
Una condizione preliminare per
riorganizzare il sistema scolastico, p. 88 - Riflessioni sulla riforma
universitaria, p. 88 - I gravi problemi della ricerca, p. 91
Nota: le parti messe tra <> sono state tolte
per avere un documento snello focalizzato sulla situazione italiana e sulla
crisi economica. Il documento nella sua interezza è facilmente recuperabile
all'indirizzo: http://dspace.unitus.it/handle/2067/170
Nota
:Le pagine dell'indice non corrispondono a causa non tanto delle parti tolte ma
della diversa formattazione. Il numero di pagine complessivo di questa edizione
ridotta è di 26 pagine
1.
Le origini della crisi
Le origini della crisi
Quella che stiamo vivendo è una
crisi grave e sconcertante. Molti pensavano che l’Italia stava uscendo da un
periodo oscuro, dominato da numerosi sintomi di degenerazione, fra cui una
dilagante corruzione, per entrare in tempi brevi in una fase di miglioramento
politico e sociale. Finora di questo miglioramento non c’è alcuna indicazione,
anzi, pare che sia in atto un grave peggioramento: aumenta giorno per giorno il
numero di coloro che si vanno convincendo che siamo caduti dalla padella nella
brace (con diversi elementi positivi a favore della padella).
Lo
svolgimento ha preso avvio poco meno di tre anni fa dalle inchieste aperte da
alcuni giudici di Milano sulle così dette tangenti – che sarebbe più corretto
definire secanti, come mi faceva notare un amico matematico –; le inchieste,
oramai passate alla storia col nome di Tangentopoli, sono tuttora in corso.
Per
cercare di comprendere quel che sta accadendo in un modo non superficiale
dobbiamo cercare di andare oltre gli eventi contingenti e di considerare la
crisi in atto adottando una prospettiva più ampia. A questo scopo possiamo
prendere le mosse dalla concezione di Adamo Smith, il quale, prima di essere un
economista, era un filosofo.
Secondo
Smith, per cercare di comprendere l’evoluzione di una determinata società conviene
studiare tre aspetti: cultura, istituzioni ed economia. Interpretando Smith,
possiamo dire che la cultura comprende l’istruzione, l’etica, le abitudini, le
idee e le ideologie prevalenti nella società. Le istituzioni comprendono le
forme organizzative e l’assetto giuridico della società sia nella sfera del
diritto pubblico che in quella del diritto privato. L’economia in senso proprio
comprende le risorse naturali e la posizione geografica e riguarda la
produzione e il commercio dei beni e le relazioni che si stabiliscono fra gli
uomini nelle attività produttive e commerciali. I tre aspetti vanno visti
unitariamente; così, la crescita della produzione e degli scambi è fortemente
condizionata, anche se non puntualmente determinata, dall’evoluzione della
cultura e delle istituzioni.
In
questo periodo in Italia stiamo vivendo una crisi multipla:
ideologico-politica, istituzionale ed economica.
La crisi ideologico-politica
<Analizza Gli effettti della
guerra fredda in termini di corruzione, criminalità organizzata e
contrapposizione ideologica>
Tare antiche e recenti della società
italiana
Lo sviluppo del capitalismo in
Italia è stato tardivo. I paesi ritardatari, nella fase iniziale, sono
costretti a concentrare le loro risorse sulle grandi infrastrutture – che
comprendono le ferrovie – e sulle industrie pesanti, come la siderurgia (la
quale riceve un particolare impulso se il governo attribuisce un’elevata
priorità agli armamenti). Ma infrastrutture e industria pesante in un paese
ritardatario, per definizione economicamente molto arretrato, con pochi
imprenditori moderni e con un mercato molto ristretto, esigono un robusto
intervento pubblico. Di qui due caratteristiche del capitalismo italiano, come
anche di quello di diversi altri paesi ritardatari. La prima consiste in una
spaccatura fra poche grandi imprese moderne direttamente o indirettamente
sostenute dallo Stato, e piccole imprese, che restano a lungo di tipo
tradizionale e sono quindi assai poco dinamiche; la seconda caratteristica è
data dalla commistione tra pubblico e privato in economia con i connessi gravi
rischi di abusi e corruzione. In Italia la spaccatura fra grandi e piccole
imprese e la commistione tra pubblico e privato divennero ancora più accentuate
durante la prima guerra mondiale, per via delle commesse militari, e poi nelle
vicende che seguirono la crisi del 1929, che costrinse il governo a compiere
numerosi salvataggi di grandi banche e grandi imprese.
Sotto
l’aspetto civile, occorre tener ben presente che sino al 1912 in Italia c’era,
bensì, una libertà politica degna di considerazione, ma la democrazia era assai
circoscritta. Aveva diritto al voto poco più di un decimo della popolazione.
Nel 1913 il suffragio divenne più ampio – il diritto di voto fu esteso a circa
un quinto della popolazione, che era tuttavia pur sempre una minoranza –.In
quel tempo la stragrande maggioranza degli italiani era analfabeta o
semi-analfabeta. Dopo due anni venne la guerra e poi il fascismo.Pertanto, nel
nostro paese la democrazia è un fenomeno relativamente recente.
Tutto
questo ha favorito una situazione di non partecipazione o di separatezza tra
classe politica e popolazione. Fino alla prima guerra mondiale tale separatezza
non fomentò, come era possibile, una diffusa corruzione nella vita politica ai
più alti livelli poiché in quel tempo di regola – ma non sono rare le eccezioni
– si dedicavano alla politica membri di cospicue famiglie borghesi o
dell’aristocrazia terriera, tutte persone che non pensavano certo alla politica
come mezzo per migliorare le loro condizioni economiche o addirittura per
arricchirsi. Diversamente stavano le cose al livello politico locale,
soprattutto nel Mezzogiorno, come il meridionale Gaetano Salvemini mise
spietatamente in evidenza in scritti famosi, ed in certe porzioni
dell’economia, specialmente là dove aveva luogo la commistione cui ho
accennato. In politica, almeno al vertice, gli standard morali erano
relativamente buoni.
Con
la prima guerra mondiale, soprattutto attraverso i gradi intermedi
dell’esercito, e subito dopo la guerra, entrano tumultuosamente sulla scena
sociale e politica schiere di persone appartenenti alla media e piccola
borghesia (specialmente piccola borghesia impiegatizia), schiere già in
espansione e la cui crescita riceve un vigoroso impulso dalla guerra. Qui non
sono rari purtroppo gli individui famelici e di moralità scadente – la fame si
rivolge non solo verso il danaro, ma anche verso il potere e l’influenza
sociale –; per affermarsi, questi individui vanno sia a destra che a sinistra,
e sia all’estrema destra che all’estrema sinistra. Le violente lotte sociali
nel primo dopoguerra, l’angoscia per il bolscevismo, l’ascesa del fascismo sono
da considerare in questo quadro.
La
separatezza fra popolazione e classe politica diventa acuta con la dittatura
fascista e la corruzione si estende soprattutto fra gli alti gerarchi. Diviene
tuttavia galoppante dopo la seconda guerra mondiale e specialmente negli ultimi
vent’anni. Come in ogni paese che perde una guerra, la sconfitta che conclude
la seconda guerra mondiale rappresenta un trauma grave per l’intera società.
Nel nostro paese il trauma è stato gravissimo non solo per le sofferenze di
ogni genere ma anche per l’impressionante contrasto fra retorica militaresca e
imperialistica e penosa realtà, un contrasto messo a nudo prima dall’assai
infelice campagna di Grecia e poi dalla tragica spedizione in Russia. Il trauma
non è stato ancora superato ed è rimasta, almeno in parte, quella scarsa
fiducia in se stessi che spinge molti italiani ad atteggiamenti spietatamente
autocritici, che stupiscono non pochi stranieri. Finita la guerra nel modo
tragico e vergognoso che ben conosciamo – la catastrofe non fu solo militare,
ma anche politica e morale – numerosi giovani si rivolsero al Partito
comunista, che usciva da quella spaventosa esperienza con grande prestigio
grazie alle persecuzioni subìte e grazie alla Resistenza, che li aveva visti
fra i più impegnati. Quei giovani, come molti altri, che si rivolgevano ad
altri partiti avevano l’ansia di rinnovare radicalmente una società di cui la
guerra aveva rivelato tare gravissime. Al tempo stesso, tutti coloro che
aborrivano i comunisti e coloro che ad essi sembravano alleati o affini, si
rivolgevano in gran parte verso la Democrazia cristiana che, grazie soprattutto
al capillare sostegno anche organizzativo della Chiesa cattolica, si presentava
come il “baluardo contro il comunismo”.
Lo
scontro di cui ho parlato va visto in un tale contesto.
La crisi economica e finanziaria
Fra le tre aree di Smith –
cultura, istituzioni, economia – non sussistono paratie stagne; e gli stessi
problemi economici che oggi affliggono il nostro paese sono in vari modi
collegati con la crisi ideologico-politica e con la crisi istituzionale.
L’incubo del nostro paese e della classe politica è costituito dall’enorme
debito pubblico; esso rappresenta anche il principale ostacolo al nostro pieno
ingresso in Europa. Il debito pubblico ha raggiunto le dimensioni che
conosciamo anche per effetto dei prezzi pagati per fini di stabilizzazione sociale
e politica. Lo stato sociale s’inseriva in una tendenza comune a tutti i paesi
industrializzati; ma in Italia esso ha assunto i connotati assistenziali e
clientelari che conosciamo – sia rispetto agli utenti sia nell’ambito dei
pletorici apparati che lo amministrano – perché nella pratica politica i
fattori cui accennavo hanno avuto un peso di rilievo.
Al
fabbisogno finanziario derivante dai disavanzi di bilancio lo Stato fa fronte
con la vendita di titoli pubblici: non occorre aderire alla teoria monetarista
per riconoscere che disavanzi sistematicamente finanziati con la stampa di
biglietti aggravano l’inflazione. Difatti, oramai da tempo i governi evitano di
seguire questa strada. Anno per anno però il disavanzo tende a crescere a causa
del crescente onere per interessi, salvo che non si attuino adeguati tagli di
spesa o non si accrescano i tributi – due vie politicamente assai difficili da
percorrere –. Se, com’è accaduto in Italia da parecchi anni, il disavanzo
complessivo aumenta ed aumenta il volume dei titoli da vendere, il tasso
dell’interesse subisce una spinta verso l’alto, per convincere i risparmiatori
a cedere allo Stato una parte cospicua dei loro risparmi. Il volume dei titoli
da vendere è dunque il primo determinante del tasso dell’interesse. Il secondo
determinante è costituito dall’intensità della pressione inflazionistica. Un
terzo determinante è di carattere internazionale: per sostenere la quotazione
della lira rispetto alle altre monete e contrastare l’inflazione importata
occorre mantenere l’interesse ad un livello tale da scoraggiare l’esodo di
capitali e, se occorre, da attirare capitali dall’estero. Cosicché, se nei
paesi con cui abbiamo relazioni commerciali e finanziarie l’interesse tende a
flettere, una tale flessione imprime una spinta verso il basso anche
all’interesse interno, com’è accaduto fino a pochi mesi fa. Tuttavia, se cresce
la massa dei titoli da vendere, è ben difficile che possa aver luogo una
significativa riduzione dell’interesse. Ora, un interesse relativamente alto ha
conseguenze negative sia sugli investimenti pubblici che su quelli privati. Sui
primi un alto interesse ha conseguenze negative poiché, quando la massa dei
titoli da vendere è grande e crescente, il gravoso onere per interessi induce
il governo a comprimere tutte le spese che politicamente possono essere
compresse, a cominciare dalle spese per investimenti. Quanto al settore
privato, un alto interesse decurta i profitti netti e in questo modo frena gli
investimenti. Ma gli investimenti rappresentano la molla principale dello
sviluppo: bassi investimenti comportano uno sviluppo basso o nullo. Proprio per
questo motivo un aumento dell’interesse a breve a volte è usato dalla banca
centrale per indurre sindacati e associazioni padronali a contenere gli aumenti
dei salari.
In
tutti i paesi industrializzati dal 1989 e fino all’autunno del 1993 le economie
si sono dibattute in una situazione vicina al ristagno e la schiera dei
disoccupati è decisamente aumentata. Dall’autunno del 1993 si è profilata una
ripresa economica internazionale, che ha ridotto in misura sensibile la quota
dei disoccupati negli Stati Uniti, dove la ripresa è stata netta, mentre l’ha
ridotta molto poco in Europa e, in particolare, in Italia. Bisogna osservare
che la disoccupazione può aumentare anche quando la produzione non diminuisce,
per effetto dell’aumento della produttività, che procede quasi senza
interruzione anche quando c’è ristagno. Bisogna anche osservare che un certo
ammontare di disoccupati è fisiologico, giacché si ricollega al tempo
occorrente, per i giovani, per cercare un impiego e, per tutti, per cambiare
lavoro. La disoccupazione raggiunge e supera livelli patologici quando il tempo
per la ricerca e il cambiamento diviene molto lungo. In questo dopoguerra si è
notato che la disoccupazione fisiologica – o “di attrito” – che permane anche
in condizioni di sostenuta espansione, è andata crescendo, essenzialmente
perché, con l’aumento del livello medio d’istruzione e col miglioramento delle
condizioni economiche delle famiglie, coloro che desiderano trovare o cambiare
occupazione sono in grado di attendere più a lungo. Quando c’è ristagno cresce
la divergenza fra lavori desiderati e lavori disponibili; e poiché ben
difficilmente un laureato o un diplomato accetterà un posto di lavapiatti o di
facchino nei mercati generali, la disoccupazione non potrà non aumentare. Né
giova affermare che la disoccupazione non esisterebbe se tutti fossero disposti
ad accettare qualsiasi lavoro, giacché la divergenza cui ho accennato denuncia
un problema genuino. Problemi di tal genere sono frequenti soprattutto nel
Mezzogiorno d’Italia.
Più
in generale, occorre osservare che da circa vent’anni la velocità della
crescita è diminuita in tutti i paesi industrializzati (in Italia il saggio di
aumento annuale medio del prodotto lordo è sceso dal 5,5% al 2,5%): effetto,
questo, di diversi fattori, tra cui è da ricordare la sempre più vigorosa
concorrenza mossa, in modo diretto o indiretto, da un numero crescente di paesi
del Terzo mondo, sia in certe produzioni di base, come l’acciaio e la chimica,
sia in diverse produzioni di beni di consumo, come i prodotti tessili e le
calzature. Per i paesi industrializzati la via maestra per contrastare gli
effetti negativi di tale concorrenza è di accelerare la crescita delle
produzioni ad alta tecnologia, ciò che comporta un’intensificazione degli
sforzi per la ricerca. In questo campo l’Italia è in grave ritardo.
Stato e mercato
Oggi hanno luogo vivaci
discussioni sulla contrapposizione fra Stato e mercato; ma le difficoltà hanno
riguardato sia i paesi che si sono posti sulla via della privatizzazione sia
paesi decisamente statalisti, come l’Italia. Il problema della riduzione
dell’area pubblica a favore di quella privata appare al centro della crisi
ideologica e degli scontri politici del nostro tempo. La questione sembra
particolarmente importante nel nostro paese, dove l’area pubblica è fra le più
estese dei paesi industrializzati – mettendo da parte, beninteso, i paesi che
facevano parte del socialismo reale, nei quali la questione si pone in termini
profondamente diversi.
Quando
si mettono in risalto i vantaggi del mercato in contrasto con l’azione pubblica
nella vita economica generalmente si fa riferimento a quella rete sistematica
di scambi in cui sia la domanda che l’offerta fanno capo a tanti soggetti
privati ed i prezzi si formano in modo spontaneo e impersonale; in altre
parole, si fa riferimento ad un mercato in concorrenza bilaterale. Non è di
questo genere un mercato in cui l’offerta ovvero la domanda è controllata da un
soggetto solo, sia esso privato o pubblico, ovvero quello in cui è lo Stato che
controlla il prezzo. Tenendo conto di tali restrizioni, non possono essere
considerati come mercati che si autoregolano ed in cui il prezzo dipende impersonalmente
dall’azione di tanti e tanti soggetti:
- il mercato del lavoro, la cui
forma si approssima al monopolio bilaterale e nel quale, per di più, in certi
paesi, come il nostro, è rilevante l’intervento pubblico;
- il mercato delle aree
fabbricabili, dove l’offerta è fortemente condizionata dall’autorità pubblica;
- il mercato delle opere
pubbliche, in cui è la domanda ad essere condizionata dall’autorità pubblica;
- il mercato di beni e servizi
che presuppongono concessioni da parte di autorità pubbliche, come ad esempio i
telefoni, le acque minerali, le emittenti televisive e radiofoniche;
- il mercato dei beni prodotti in
regime di monopolio naturale, come l’energia elettrica;
- i mercati di diversi prodotti
industriali, come le armi e i prodotti farmaceutici, richiesti in misura
significativa da organismi pubblici;
- i mercati di molti prodotti
agricoli, i cui prezzi sono in qualche modo regolati dall’autorità pubblica,
anche per effetto di accordi internazionali, come quelli del Mercato comune
europeo.
I
mercati del credito sono condizionati non solo dalla banca centrale, che è un
organismo pubblico, ma, più fondamentalmente, dall’autorità pubblica, che
spesso controlla, attraverso pacchetti azionari di maggioranza, numerosi
istituti di credito. Analogamente, sono controllate dall’autorità pubblica
diverse grandi imprese industriali, società di assicurazione, di trasporto, di
comunicazione. La scuola, la ricerca, la sanità sono attività in misura più o
meno ampia – spesso molto ampia – gestite o controllate da autorità pubbliche.
A conti fatti, sembra che il mercato operi pienamente solo nell’area, pur
vasta, delle piccole imprese e nell’area delle medie e grandi imprese nei
settori aperti alla concorrenza internazionale, anche se, in queste come in
altre aree, sono relativamente frequenti i dazi, i sussidi per interessi e i
trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese che a rigore alterano il
libero gioco del mercato.
È
dunque lo Stato e non il mercato che oggi domina la vita economica? Per
l’economia italiana, la risposta sembra affermativa. Ma in una certa misura la
domanda si pone anche per gli Stati Uniti, la roccaforte del capitalismo. In
effetti, se le spese pubbliche in Italia rappresentano quasi la metà del
reddito nazionale – una quota solo limitatamente più alta che negli altri paesi
europei –, negli Stati Uniti la quota, tutt’altro che modesta, è di circa il
35%; in quel paese è molto minore l’incidenza delle spese sociali, mentre è
maggiore quella delle spese militari – in quel paese ha tuttora gran peso
politico, oltre che economico, il così detto complesso militare-industriale –.
È
indubbio però che, nell’ambito dei paesi industrializzati, da noi l’intervento
pubblico sia fra i più estesi. Perché? Le ragioni sono diverse. Ho già
osservato che il capitalismo moderno in Italia ha cominciato a svilupparsi con
ritardo ed ha avuto bisogno fin da principio di interventi pubblici
particolarmente robusti. Altri interventi, come quelli che portarono alla
creazione delle acciaierie di Terni o alla costruzione di certi rami
ferroviari, sono stati motivati, più che da ragioni economiche, da esigenze
strategiche e militari. La statizzazione di diverse grandi banche e di grandi
imprese industriali ha ricevuto un forte impulso dalla crisi economica che ebbe
inizio nel 1929, che stava provocando fallimenti a catena.
Per
bloccare un tale fenomeno, che dava origine ad un aumento enorme della
disoccupazione, lo Stato è intervenuto ed ha salvato numerose grandi imprese e
grandi banche. Il dichiarato intento era di restituire quelle imprese
all’iniziativa privata appena possibile. Ma per decenni sono state operate
privatizzazioni solo in via eccezionale.
Anzi,
sono stati compiuti nuovi salvataggi e non pochi industriali e banchieri
privati hanno sollecitato nuove statizzazioni. Abbiamo poi avuto due casi –
petrolio ed elettricità – in cui l’intervento pubblico è stato compiuto perché
si trattava di settori strategici per lo sviluppo economico. Infine, in Italia
l’allargamento dell’intervento pubblico è stato favorito da correnti
dottrinarie diverse, come la dottrina sociale cristiana, il keynesismo, il
corporativismo, il marxismo.
È
necessario mettere bene in chiaro che le spinte provenienti dall’economia o
dalle ideologie sono state utilizzate dai partiti – da tutti o da quasi tutti i
partiti, di destra, di centro o di sinistra – nel loro stesso interesse: dal
momento che i partiti avevano occupato lo Stato, la statizzazione ha
significato controllo esercitato dai partiti sulle imprese e sulle banche
statizzate, con vantaggi di potere e con vantaggi economici.
Anche
in Italia si è profilato un movimento contro l’intervento dello Stato e in
favore delle privatizzazioni e del “mercato”. Le resistenze sono grandi. Sotto
l’aspetto dell’interesse generale le privatizzazioni sono da noi più che
giustificate, giacché l’allargamento dell’area statale nel nostro paese è
andato ben oltre i limiti fisiologici, comunque intesi. Le motivazioni addotte
a favore delle privatizzazioni sono tre: 1) l’esigenza di una maggiore
efficienza; 2) la possibilità di ricavare cospicui mezzi finanziari dalla
vendita di imprese pubbliche; 3) l’esigenza di porre fine agli abusi di ogni
genere perpetrati dai partiti nell’area statale. La prima motivazione ha una
base incerta (quasi tutte le imprese pubbliche sono organizzate nella forma di
società per azioni); la seconda motivazione può avere un certo peso; ma è la
terza la motivazione di maggior rilievo.
La
reazione all’intervento pubblico ed a favore del “mercato” significa
cambiamento e non abolizione delle regole. Il mercato non è assenza di regole,
come alcuni sembrano ritenere, non è un vuoto, riempito solo dalle azioni dei
singoli che sono mossi dal loro tornaconto. Il mercato è un complesso prodotto
giuridico e istituzionale, frutto di un’evoluzione plurisecolare: sistemi di
contratti, tipi e forme di imprese pubbliche e private, di istituzioni e di
organismi pubblici addetti al controllo ed alla vigilanza su operazioni
complesse, come quelle svolte da intermediari finanziari e da società per
azioni, condizionano, racchiudono ed anzi costituiscono il mercato.
Come
nel caso del mercato, anche nel caso del liberismo oggi circolano, in Italia e
fuori, concetti gravemente erronei.
Il
liberismo ha tre significati, che in parte si sovrappongono, ma non coincidono.
In primo luogo, il liberismo si contrappone al protezionismo e significa
libertà del commercio internazionale. In secondo luogo, significa massimo
spazio assegnato ai mercati in libera concorrenza, con l’eliminazione delle
posizioni di monopolio, là dove ciò è possibile, e con l’introduzione di
controlli di vario genere per le posizioni di tipo monopolistico, di cui ho
dato esempi più sopra; infine, il liberismo si contrappone allo statalismo, ossia
all’“eccesso” dell’intervento pubblico in economia.
Due
riflessioni sul terzo significato di liberismo. Prima riflessione: il grado
d’intervento pubblico, comunque misurato (per esempio: percentuale delle spese
pubbliche sul prodotto nazionale, estensione della proprietà pubblica di unità
produttive), varia nel tempo e nei paesi. Di regola, dopo la seconda guerra
mondiale è cresciuto in tutti o quasi tutti i paesi industrializzati, almeno se
come misura si usa la quota delle spese pubbliche.
Io
sostengo che in Italia l’intervento pubblico è andato troppo avanti, non solo
per motivi legati all’evoluzione economica, ma anche e, negli ultimi tre
decenni, soprattutto per motivi di stabilizzazione sociale e politica.
Seconda
riflessione. Adamo Smith, che molti considerano il profeta del liberismo, era,
in realtà, decisamente in favore del liberismo nel commercio internazionale,
era, di nuovo, in favore dei mercati in concorrenza, ma era decisamente
contrario ad ogni forma di monopolio; era certamente contrario ad estendere
l’intervento pubblico nell’economia, ma in questa direzione non si spingeva
affatto così lontano come sembrano ritenere molti suoi sedicenti seguaci. Mi
limito a ricordare che le funzioni che Smith assegna allo Stato sono tre, non
due: oltre la difesa e la giustizia, fra quelle funzioni include la costruzione
di quelle opere pubbliche e la creazione di quelle istituzioni, specialmente
nell’area dell’istruzione, che non sono – o non sono sufficientemente –
profittevoli per i privati, mentre sono vantaggiose “per una grande società”.
Mutamenti della struttura sociale
Conviene riflettere sui dati
delle due tabelle che seguono: i dati possono dare una prima idea delle
profonde trasformazioni subìte dalla struttura economico-sociale del nostro paese
dopo la fine della guerra.
Tab.
1. Categorie economiche (composizione percentuale)
1951
1971 1983
1993
1. Agricoltura 43 18
13 9
2.
Industria e artigianato 35 42 35
32
3.
Servizi 15 30 36 41
4. Pubblica amministrazione 7 10 16 18
Tab.
2. Classi e categorie sociali (composizione percentuale)
1951
1971 1983
1993
1. “Borghesia” 2 3
3 3
2.
Classi medie urbane 26 38 46
52
di
cui:
impiegati
privati 5 9 10 11
impiegati
pubblici 8 11 16
18
artigiani
5 5 6 6
commercianti
6 8 9
11
3.
Contadini proprietari 31 12 8
6
4.
Classe operaia 41 47 43
39
di
cui:
salariati
agricoli 12 6 4 3
operai
dell’industria 23 31 28
25
commercio, trasporti e servizi 6 10 11 11
Sotto l’aspetto delle categorie
economiche, in questo dopoguerra le trasformazioni più rilevanti sono avvenute
in agricoltura (l’esodo agrario è stato gigantesco) e nei servizi – ormai
l’occupazione nei servizi privati e pubblici rappresenta il 60% della popolazione
attiva –. Dal punto di vista delle classi e delle categorie sociali, è
fortemente cresciuta la piccola borghesia impiegatizia e sono cresciuti i
commercianti – circa il doppio –, mentre la “classe operaia”, dopo essere
aumentata, nei primi venti anni, dal 41 al 47%, è poi diminuita ed ora non
arriva al 40%.
Queste
profonde trasformazioni sono avvenute in un contesto di rapido sviluppo
economico, il più rapido mai avvenuto nella nostra storia: dal 1951 il reddito
totale è aumentato di ben cinque volte, quello individuale, di quattro volte.
In via di larga massima, contrariamente a quanto molti credono, ciò è avvenuto
tanto nel Centro-Nord quanto nel Sud, con l’avvertenza che il divario economico
fra le due grandi circoscrizioni, misurato in termini di reddito individuale,
che nel 1951 era pari a circa il 46% ed era sceso al 35 nel 1975 per effetto
delle massicce migrazioni dal Sud al Nord, è risalito alla quota del 1951 negli
ultimi anni.
Queste
quantità dicono poco, tuttavia, del divario sociale e civile fra Sud e
Centro-Nord, che può essere variamente misurato: ad esempio, usando i dati
riguardanti le persone o i lavoratori con diversi titoli di studio, o la
delinquenza minorile, o altri. Quanto alla crescita culturale dell’intera
società, in generale si può forse affermare che essa procede ad una velocità
più bassa della crescita strettamente economica: in certi periodi può procedere
addirittura in direzione opposta.
Le
trasformazioni nella struttura sociale hanno accentuato la frammentazione delle
posizioni politiche; in particolare, man mano che diminuisce il peso della così
detta classe operaia e, in particolare, di quella che fa capo alle grandi
imprese, si modificano il profilo della sinistra e il carattere del sindacato.
Insieme con un discreto benessere economico, si sono diffusi atteggiamenti di
tipo conservatore fra i ceti più diversi. Ma le posizioni politiche di questo
tipo cambiano radicalmente sia nelle diverse epoche storiche sia, in tempi
brevi, secondo gli interessi economici dei gruppi più influenti – proprietari
terrieri, grandi industriali, piccoli imprenditori dell’industria e dei servizi
–. Così l’orizzonte politico, che è a lungo termine nel caso dei proprietari
terrieri, è breve o brevissimo nel caso dei gruppi di ceti medi e, pertanto,
comporta una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni
sociali, politiche e sindacali; tali mutamenti, oggi, vengono esasperati dalla
crisi ideologico-politica in atto e dalla caduta del comunismo reale.
La fluidità della situazione politica
La crisi in atto nel nostro paese
ha dato luogo ad una fluidità e mutevolezza della vita politica quali ben
raramente erano state osservate in passato. Oggi non è più chiaro dov’è la
destra e dove la sinistra. L’intero quadro politico è in via di radicale
trasformazione. Le classi medie, che hanno sempre avuto il dono dell’ubiquità
politica e culturale, oggi, dopo il sostenuto sviluppo economico, si sono
ulteriormente allargate e sono divenute ancora più eterogenee e mobili che in
passato. La frammentazione delle classi medie, già notevole sul piano politico,
è ancora più accentuata sul piano sindacale. La classe operaia, costituita dai
lavoratori salariati, è ulteriormente diminuita. La parte della classe operaia
che fa capo alle grandi imprese è tuttora relativamente omogenea; ma le grandi
imprese oggi sperimentano difficoltà nettamente più gravi di quelle in cui si
dibattono le imprese di minori dimensioni. Il quadro sociale è oggi reso più
complesso dalla presenza di una non trascurabile schiera d’immigrati
extra-comunitari, che sono disposti a svolgere quei lavori poco gradevoli che i
lavoratori italiani, anche quelli del Mezzogiorno, non sono più disposti a
svolgere. Fra coloro che avversano un’ulteriore restrizione dei flussi
d’immigrazione ci sono persone che paventano le difficoltà economiche
conseguenti a tale restrizione; essi tuttavia sottovalutano le capacità di
adattamento del sistema economico (progresso tecnico, ulteriore meccanizzazione
di certe operazioni, ristrutturazioni produttive, aumento delle importazioni di
certi prodotti). A coloro che sono addirittura a favore di un allargamento
dell’immigrazione in nome di ideali umanitari, si deve far notare che il modo
per aiutare il Terzo mondo e particolarmente certi paesi africani non è questo,
ma sta nel predisporre, d’accordo con altri paesi europei, progetti di sviluppo
scolastico ed educativo (ciò che, fra l’altro, può contribuire alla flessione
della natalità) e adeguati programmi di assistenza tecnica e organizzativa nel
campo della produzione, a cominciare dall’agricoltura.
Le prospettive
Se
le prospettive immediate sono caratterizzate da grande fluidità, per le
prospettive non immediate dobbiamo riconoscere che siamo entrati in una crisi
gravissima, da cui tuttavia possiamo uscire in tempi non lunghi, anche se non
brevi, e possiamo avviarci a divenire un paese veramente e pienamente civile.
Ciò potrà accadere se sapremo introdurre alcune riforme essenziali, non solo
nei sistemi elettorali, ma anche nella organizzazione della pubblica amministrazione,
della sanità, della scuola, dell’Università, della ricerca. Chi studia
l’evoluzione della società inglese nel secolo scorso può trarre motivi di
conforto, pur tenendo conto che le condizioni di quella società erano
profondamente diverse da quelle della società italiana di oggi: la pubblica
amministrazione, che era inefficiente e non marginalmente corrotta, dopo alcune
importanti riforme cambiò e migliorò in misura molto notevole. In effetti, di
motivi di conforto oggi abbiamo grande bisogno, giacché il momento che stiamo
vivendo (dicembre 1994) è a dir poco atroce.
2.
BISOGNA FARE I CONTI CON MARX
BISOGNA FARE I CONTI CON MARX
Le responsabilità di Marx
<Analizza le responsabilità di
Marx rispetto alla situazione attuale>
Marx: le tesi erronee e le tesi
analiticamente feconde
<Valuta l'apporto teorico di Marx>
Marx e i comunisti
<Considera più specificatamente le
conseguenze del pensiero di Marx sui comunisti italiani>
La posizione della sinistra verso le
piccole imprese
La scarsa considerazione per le
piccole imprese da parte di molti esponenti della sinistra politica e sindacale
può essere in una certa misura riconducibile alla tesi marxista della
progressiva concentrazione delle imprese. Questa tesi non è erronea in sé. Per
un lungo periodo, a partire dalla fine del secolo scorso, si è osservata una
tale tendenza in diversi rami dell’industria e della finanza, anche se negli
ultimi due decenni essa, a quanto pare, si è arrestata o si è addirittura
capovolta. L’errore sta nell’interpretazione di tale tendenza, che cioè le
grandi e grandissime imprese sarebbero destinate a dominare un numero crescente
di mercati e a condizionare in misura crescente il potere politico, al livello
interno e nei rapporti internazionali; questa è l’interpretazione che può
essere ricondotta a Marx e a Lenin. C’è poi l’interpretazione di Schumpeter,
secondo il quale la capacità d’innovare tende a essere sempre più una
prerogativa delle grandi imprese. Entrambe le interpretazioni vanno respinte,
non perché – mi riferisco a Marx e a Lenin – le grandi imprese non contino, ma
perché non è vero che abbiano un peso crescente e non è vero che in paesi
democratici gruppi sociali diversi, come quelli rappresentati dai militari,
dagli intellettuali e da organizzazioni politiche, siano puramente subordinati
ai gruppi economici – certe volte è vero il contrario –. Quanto
all’interpretazione di Schumpeter, appare ormai evidentemente infondata la tesi
secondo cui le piccole imprese avrebbero avuto un ruolo sempre più marginale
nel campo essenziale delle innovazioni; non di rado, il loro ruolo è invece di
primaria importanza. (Conviene notare che la teoria della concentrazione
costituisce una delle basi della teoria leninista dell’imperialismo.)
La
tesi del processo di concentrazione poteva indurre, come ha indotto, i marxisti
a considerare con freddezza, ma non necessariamente con avversione, le piccole
imprese. Una certa avversione è riconducibile al marxismo per via
dell’“antagonismo di classe”, che nelle piccole imprese è affievolito o
annullato. È riscontrabile, specialmente nel passato, una notevole freddezza
non solo da parte dei marxisti ma anche della sinistra non marxista;
presumibilmente una delle ragioni sta nel fatto che la forza dei sindacati di
norma è maggiore nelle grandi che nelle piccole imprese e, sia pure in misure e
con caratteristiche diverse secondo i paesi, i sindacati hanno influenza sui
partiti e sulla vita politica.
Abbiamo tuttavia in Italia una situazione che
appare in contrasto con le osservazioni appena espresse: in Emilia e in altre
zone del Centro-Nord hanno prevalso a lungo i partiti di sinistra di tipo
marxista e, in particolare, i comunisti, eppure le piccole imprese hanno avuto
uno sviluppo molto notevole e, non di rado, sono state create da ex operai
specializzati che erano e sono poi rimasti comunisti. Il paradosso si spiega
tenendo conto che la “pace sociale”, che nelle piccole imprese quasi sempre
s’instaura, per motivi strutturali, ha decisamente favorito lo sviluppo di
quelle imprese, con vantaggi sia dei lavoratori che dei “capitalisti”.
D’altra
parte, anche in questo caso è rimasta una notevole ambiguità: nei fatti
– e soprattutto nei fatti riguardanti le zone cui alludevo dianzi – l’atteggiamento
del Partito comunista verso le piccole imprese era sostanzialmente favorevole,
ma in via di principio, al livello della politica economica nazionale, restava
la freddezza, se non proprio l’ostilità.
Con
la costituzione del Partito democratico della sinistra le cose sono alquanto
cambiate; ma il cambiamento resta ancora in superficie.
Le formule partecipative
Fra i residui perniciosi del
marxismo sul piano della politica economica vanno annoverati i residui che si
manifestano nell’avversione a tutte le formule che, in senso lato, possiamo
definire partecipative. Fra queste possiamo considerare: le integrazioni
retributive e i premi collegati con gli aumenti di produttività o di
profittabilità delle imprese, la partecipazione agli utili, varie forme di
partecipazione alla gestione, l’azionariato dei lavoratori e, più ampiamente,
il cosiddetto azionariato popolare. Il motivo dell’avversione sta nel fatto che
tutte queste forme partecipative comportano collaborazione fra lavoratori
dipendenti e capitalisti; ma non si può collaborare col “nemico di classe”: è
un peccato, se non un tradimento. Ora, che le forme appena ricordate possano
prestarsi ad abusi, non c’è alcun dubbio; ma se dovessimo rifiutare ogni forma
o formula che comporta il pericolo di abusi, non potremmo fare assolutamente
nulla al mondo – e non solo nel mondo delle imprese –.
D’altra
parte, il pericolo di abusi era relativamente elevato alcuni decenni or sono,
quando il livello d’istruzione dei lavoratori dipendenti era relativamente
basso e quando i sindacati non disponevano di uffici studi bene attrezzati.
Oggi le cose sono cambiate, ma quell’avversione persiste, sia pure solo come
residuo di una dottrina politicamente perniciosa.
3.
LA LEGGE FINANZIARIA, IL ROVESCIAMENTO DELLA SCALA
DI PRIORITÀ E IL CONFLITTO D’INTEREssi1
LA LEGGE FINANZIARIA, IL ROVESCIAMENTO DELLA SCALA
DI PRIORITÀ E IL CONFLITTO D’INTEREssi1
Passato, presente, futuro. Nei
capitoli precedenti ho espresso alcune riflessioni su due temi molto ampi, che
riguardano essenzialmente il passato, antico e recente: le origini della crisi
della società italiana e la crisi del marxismo, coi suoi residui perniciosi. In
questo capitolo discuterò questioni riguardanti il presente, mentre nei
capitoli successivi considererò le prospettive e tratterò alcune linee di
politica economica riguardanti i più gravi problemi di carattere, al tempo
stesso, economico e civile: disoccupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca.
Oggi
c’è una situazione che alcuni giudicano paradossale: l’andamento dell’economia
reale è favorevole; è l’economia finanziaria che va male. Vediamo meglio.
Economia
reale ed economia finanziaria
Le esportazioni tirano, grazie
alla ripresa internazionale ed alla svalutazione della lira, la bilancia
commerciale è decisamente attiva, la produzione industriale cresce ad un ritmo
sostenuto e cresce il reddito. D’altro lato, i capitali esteri se ne vanno, con
effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti e sulla lira, che perde colpi
rispetto alle altre monete, specialmente rispetto al marco; al tempo stesso la
Borsa va male e aumenta l’interesse a breve e, ancor più, quello a lungo
termine e sale il divario fra il nostro tasso e quello degli altri paesi
industrializzati.
Alcuni hanno detto che questa
divaricazione fra economia reale ed economia finanziaria economicamente è priva
di senso; si può spiegare solo per l’azione di qualche fattore del tutto
anomalo, come per esempio un complotto, nazionale o internazionale. Non è così.
Non è la prima volta che ha luogo una netta divergenza fra economia reale ed
economia finanziaria. Un esempio rilevante si ebbe non molti anni fa negli
Stati Uniti.
Nell’ottobre 1987 vi fu un crollo
in Borsa – del 30% in pochi giorni – simile a quello che nel 1929 segnò
l’inizio della grande depressione, e numerosi economisti ritennero che stesse
per aver luogo una nuova grande depressione. La depressione non ci fu e non ci
fu neppure una recessione, che Guido Carli, fra gli altri, aveva giudicato
probabile, e l’economia reale continuò ad espandersi. La crisi finanziaria
venne superata nel giro di tre mesi, grazie all’intelligente politica del
Sistema della riserva federale, che attraverso operazioni di mercato aperto
iniettò dosi massicce di liquidità, controbilanciando una netta flessione della
moneta bancaria, preludio di una flessione dell’economia reale. La divergenza
fra economia reale ed economia finanziaria ebbe dunque luogo, ma durò poco;
probabilmente, se la crisi finanziaria fosse durata più a lungo, la stessa
economia reale sarebbe stata coinvolta e forse travolta. In effetti, anche se
non implicano sintonia di movimenti dei grandi aggregati, esistono nessi
essenziali fra economia reale ed economia finanziaria, la quale non è regolata
da abili e diabolici speculatori (gli gnomi di Zurigo, nella pittoresca
concezione un tempo diffusa a sinistra, che fa il paio con la teoria dei
complotti, tuttora diffusa a destra), ma subisce spinte da mutevoli
aspettative, condizionate, fra l’altro, dallo stato delle finanze pubbliche,
dalle emissioni dei titoli pubblici, dai tassi dell’interesse, dai cambi e dalla
pressione inflazionistica. Le principali cinghie di trasmissione fra il settore
finanziario e quello reale sono rappresentate dai tassi dell’interesse e dai
finanziamenti bancari e azionari alle imprese.
Dunque,
da alcuni mesi nel nostro paese è in atto una divaricazione fra i due settori,
la quale è imputabile a ragioni politiche. Più precisamente, il grave ritardo
nella presentazione della legge finanziaria, i gravi contrasti interni alla
maggioranza e i conflitti sociali hanno scosso la fiducia degli operatori
stranieri, inducendo molti investitori a lasciare il nostro paese. Come
conseguenza di ciò, il livello dei titoli pubblici a lungo termine (futures)
che al principio della primavera era di 120 lire, è sceso al valore nominale di
emissione, 100 lire; ciò significa che il tasso dell’interesse a lungo termine,
che era sceso di circa due punti, è risalito al livello di sei mesi fa e il
differenziale fra i nostri tassi e quelli tedeschi è aumentato anche di più. Al
tempo stesso, la quotazione del marco, che alcuni mesi fa era di 940-950 lire
ora supera le 1020 lire; il dollaro è salito da 1500 a 1600 lire e più. Il
tasso a breve è aumentato – è stato aumentato di mezzo punto lo sconto
ufficiale, soprattutto come segnale rivolto al mercato dei cambi –; ed è
aumentato di più il tasso a breve praticato dalle banche sui prestiti alle
imprese. La preoccupazione maggiore riguarda il dollaro, che ora, in parte per
ragioni interne, simili a quelle che hanno provocato l’aumento del marco, e in
parte per effetto del rialzo dello sconto negli Stati Uniti, ha mostrato una
tendenza a salire: se l’aumento si consoliderà o, peggio, se proseguirà, si
aggrava il rischio di un’inflazione importata, dato che noi paghiamo in dollari
la maggior parte del petrolio e delle materie prime acquistate all’estero.
La legge finanziaria
Il ritardo della legge
finanziaria ha decurtato i tempi di preparazione: solo tre settimane contro i
tre mesi (o poco meno) dei tanto criticati governi presieduti prima da Amato e
poi da Ciampi. Eppure non occorreva del genio per comprendere che, con l’incubo
del debito pubblico e l’enorme deficit di bilancio, la preparazione e poi il
varo della legge finanziaria dovevano avere la massima priorità. E di fatti al
principio di giugno Berlusconi aveva dichiarato, certo anche per consiglio del
ministro del Tesoro Dini, che entro luglio sarebbe stata messa a punto la
finanziaria. Il ritardo ha avuto gravi conseguenze, giacché è mancato il tempo
per gli studi preliminari e per gli incontri con le parti sociali. O meglio: le
pensioni erano state oggetto di uno studio approfondito da parte della
Commissione presieduta da Onorato Castellino, un economista rigoroso e
competente. Ma per giungere ad una legge equilibrata e ampiamente accettabile,
il governo doveva considerare con lo stesso impegno e con la stessa serietà
anche le altre due grandi aree di spesa: la sanità, dove si poteva fare
un’opera di disboscamento radicale, e i trasferimenti agli enti locali,
problema su cui la Lega avrebbe potuto dare un importante contributo di
razionalizzazione e di risparmio. Un tempo adeguato avrebbe consentito una
serie di incontri con sindacati, industriali ed esponenti dell’opposizione;
avrebbe consentito anche un più sistematico dialogo all’interno della
maggioranza, già divisa da forti dissensi.
Il
tempo non c’è stato – tre settimane sono poche assai – e la legge finanziaria è
nata male, giacché solo il problema delle pensioni è stato studiato in modo
adeguato, ma lo studio è stato seguìto da rari incontri coi sindacati e con
poche e, a quanto pare, tempestose riunioni interne al governo. È vero: la
finanziaria è squilibrata, nel senso che colpisce soprattutto i pensionati e i
lavoratori dipendenti, ma io credo che questa è la conseguenza, non di un
disegno preordinato, ma della dannata fretta. La questione della sanità è stata
sostanzialmente lasciata nelle mani di un solo ministro, che ha fatto quello
che ha potuto – i tagli sono stati abbastanza consistenti, è vero, ma potevano
essere più razionali e molto più incisivi, come appare anche dal fatto che le
proteste dei sindacati hanno riguardato quasi soltanto le pensioni e assai poco
la sanità –. Con un tempo sufficiente a disposizione, tutto questo sarebbe
risultato evidente e sarebbe risultato chiaro che consistenti risparmi potevano
essere ottenuti anche prima della riforma, pur necessaria e urgente, delle
finanze locali. La legge finanziaria richiede un tempo non breve giacché
presuppone tre fasi: quella dello studio, quella degli incontri tra governo e
parti sociali e la fase dell’approvazione in Parlamento.
<
tolte considerazioni sul motivo del,ritardo>
La
crisi finanziaria in corso ha colpito numerosi risparmiatori. Negli ultimi otto
mesi sono fuggiti dall’Italia – niente meno – ben 60 mila miliardi di lire;
nello stesso periodo in Borsa si registra una perdita di oltre 70 mila miliardi
per la flessione dei corsi azionari, mentre l’aumento dei tassi di interesse, a
breve e a lungo termine, ha effetti negativi sul bilancio pubblico (ogni punto
d’interesse comporta un maggior onere di 15 mila miliardi) e sugli investimenti
privati.
Al
principio di dicembre il governo ha scongiurato all’ultimo momento uno sciopero
generale rinviando alcuni interventi qualificanti per le pensioni. In questo
modo è stata salvata la pace sociale, e ciò è un bene; ma si è aperta una nuova
falla nei conti pubblici, che va ad aggiungersi al probabile maggior onere per
interessi e alla probabile sovrastima di certe entrate e di certi risparmi di
spesa.
All’origine
dello squilibrio che ha condotto a far gravare sulle pensioni una quota troppo
alta dei risparmi di spesa troviamo, di nuovo, quel rovesciamento della scala
di priorità di cui ho detto e della conseguente maledetta fretta nel preparare
la legge finanziaria.
È
bene ricordare che i sindacati avevano protestato contro le misure riguardanti
le pensioni non perché si opponevano alla riforma in sé, ma perché volevano che
la riforma fosse oggetto di un provvedimento specifico e perché criticavano
duramente il metodo: volevano, a mio parere giustamente, essere consultati in
modo sistematico.Data l’importanza della materia e degli interessi in gioco,
ciò vale anche per i partiti di opposizione, quale che sia il governo.È anche
bene ricordare che, sulle pensioni, il Pds ha preparato un progetto serio e
rigoroso, che segna una vera e propria svolta rispetto alla linea
prevalentemente assistenzialistica del passato: è un segnale importante, da non
sottovalutare.
È
stato detto e si continua a dire: ha vinto la destra, la sinistra ha perso.
Magari fosse così. Io, che mi considero un laico di sinistra, pensavo da tempo
che per un certo periodo un governo di destra poteva essere utile al paese per
accelerare sia l’opera di risanamento delle finanze pubbliche sia il processo
di privatizzazioni – due operazioni tipicamente “di destra”.Questo governo non
ha fatto né l’una cosa né l’altra. La verità è che il leader non è né di destra
né di sinistra: è interessato essenzialmente ai suoi affari. Questo comincia a
diventar chiaro a un numero crescente di persone, anche fra i membri e fra i
consiglieri del governo. L’aumento del saggio dell’interesse danneggia gli
imprenditori, specialmente i piccoli, le perdite sulle azioni e sui titoli a
medio e a lungo termine colpiscono i risparmiatori; se poi la pressione
inflazionistica si aggraverà a causa dell’aumento del dollaro, allora la
schiera, già ampia, degli oppositori di questo governo crescerà con una
velocità travolgente.
Riflettendo
sulle vicende degli ultimi mesi si deve concludere che il governo Berlusconi ha
assunto connotati chiaramente sovversivi giacché ha scatenato una sorta di
guerriglia contro tutte le istituzioni che contano (se i successi appaiono
limitati è solo perché le resistenze sono state assai più forti del previsto).
Ecco le istituzioni che sono state oggetto d’attacco; l’elenco è
impressionante: la Rai-Tv, il Consiglio superiore della magistratura (al
principio), la magistratura, la Banca d’Italia, i sindacati, i grandi giornali
e lo stesso Presidente della Repubblica. Questa guerriglia istituzionale è già
costata al paese diverse decine di migliaia di miliardi di lire.
Le critiche al governo Berlusconi
<Contiene considerazioni
sull'operato del governo Berlusconi non direttamente economiche>
Obiezioni ad una interpretazione
moralistica
<vedi sopra>
Un’obiezione politica
<considerazioni politiche non
direttamente rilevanti>
4.
LA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE
LA RIFORMA DELLO STATO SOCIALE
Insegnamenti utili per il futuro
Dopo i risultati delle elezioni
amministrative e l’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, oggi (principio di
dicembre 1994), il governo in carica si dibatte in gravi difficoltà. Non è
possibile prevedere quali saranno i prossimi svolgimenti, anche se dobbiamo
essere ben consapevoli che Berlusconi non è un politico normale e che non se ne
andrà senza aver compiuto tutti i possibili tentativi e accettato tutti i
possibili compromessi per restare al potere. Nel precedente capitolo mi sono
soffermato sul governo Berlusconi perché credo che da questa infelice esperienza
si possono ricavare importanti insegnamenti per il futuro, principalmente due.
Primo
insegnamento. Quello del conflitto d’interessi non è un problema soltanto
etico: è un problema di grande rilevanza economica e politica.
Per
il futuro occorrerà risolvere seriamente questo problema, per esempio, fissando
delle incompatibilità assolute e introducendo un vero blind trust –
quello proposto dalla Commissione non era neppure un myopic trust.
Secondo
insegnamento. Il debito pubblico ha raggiunto dimensioni gigantesche e il
deficit di bilancio, in assenza d’interventi chirurgici, tende a crescere sia
per la lievitazione automatica di certe spese, sia perché, essendo finanziato
con titoli, cresce solo per questo motivo l’onere per interessi. Per bloccare questa
spirale infernale, dobbiamo dare tagli molto incisivi specialmente alle spese
maggiori che crescono automaticamente. E poiché il grosso di tali spese si
riferiscono alla previdenza, all’assistenza e alla sanità, dobbiamo renderci
ben conto che la preparazione della legge finanziaria – ed oramai mi riferisco
alla prossima legge – investe, niente meno, l’intera riforma dello stato
sociale. Ed è su questo fondamentale problema che intendo soffermarmi in questo
capitolo.
Oramai,
il debito pubblico e il relativo onere per interessi sono diventati una
pesantissima palla al piede per la nostra politica economica: le spese
d’investimento sono le prime a soffrirne e difatti, in termini reali, dal 1990
al 1993 sono diminuite del 16%, e quest’anno la diminuzione risulterà ancora
più accentuata. Non si può predisporre alcuna vigorosa politica tendente alla
crescita dell’occupazione ed allo sviluppo del Mezzogiorno senza ridurre
drasticamente il deficit pubblico che alimenta il debito. Oramai sia dentro che
fuori del governo si pensa che una manovra addizionale sia indispensabile in
tempi brevi, anche ricorrendo ad aggravi fiscali, in pieno contrasto con le
promesse elettorali.
Ma
se vogliamo alleggerire drasticamente la paralizzante palla al piede del debito
pubblico, per la legge finanziaria relativa al 1996 dobbiamo prepararci ad un
taglio anche superiore a quello compiuto dal governo Amato, che fu di ben 90
mila miliardi: e dobbiamo prepararci, io credo, ad un taglio dell’ordine di 100
mila miliardi e forse più.
Certo,
si può operare non solo sulle spese, ma anche sulle entrate tributarie, sia
intensificando la lotta all’evasione sia introducendo un’addizionale Irpef. Più
volte ho proposto d’inviare “commandos” di esperti nei paesi in cui il fisco
funziona per imitare creativamente, nei metodi pratici, e, se occorre, anche in
certe norme, quel che conviene imitare. Ma una tale azione, che comunque va
fatta, non può avere effetti rapidi. Nel passato avevo anche suggerito
d’introdurre un’addizionale Irpef, una misura che ha il vantaggio di far pagare
soprattutto i redditieri più abbienti e di non avere effetti di tipo
inflazionistico, ma ha lo svantaggio di colpire principalmente i lavoratori
dipendenti e i redditieri più onesti. Non mi pare che oggi sia rilevante l’obiezione
che mi fu rivolta due anni fa, che cioè un inasprimento fiscale poteva
indebolire la domanda di beni di consumo, con ripercussioni negative sulla
congiuntura economica, che allora era molto insoddisfacente. Tutto considerato,
però, il contributo principale alla riduzione del deficit non può provenire che
da risparmi ottenibili con la realizzazione di tagli delle principali categorie
di spese sociali. È qui che si pone il problema di una riforma dello stato
sociale, che sia radicale e che sia concepita in modo unitario. Imporre con la
forza una tale riforma non è possibile, come esperienze antiche e recenti hanno
confermato. Può essere attuata col consenso delle parti sociali. Ma per
ottenere risultati adeguati servono a poco le intese parziali; occorre invece
un patto organico con le parti sociali – sindacati (di sinistra, di centro e di
destra), associazioni degli imprenditori, grandi e piccoli, ed altre
associazioni di categoria.
Tre grandi aree di spesa
Ai tagli di trasferimenti
riguardanti le spese sociali conviene aggiungere tagli riguardanti i
trasferimenti agli enti locali. Per avere solo un’idea di larga massima delle
dimensioni finanziarie per i diversi trasferimenti nel 1993 (si tratta di cifre
tonde, in migliaia di miliardi): previdenza 260, assistenza 30, sanità 90; in
totale, 380 mila miliardi, mentre i trasferimenti agli enti locali, al netto
delle spese sanitarie, ascendono a 80 mila miliardi.
Si
pone un importante quesito: come possono tagli molto rilevanti consentire la
sopravvivenza stessa dello stato sociale?
In
via di principio, la risposta non è ardua: lo stato sociale non va demolito, va
trasformato e reso più snello e più robusto proprio per salvare la sua funzione
principale, che è quella di sostenere ed aiutare i più deboli. Può apparire
come un’azione di pura e semplice solidarietà in sé apprezzabile ma non
rilevante dal punto di vista economico o da quello sociale.
Non
è così. La prestazione, a spese della collettività, dei servizi sanitari ai non
abbienti, a lungo andare, tenendo in vita e in salute persone che in questo
modo possono accudire figli molto piccoli, tende a ridurre la microcriminalità;
inoltre, le persone che altrimenti sarebbero morte o diventate invalide nel
corso del tempo possono dare il loro contributo allo sviluppo economico e,
alcune, allo sviluppo culturale della società. Considerazioni analoghe valgono
per le pensioni, dove pesa molto di più la questione dei diritti acquisiti.
Tutto questo, però, significa che lo stato sociale va salvato anzi rafforzato per
la fascia bassa dei redditieri; la fascia dei redditieri medi può essere
aiutata con incentivi fiscali e quella dei maggiori redditieri neanche in tal
modo: in queste due fasce possono avere un ruolo importante le mutue e le
assicurazioni.
Questo
criterio, che nella sua formulazione essenziale appare ovvio e che io avevo
prospettato in modo articolato dieci anni fa, è stato via via tenuto presente
nei diversi tentativi di effettuare risparmi sulle spese sociali. Si tratta,
però, di non procedere attraverso interventi frammentari: si tratta di por mano
a una riforma organica, preparata adeguatamente.
È
stato affermato che nelle recenti vicende è emerso che né i partiti di opposizione né i
sindacati avevano progetti alternativi. Io dico che può essere fatta una
critica opposta: i partiti di opposizione e i sindacati di progetti ne avevano
fin troppi; è mancato un progetto unitario, ben definito nelle linee
essenziali, anche se non troppo dettagliato. Penso che i diversi partiti e i
sindacati, sia di destra che di sinistra, dovrebbero accordarsi per cominciare
a delineare un progetto unitario di riforma dello stato sociale. Forse il
Consiglio dell’economia e del lavoro potrebbe essere l’organismo adatto per
coordinare un tale lavoro. Ma un progetto operativo può essere predisposto solo
dal potere politico e, in particolare, del governo. Io mi auguro che
Berlusconi, che ormai è diventato un ostacolo al miglioramento della situazione
economica e politica, venga messo da parte e si pervenga a un nuovo governo, sia
pure dichiaratamente provvisorio, che ponga, fra le sue priorità, la riforma
istituzionale e quella delle autonomie locali e che avvii immediatamente la
preparazione della legge finanziaria per il 1996. In una tale prospettiva,
converrebbe ricostituire subito la Commissione di studi presieduta da
Castellino per rendere più razionale, per il futuro, la riforma delle pensioni;
e converrebbe creare altre due Commissioni: per la sanità e per i trasferimenti
agli enti locali o, più ampiamente, per la riforma delle finanze locali. Già
esistono, in Parlamento, Commissioni che si occupano di questi problemi.
Occorrono però, a fianco e a sostegno di queste, Commissioni di studio che non
facciano altro lavoro e che siano composte da specialisti. Appena pronte le relazioni
preliminari delle tre Commissioni bisognerebbe avviare le discussioni con le
parti sociali, con le associazioni di categoria e con le parti politiche che
sono fuori dal governo, quale che esso sia, riconoscendo che la riforma dello
stato sociale rappresenta oramai un’emergenza nazionale.
La posizione dei sindacati
Mi è stato obiettato: è ingenuo
attendersi che i sindacati siano pronti a collaborare a misure che comportino
tagli incisivi delle spese sociali; potranno dare il loro consenso solo a tagli
marginali: la difesa dello status quo per i sindacati e,
in particolare, per i sindacati di sinistra è pressoché un riflesso
condizionato. La prova è data dalla durissima resistenza ai risparmi, attuali e
futuri, connessi con la riforma delle pensioni, una resistenza che ha indotto
il governo, per preservare la pace sociale, a rinviare tale riforma.
Io
contesto questo punto di vista. L’opposizione è stata condizionata dalla fretta
e quindi dalla scarsezza di incontri col governo, dalle conseguenti decisioni,
largamente unilaterali, e dall’insufficiente considerazione delle altre aree di
spesa. A mio giudizio, la dura opposizione va messa in relazione anche col
deterioramento dell’immagine di Berlusconi: non solo coloro che operano nei
mercati finanziari interni e internazionali, ma anche i lavoratori –
numerosissimi lavoratori – modificano la loro condotta sulla base del giudizio
che si formano del governo in virtù dell’evidenza empirica. In effetti, le due
leggi finanziarie, quella preparata da Amato e quella di Ciampi, provocarono
manifestazioni di protesta e scioperi di gran lunga meno vigorosi ed estesi di
quelli attuali. Ma c’è un altro motivo per cui non si può dar ragione agli
scettici. Al tempo del primo accordo sul costo del lavoro del 1992 pochi
pensavano che i sindacati avrebbero rinunciato a qualsiasi forma di scala
mobile. Eppure questo è accaduto: merito del governo Amato che seppe portare
avanti gradualmente gli elementi dell’accordo; merito dei sindacati – la Cgil
dovette affrontare una grave lacerazione interna – e delle associazioni degli
imprenditori, che fecero diverse concessioni.
Sempre
nel 1992 Amato aveva elaborato, attribuendo deleghe al governo approvate poi
dal Parlamento, alcuni capisaldi delle riforme delle pensioni e della sanità,
su cui i sindacati si erano espressi favorevolmente; un anno dopo il governo
Ciampi aveva decisamente esteso l’accordo sul costo del lavoro, includendo
anche misure, rimaste poi inattuate, sulle scuole professionali, sulla ricerca
ed altre; gli effetti dei due accordi sono stati chiaramente positivi, in primo
luogo, sull’inflazione, e poi, in modo indiretto, sul deficit pubblico.
Se poi si riconosce che gli obiettivi da
perseguire con le assai più ampie possibilità aperte dai tagli sono socialmente
rilevanti – ne parlerò nei due capitoli che seguono – allora né i sindacati, né
i partiti di sinistra e di centro, né i partiti classificabili nell’area di
destra faranno un’opposizione a oltranza.
5.
UNA POLITICA PER ACCELERARELA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE
E LO SVILUPPO CIVILE DEL MEZZOGIORNO
UNA POLITICA PER ACCELERARELA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE
E LO SVILUPPO CIVILE DEL MEZZOGIORNO
La crescita dell’occupazione
La riforma, che dovrebbe rendere
più vigoroso lo stato sociale soprattutto per la fascia meno abbiente della
popolazione, dovrebbe, al tempo stesso, comportare minori spese e liberare
risorse adeguate per finanziare un programma con tre grandi obiettivi, fra loro
strettamente interconnessi: occupazione, Mezzogiorno, scuola e ricerca.
Dell’occupazione e del Mezzogiorno parlerò brevemente in questo capitolo; ai
problemi della scuola e della ricerca accennerò nel capitolo successivo, che è
anche l’ultimo.
Tre
sono le interpretazioni analitiche della disoccupazione: l’interpretazione dei
liberisti, quella keynesiana e quella degli economisti che, in mancanza di un
termine più preciso, chiamerò post-keynesiani; corrispondentemente, tre sono le
strategie di politica economica, anche se è bene avvertire subito che fra le
tre correnti di pensiero non c’è più quella contrapposizione che si poteva
osservare fino a qualche anno fa.
Per
i liberisti, la disoccupazione si combatte rendendo i salari più flessibili
verso il basso, ciò che si ottiene riducendo drasticamente quegli interventi
esterni al mercato introdotti dallo Stato e dai sindacati, che spingono i
salari su livelli più alti di quelli che il mercato determinerebbe. I liberisti
raccomandano la drastica riduzione dei vincoli che ostacolano la mobilità da
un’attività ad un’altra e da un’impresa ad un’altra e, più in generale, la
flessibilità nel mercato del lavoro.
Per
i keynesiani, è raccomandabile, nel breve periodo, ridurre il tasso
dell’interesse, espandere le spese pubbliche, produttive e improduttive, da
finanziare con emissione di titoli; con riferimento al lungo periodo,
raccomandano d’introdurre tributi, per redistribuire i redditi ed accrescere
così la propensione al consumo, e di attuare un “controllo sociale degli
investimenti”.
Fra
i post-keynesiani, le posizioni sono diverse.
Questo
non è il luogo per approfondire i problemi appena accennati. Mi limito ad
osservare che il difetto dei liberisti sta in ciò, che essi trascurano il fatto
che i salari non sono solo costi, sono anche redditi, talché una loro riduzione
frena la domanda di beni di consumo. Inoltre, i liberisti si riferiscono a
livelli “troppo alti” dei salari, mentre le difficoltà dipendono dal fatto che
non di rado i salari crescono più della produttività, comprimendo progressivamente
i margini di profitto e, al tempo stesso, determinando o accentuando l’aumento
dei prezzi. Invece, sulla convenienza di accrescere la flessibilità nel mercato
del lavoro sono ormai d’accordo tutti gli economisti, liberisti e non
liberisti, ma alcuni, ed io fra questi, sostengono che, se è vero che una
flessibilità troppo limitata è dannosa sotto l’aspetto economico, lo è anche
una flessibilità “eccessiva” (ho cercato di spiegare questa nozione in un
saggio di carattere teorico).
Quanto
alle altre raccomandazioni, tutti gli economisti sono d’accordo sulla
convenienza di ridurre il tasso dell’interesse, anche se ci sono differenze nel
valutare le condizioni che debbono verificarsi affinché una tale riduzione
possa essere attuata senza creare guai.
Mentre
oggi neppure i keynesiani più convinti sono disposti a sottoscrivere la
raccomandazione di espandere ogni tipo di spesa pubblica, sono numerosi gli
economisti che raccomandano investimenti pubblici produttivi o innovativi alla
condizione, alcuni aggiungono, di compensare le maggiori spese volte a questi
fini con risparmi di altre spese pubbliche.
Fra
le linee di politica economica raccomandate dai post-keynesiani, oltre quelle
ricordate poco fa, su cui concordano tutti gli economisti, ricordo la raccomandazione
di ridurre gli orari di lavoro, di organizzare lavori socialmente utili e di
promuovere la creazione di nuove imprese. Esprimerò brevissimi commenti sulla
prima e la seconda linea di politica economica, per concentrarmi sulla terza
linea – creazione di nuove imprese – che ritengo la più importante e la più
feconda di tutte.
Io
credo che nel breve periodo la riduzione degli orari promossa dai sindacati e
dallo Stato possa essere più una misura difensiva, per contenere l’aumento
della disoccupazione in certe industrie, che un modo capace di far crescere
l’occupazione. Nel lungo periodo la riduzione delle ore può contenere su un più
largo fronte la crescita della disoccupazione; ma bisogna essere ben
consapevoli che questa via, la quale può essere percorsa in vari modi, è assai
accidentata. Volendo introdurre una nota ironica in una problematica peraltro
molto seria, possiamo dire che, in generale, sulla via della riduzione degli
orari gli impiegati pubblici sono dei pionieri formidabili!
È
certo raccomandabile la proposta, ripetutamente avanzata in forme diverse da
diversi economisti, di organizzare un “esercito di lavoro” per servizi
d’interesse sociale, non solo in patria (soprattutto per affrontare i problemi
dell’ambiente), ma anche per contribuire alla creazione di nuove attività
produttive nei paesi del Terzo mondo. Tuttavia, per non andare incontro a
delusioni, occorre non sottovalutare né i problemi finanziari né i gravi
problemi organizzativi che la proposta di lavori socialmente utili comporta.
La creazione di nuove imprese
In generale, nelle condizioni
attuali, nelle quali, diversamente da quanto accadeva al tempo di Keynes,
normalmente un’estesa disoccupazione non si associa ad un’ampia capacità
inutilizzata, il problema non è quello di riattivare una domanda aggregata
caduta da alti livelli precedenti: il problema fondamentale è quello di
allargare la capacità produttiva, non solo e non tanto attraverso l’espansione
delle imprese esistenti, quanto attraverso la creazione di nuove imprese
specialmente nell’industria, e, ancora di più, nei servizi.
Considerando
la crescente differenziazione del mercato del lavoro e la crescente importanza
delle innovazioni di specializzazione, occorre accelerare l’aumento dei livelli
di istruzione e di formazione dei lavoratori, sia riformando il sistema
scolastico, sia stimolando la crescita delle occasioni di impieghi qualificati
attraverso la creazione di imprese capaci di usare nuove tecnologie e,
addirittura, capaci di promuoverle. E poiché uno dei due punti deboli delle
piccole imprese sta nella capacità di innovare e di applicare nuove tecnologie
(l’altro è costituito dalla capacità di esportare), è necessario che l’autorità
pubblica favorisca, sia sotto l’aspetto legale e organizzativo sia sotto quello
fiscale e creditizio, la costituzione di consorzi. Alcune misure in questa
direzione sono state già prese dal governo Ciampi e dall’attuale governo; ma
occorre fare molto di più. Al tempo stesso – ed è un punto di grande rilievo –
l’autorità pubblica deve anche predisporre servizi ausiliari per l’assistenza
tecnica, prendendo a modello organismi esistenti in altri paesi europei (in
Francia c’è l’Anvar). La proposta dei distretti industriali, che è caldeggiata
da diversi economisti e che mira a rafforzare e a diffondere, in certe zone, le
cosiddette economie esterne, s’inserisce in una tale prospettiva.
Le
nuove imprese possono offrire beni e servizi per le grandi imprese che decidono
di acquistarli fuori piuttosto che produrli direttamente; oppure beni e servizi
la cui domanda aumenta sia perché cresce il reddito individuale sia perché, con
tale crescita, si accentua la differenziazione dei bisogni e dei mercati;
ovvero beni e servizi prodotti a costi relativi decrescenti grazie al progresso
tecnico; o, infine, beni e servizi importati, che possono essere
vantaggiosamente prodotti all’interno.
Una
forma particolarmente importante di creazione di nuove imprese può essere
costituita da quella che ho chiamato “produzione d’imprese a mezzo d’imprese”.
Da uno studio presentato dal Censis a un convegno sulla situazione industriale,
tenuto a Sorrento nel 1988, risultava che 6-7 nuove piccole imprese su 10 nel
Nord e 5-6 nel Sud erano organizzate da lavoratori che dipendevano da imprese
di dimensioni maggiori e che si mettevano in proprio. Certe volte il distacco
avveniva col pieno accordo delle imprese maggiori, che trovavano conveniente
decentrare certe attività e diventavano le principali clienti delle nuove
imprese.
Una
tale forma di creazione di piccole imprese va decisamente raccomandata giacché
le persone acquisiscono, nelle imprese di provenienza, un’ importante
esperienza pratica. La creazione di nuove imprese può essere favorita dagli
stessi sindacati proponendo, nei contratti collettivi, clausole particolari per
le liquidazioni, clausole che possono essere integrate da incentivi fiscali e
creditizi decisi dallo Stato. Incentivi di questo genere possono essere
previsti per i fondi amministrati dalla Cassa integrazione guadagni, che oggi
rappresenta un organismo per distribuire sussidi di disoccupazione. In sostanza
si tratta di aiutare i lavoratori in Cassa integrazione e, più in generale, i
disoccupati a formare nuove piccole imprese o a diventare lavoratori
indipendenti.
La
via maestra da percorrere per ridurre progressivamente la disoccupazione è
dunque costituita dalla creazione di nuove piccole imprese. È la via maestra
non solo per ragioni economiche ma anche per ragioni civili, giacché fa
crescere la schiera delle persone autonome, capaci di autogestirsi, persone che
rinunciano ad attendere il posto da influenti uomini politici locali. Per tutto
il nostro paese, ma specialmente per il Mezzogiorno, ciò riveste vitale
importanza, giacché lo sviluppo civile è ben più importante dello sviluppo economico,
o, più precisamente, questo è importante solo se è strumentale rispetto a
quello.
Lo sviluppo civile nel Mezzogiorno
La creazione di nuove imprese è
importante per il Mezzogiorno in primo luogo perché è in quest’area che il
problema della disoccupazione è particolarmente grave. La quota dei
disoccupati, infatti, qui supera il 18%, mentre è la metà nel Centro ed è poco
più di un terzo (6,5%) nelle regioni settentrionali. È lecito affermare che in
queste regioni la disoccupazione supera assai limitatamente il livello
fisiologico (livello “di attrito”) che stimo intorno al 5-6%, da due a tre
volte più alto del livello fisiologico di trenta o quaranta anni fa. Questo è
vero per tutti i paesi industrializzati – con qualche differenza, non
particolarmente rilevante, nelle cifre –. Il fatto è che con l’aumento del
livello medio di istruzione dei lavoratori, le aspettative di un lavoro
gratificante e corrispondente agli studi fatti si elevano e quindi cresce il
tempo di attesa che i giovani sono disposti ad affrontare per trovare un lavoro
di quel genere; un aumento del tempo di attesa diviene possibile anche per la
crescita del reddito familiare medio. Pertanto, considerando puramente la
quantità, la disoccupazione è un problema di scarso rilievo nel Nord, assume un
certo rilievo nel Centro e appare come un grave problema nel Sud.
Per
molti aspetti il problema rientra nella così detta questione meridionale. C’è
tuttavia un aspetto particolare, che si ricollega a due caratteristiche della
società meridionale odierna. La prima consiste in questo, che la quota
principale dei disoccupati è costituita da giovani forniti di licenza di scuola
media inferiore o di diploma; questi giovani appartengono a famiglie che, come
ho già osservato, possono mantenerli anche dopo la fine degli studi,
circostanza che ha frenato le migrazioni dal Sud al Nord. In effetti, quasi
tutto l’aumento della disoccupazione nel Sud è imputabile all’aumento delle
persone, specialmente donne, in cerca di prima occupazione, un aumento che si è
concentrato in quattro anni, dal 1986 al 1989, senza poi regredire. La seconda
caratteristica è che la quota dei dipendenti della pubblica amministrazione,
che nel Nord ascende al 18% dell’occupazione totale, nel Sud, dove c’è meno da
amministrare, è più alta che nel Nord (23%).
E
poiché spesso nella media nazionale le retribuzioni del settore pubblico sono
cresciute più che nel settore privato e, d’altra parte, nel Sud il settore
pubblico, tenuto conto anche della sicurezza, offre spesso retribuzioni più appetibili
che nel settore privato, si comprende perché molti giovani, forniti di titoli
di studio medi, non di rado perseguiti proprio per ottenere un posto nella
pubblica amministrazione, preferiscono aspettare piuttosto che cercare un
impiego nel settore privato, dove la domanda di lavoro cresce molto lentamente,
o avviare un’attività autonoma. Se è vero che questo fattore ha aggravato la
situazione della disoccupazione nel Sud, come è stato messo in rilievo da un
recente studio del Centro Europa Ricerche di Roma, è necessario che il governo
sia molto cauto tanto nella politica delle retribuzioni quanto nella politica
di creazione di nuovi posti di lavoro nel settore pubblico del Sud, favorendo
vigorosamente, al tempo stesso, la creazione di nuove imprese per evitare che,
nonostante tutto, molti giovani restino in fila di attesa per un posto
pubblico, mentre la domanda di lavoro nel settore privato cresce poco o non
cresce affatto.
Il livello d’istruzione dei lavoratori
La questione del titolo di studio
dei lavoratori è importante anche sotto altri aspetti.
Se
si dividono sia gli appartenenti alle forze di lavoro che i disoccupati in
quattro categorie, secondo il titolo di studio – persone che hanno al massimo
la licenza elementare, licenziati, diplomati e laureati –, si nota che la quota
di coloro che hanno al massimo la licenza elementare in Italia è ancora
nettamente più alta rispetto agli altri paesi sviluppati (si tratta, in
sostanza, di semi-analfabeti): stiamo sul 24% – il 22% nel Centro-Nord ed il
28% nel Sud –. Si tratta di quote patologiche per un paese civile: questi
indici debbono convincerci che è necessario intensificare gli sforzi per
riorganizzare ed ammodernare l’intero sistema scolastico, cominciando dalle
scuole elementari.
L’andamento dell’occupazione negli ultimi
quarant’anni
Dal momento che nella campagna
elettorale per le elezioni di marzo si discusse molto della promessa di creare
un milione di nuovi posti di lavoro e poiché il problema dell’occupazione è
comunque un problema grave, conviene ricordare schematicamente le variazioni
dell’occupazione nel nostro paese durante gli ultimi decenni.
Se
si considera l’occupazione totale, questa dal 1954 al 1974, che pure è stato un
periodo di rapido sviluppo produttivo, è diminuita, a causa dell’esodo agrario
(tabella 1). Dal 1974 al 1993, l’occupazione totale è aumentata, in media, di
210 mila unità l’anno. Se si considera l’occupazione extra-agricola questa è
cresciuta di 420 mila unità l’anno nel periodo 1954-1974; nel ventennio
successivo l’aumento – 250 mila unità l’anno – è dovuto soltanto al sostenuto
aumento nell’occupazione nel settore dei servizi, privati e pubblici, il quale
ha più che compensato non solo la flessione dell’occupazione nell’agricoltura
ma anche la flessione nell’industria, imputabile a un rapido processo di
ristrutturazione che si è svolto in un periodo di sviluppo più lento. Nel 1993
l’occupazione extra-agricola ha subìto addirittura una caduta, poiché, a causa
dell’avversa congiuntura economica, i servizi privati hanno addirittura espulso
300 mila lavoratori e, a causa delle difficoltà finanziarie, la pubblica
amministrazione non ha assorbito nuovi lavoratori (tabella 2). Mettendo da
parte l’occupazione in agricoltura, che è stata sempre in diminuzione, più o
meno forte, la creazione annuale di nuovi posti è stata, negli altri settori,
di 320 mila unità l’anno nel quadriennio 1967-70, un periodo di rapido
sviluppo, e di 390 mila unità nel 1974, anche questo un anno nettamente
favorevole. In quegli anni, però, non si era profilato quel processo di intensa
ristrutturazione che ha provocato una cospicua flessione, se pure con
interruzioni, nell’occupazione industriale. Sebbene il 1994 sia un anno di
ripresa economica, tutti gli istituti di ricerca prevedono un aumento molto limitato
dell’occupazione. Le cose potranno andar meglio nel 1995, specialmente se si
adotta un’adeguata politica volta a sostenere la crescita dell’occupazione. Ma
la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro oggi appare chiaramente a
tutti quella che era: una promessa che mirava ad abbindolare gli ingenui.
Tab. 1. Variazioni medie
annuali dell’occupazione (migliaia)
Agricoltura Industria Servizi Pubb. Totale
amm.ne
1954-74 –460 120
200 100 –40
1974-93 –150 –130 380 120 210
Tab.
2. Variazioni medie annuali dell’occupazione nei settori extra-agricoli
(migliaia)
Industria Servizi Pubblica Totale
Ammin.ne
1959-62 200 40 40 200
1967-70 140 120 60 320
1974 115 160 115 390
1982-93 –220 115
30 –75
1993 –200 –300 0 –500
Chi vuol farsi un’idea delle relazioni fra
le variazioni della struttura dell’occupazione e quelle della struttura sociale
può mettere a confronto queste due tabelle con quelle presentate nel primo
capitolo.
6.
LA SCUOLA, LA RICERCA SCIENTIFICA
E LA QUALITÀ DEL LAVORO
LA SCUOLA, LA RICERCA SCIENTIFICA
E LA QUALITÀ DEL LAVORO
Sovente si discute del sistema
scolastico e della ricerca come di due settori che hanno certamente un ruolo
molto importante nella società, ma che vanno considerati separatamente. Si
tratta di una concezione gravemente fuorviante. Già gli accenni espressi nel
precedente capitolo sulla suddivisione della forza lavoro secondo i titoli di
studio mostrano chiaramente che i problemi della scuola, del Mezzogiorno e
dell’occupazione costituiscono un insieme da considerare in modo unitario; i
problemi della ricerca scientifica, a loro volta, non sono separabili da quelli
dell’Università e della qualità del lavoro di tutti e non solo dei ricercatori
e degli scienziati. La stessa creazione di piccole imprese, che è quella qui
proposta come la via maestra per affrontare i problemi quantitativi e
qualitativi dell’occupazione, va vista congiuntamente coi problemi della
scuola. È evidente che solo una scuola efficiente può dare un contributo di
rilievo alla creazione di nuove piccole imprese: persone semi-analfabete o con
basso livello di istruzione ben di rado sono in grado di organizzare nuove
imprese, per quanto modeste. D’altro lato, è necessario favorire specialmente
la nascita e la crescita di piccole imprese dinamiche anche sotto l’aspetto
delle innovazioni per creare posti di lavoro di tipo moderno. A questo scopo
servono organismi di assistenza tecnologica alle piccole imprese, come il già
citato Anvar francese – ma in Francia ci sono altri due organismi di questo genere;
ce ne sono anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti –. Da noi un
dipartimento dell’Enea svolge un’assistenza tecnologica alle piccole imprese,
ma è necessaria una radicale riorganizzazione per rendere veramente efficiente
quell’attività, oggi svolta in modo frammentario. D’altra parte, considerata
l’elevata mortalità delle piccole imprese nei primi anni di vita, occorrono
anche organismi che operino da “tutor”. Anche in questo campo possono
intervenire società private, che tuttavia hanno bisogno di incentivi e di
sostegni organizzativi da parte di enti pubblici.
È
socialmente utile stimolare la creazione di piccole imprese di ogni tipo;
tuttavia la creazione di piccole imprese tecnologicamente avanzate richiede non
solo la costituzione e lo sviluppo di organismi di cui si è appena detto, ma
anche uno sviluppo più vigoroso di certe Facoltà universitarie, uno sviluppo da
considerare nel quadro complessivo della riforma dell’Università; così una
crescita più sostenuta dei laureati in ingegneria elettronica può portare con
sé una crescita meno lenta di piccole imprese operanti in tale importante
settore.
A
questo punto è conveniente proporre qualche specifico tema di riflessione sulla
scuola, sull’Università e sulla ricerca scientifica.
Una condizione preliminare per riorganizzare il sistema scolastico
Considerata la dichiarata
disponibilità d’intellettuali ed influenti uomini politici del centro e della
sinistra a trovare, sulla questione della scuola privata, una soluzione non
conflittuale, si può pensare di avviare in tempi brevi la procedura di
revisione costituzionale per abolire la norma che vieta il finanziamento della
scuola privata e che, alla fine, è risultata un ostacolo ad una
riorganizzazione unitaria e, al tempo stesso, razionalmente differenziata del
sistema scolastico. Mi riferisco alla norma che così recita: “Enti e privati
hanno il diritto di istituire scuole e istituti d’istruzione, senza oneri per
lo Stato”; mi riferisco anche a quella lunga serie di espedienti che sono stati
escogitati dall’italica furbizia per far diventare “con” quel “senza”.
Riflessioni sulla riforma universitaria
Il recente provvedimento del
ministro Podestà ha più difetti che pregi; comunque, ha una rilevanza molto
modesta. Senza dubbio, occorre por mano in tempi brevi ad alcune essenziali
linee di riforma riguardanti, in primo luogo, i professori. Sui concorsi è bene
far partecipare alle commissioni docenti di altri paesi europei, ma, forse, non
direttamente (c’è il problema della lingua), bensì richiedendo loro un giudizio
scritto su un numero prestabilito (limitato) di lavori, eventualmente
sintetizzati a cura degli interessati.
Non è detto che i docenti
stranieri siano migliori dei nostri; ma sono, quasi sempre, disinteressati; io
stesso sono stato invitato a presentare il mio giudizio su un candidato alla
cattedra di una Università inglese: in quel paese questa è prassi abituale. Con
la stessa prassi, ogni tre o quattro anni, dopo aver vinto il primo concorso,
ciascun docente deve essere sottoposto a giudizio per l’avanzamento di carriera
e di stipendio. Un’analoga prassi, preferibilmente con una maggioranza di
docenti stranieri, deve essere adottata per giudicare, sulla base di una
relazione periodica, l’attività di ricerca degli istituti e dei laboratori, sia
quelli dell’Università sia quelli degli enti pubblici di ricerca: un tale
giudizio, formulato per iscritto da Commissioni di valutazione, deve
condizionare l’assegnazione dei fondi per la ricerca, che oggi sono distribuiti
alla cieca o, come si dice, a pioggia. Sia i giudizi delle Commissioni dei
concorsi sia quelli delle Commissioni di valutazione dovrebbero partire da
punteggi preliminari elaborati su dati obiettivi, differenziati secondo quattro
o cinque grandi gruppi di discipline; è un metodo che comincia a diffondersi in
diversi paesi. Infine, dev’essere reintrodotta la norma (un tempo c’era)
secondo la quale i docenti hanno il dovere di tenere lezioni durante l’intero
anno accademico: se scelgono corsi “semestrali” devono tenere due corsi in due
distinti “semestri” – che in realtà durano, ciascuno, tre mesi e mezzo –. Quale
che sia la loro efficacia, le lezioni sono importanti perché stabiliscono una
continuità di rapporti fra studenti e docenti. Ricordo che nelle Università
americane ogni docente deve tenere due o tre corsi per “term”: ne segue che i
docenti italiani sono sovrapagati e sono troppi.
Per
pungolare i docenti e indurli ad adempiere nel modo migliore ai loro doveri
conviene attribuire agli studenti che abbiano superato un determinato numero di
esami il compito di formulare valutazioni sui corsi. In certe Università, anche
in Italia, questa è già prassi: si tratta di estenderla e di stabilire regole
generali, semplici e chiare.
Anche
per gli studenti occorre introdurre nuove regole generali, che non sono affatto
in contrasto con l’autonomia delle Università, ma, anzi, possono rafforzarla. È
essenziale affrontare alle radici il problema della tremenda “mortalità”
studentesca: solo uno studente su tre giunge alla laurea. Occorre, in via
preliminare, elevare le tasse universitarie, che oggi coprono poco più del 5%
del costo, portandole al 15-20%; contemporaneamente occorre moltiplicare le
borse di studio per i “meritevoli”, capaci di coprire le tasse o – per i molto
meritevoli – di fornire anche mezzi di mantenimento. Inoltre, va incentivata la
pratica, particolarmente raccomandabile perché insegna a contare su se stessi,
dei “prestiti d’onore”. Occorre poi istituire, all’entrata dei giovani
nell’Università, un colloquio di valutazione ed orientamento ed occorre
introdurre l’obbligo di superare ogni anno un numero minimo di esami fissando,
al tempo stesso, un periodo massimo per conseguire la laurea, come avviene in
paesi più civili del nostro.
Negli
anni recenti alcuni passi nella direzione di una riforma valida dell’Università
sono stati compiuti; ma i passi più importanti sono ancora da compiere.
I gravi problemi della ricerca
L’indice che viene usato in via
preliminare, specialmente per compiere confronti internazionali, è la quota sul
prodotto interno lordo delle spese di ricerca; già questo indice non dà motivi
di ottimismo: è vero che negli ultimi anni è alquanto aumentato, ma è anche
vero che è pur sempre la metà dei valori che si osservano in Gran Bretagna, in
Francia, in Germania (1,6% contro il 3-3,2%). Per di più, il governo attuale ha
addirittura ridotto gli stanziamenti per la ricerca. Tuttavia, pur non essendo
privo di significato, l’indice appena ricordato non ha grande valore: in
realtà, se si potesse valutare la produttività, scientifica e sociale, delle
spese per la ricerca (ciò è difficile ma, se si compiono studi approfonditi di
settore, non impossibile), si arriverebbe alla conclusione che la distanza che
ci separa dai partner europei appena ricordati non è di 1 a 2, ma più ampia,
presumibilmente non di poco.
Il fatto è che la nostra
organizzazione della ricerca è caratterizzata da gravi sprechi e non solo
nell’Università, ma anche negli enti pubblici di ricerca: il Consiglio
nazionale delle ricerche (Cnr), l’Enea, l’Istituto nazionale di fisica nucleare
(Infn), l’Istituto superiore di sanità ed altri enti minori. Secondo Felice
Ippolito, un uomo che ha dedicato buona parte della sua vita ai problemi della
ricerca, il Cnr e l’Enea, in particolare, dovrebbero essere completamente
ristrutturati, seguendo i modelli della Francia, della Germania e della Gran
Bretagna (“Le scienze”, novembre 1994).
Non
solo nell’Università, ma anche negli enti di ricerca non mancano le “isole di
eccellenza”: vanno studiate proprio per comprendere che cosa funziona e trarne
indicazioni pratiche – pur essendo consapevoli che le “isole di eccellenza”
debbono molto alla personalità di singoli scienziati –. Forse sarebbe opportuno
promuovere un’indagine parlamentare sull’Università e sugli enti di ricerca,
chiamando anche a testimoniare docenti, ricercatori, funzionari, tecnici e
studenti.
La
ricerca di base è svolta soprattutto (ma non esclusivamente) nell’Università,
mentre la ricerca applicata è svolta negli enti di ricerca e nelle imprese private,
particolarmente nelle grandi imprese. Bisogna dire che, se i politici hanno
gravi responsabilità per la situazione infelice della ricerca nel nostro paese,
anche gli industriali non sono affatto privi di colpe, giacché preferiscono
investire cospicui mezzi finanziari nel calcio (“circenses”) piuttosto che in
cultura: un indice, anche questo, dell’arretratezza civile dell’intero paese
tanto nel suo settore pubblico quanto in quello privato. Il giorno in cui
vedremo costituirsi una robusta lobby in Parlamento per far passare un
provvedimento fiscale che preveda fortissimi sgravi fiscali (ben più incisivi
di quelli esistenti) per la costituzione di istituti di ricerca finanziati da
imprese private, sarà un gran bel giorno per il paese.
Tuttavia,
non basta inventare: per lo sviluppo economico e civile occorre poi applicare
le invenzioni, occorre cioè innovare; ed è necessario che le innovazioni si
diffondano progressivamente. Ora, l’estensione e la velocità della diffusione
dipendono dall’efficienza del sistema scolastico considerato nel suo complesso.
A questo proposito può essere interessante una osservazione – forse dovrei
definirla soltanto una ipotesi –. I laboratori e gli istituti di ricerca
inglesi sono fra i più avanzati del mondo; eppure la performance
dell’economia inglese, se si considera la crescita della produttività e il
ritmo dell’immissione di nuovi prodotti, appare meno e non più brillante di
quella di altri paesi industrializzati: chiaramente, la diffusione delle
innovazioni è lenta in Gran Bretagna. Certi indizi inducono a ritenere che ciò
dipende dal fatto che le scuole medie non sono particolarmente efficienti. È
un’ipotesi da approfondire.
Torniamo
al nostro paese, dove le cose vanno certamente peggio. Sotto l’aspetto
economico, un debole sistema di ricerca comporta un fiacco e limitato sviluppo
di prodotti ad alta tecnologia, con la conseguenza che anche le esportazioni di
tali prodotti crescono relativamente poco. Questo è un fatto negativo, poiché,
a lungo andare, i prodotti che possono fare tutti sono vulnerabili nella
concorrenza internazionale.
La
crescita delle attività della ricerca scientifica riveste grande importanza per
lo sviluppo economico; ma la ricerca scientifica, intesa in senso lato, è
essenziale per lo sviluppo civile, che è assai più importante dello sviluppo
economico. I due processi non coincidono, ma si sovrappongono in vari modi.
Così lo sviluppo della ricerca scientifica direttamente e indirettamente
favorisce la crescita dei posti di lavoro capaci di procurare soddisfazioni
intellettuali assai più che soddisfazioni economiche. E in realtà, nonostante
la filosofia consumistica e dell’arricchimento, che sembra prevalere, credo che
un numero crescente di giovani aspiri più a quelle che a queste.
La
scienza non è soltanto, come afferma Adamo Smith, il grande antidoto del
fanatismo e della superstizione, ma è anche, come sostengono lo stesso Smith e
poi, molto più vigorosamente, il nostro Carlo Cattaneo, il principio primo
dello sviluppo economico e dell’incivilimento. La scienza è l’acqua sorgiva
che, scendendo dalle montagne può, a cascata, irrigare e rendere fertili e
prospere le colline e le vallate sottostanti. Può gradualmente migliorare la
qualità del lavoro ossia, in ultima analisi, la qualità della vita.
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