di Enzo Palumbo
da www.rivoluzione-liberale.it
8 giugno 2011
Il PLI non ha ancora affrontato la questione dei quattro referendum, e credo che se ne parlerà in occasione della riunione di Direzione fissata per il 9 giugno.
Da conversazioni informali in corso, ho notato che emergono opinioni molto diverse sui vari quesiti, il che mi fa pensare che, alla fine, la decisione più saggia potrebbe essere quella di non prendere una posizione univoca, lasciando libertà di orientarsi in relazione al merito dei quesiti sulla base della sensibilità di ciascuno, tenendo in particolare conto che il referendum è un istituto di democrazia diretta che sollecita scelte eminentemente personali e difficilmente omologabili, com’è dimostrato dal dibattito in corso che sta dividendo tutti i partiti.
Tuttavia, essendo stato personalmente interpellato da tanti amici, non intendo sottrarmi ad una risposta, che ovviamente, in ragione di quanto precede, ha anch’essa natura strettamente personale.
ANDRÒ A VOTARE
Al di là della tecnicalità dei primi tre quesiti – che riguardano in particolare i servizi pubblici locali (il primo), la tariffa del servizio idrico integrato (il secondo) e la realizzazione dei siti nucleari (il terzo) – il significato di ciascuna scelta è chiaro, coerente ed univoco, e quindi, nonostante qualche improprietà nel linguaggio della propaganda, sarà possibile decidere con cognizione di causa.
Il Presidente della Repubblica ha detto chiaramente che sente come un dovere civico quello di recarsi alle urne, e non ci sarebbe nulla da aggiungere.
Per parte mia non demonizzo chi la pensa diversamente, essendo da sempre convinto, in via di principio, che l’astensione dal voto referendario sia un diverso modo di partecipare al voto.
Il referendum abrogativo (a differenza di quello confermativo sulle leggi costituzionali) interviene dopo che il percorso legislativo si è concluso con la promulgazione di una norma, per cui mi sembra ragionevole che il cittadino che confida nella saggezza del Parlamento debba restare assolutamente libero di non partecipare allo scrutinio referendario.
Mi permetto tuttavia di aggiungere che, almeno in questa occasione, c’è qualche specifica ragione in più per andare a votare.
Intanto, perché, in via generale, c’è la necessita di risollevare il prestigio dell’istituto referendario, che è andato via via scemando nell’interesse dell’opinione pubblica, dopo i reiterati fallimenti che si sono susseguiti a partire dal 1995.
E poi, nello specifico, perché questi referendum, al di là del fatto che si raggiunga o meno il quorum, sono una preziosa occasione per fare un sondaggio assolutamente non opinabile circa l’orientamento dell’opinione pubblica su materie di generale interesse, che comportano scelte fondamentali sia per l’oggi sia per le future generazioni, con ricadute economiche ed esistenziali di enorme valenza; e di questo sondaggio, ove mai fosse solo tale, il Parlamento dovrà comunque tenere conto.
Infine, se in un domani che mi auguro non lontano fosse possibile promuovere un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale, non mi piacerebbe che qualcuno potesse rimproverarmi di avere contribuito al fallimento dei referendum di oggi.
SUL MERITO DEI QUESITI
Premetto che la mia valutazione attiene esclusivamente al merito dei quesiti referendari e prescinde da qualsiasi valutazione politica, che pure sarebbe possibile fare in ragione del tentativo del Governo di bypassare il quesito sul nucleare, inventandosi un maldestro éscamotage, già sanzionato come meritava sia dalla Corte di Cassazione sia dalla Corte Costituzionale.
Le valutazioni politiche, se mai emergeranno, si potranno fare solo a consuntivo, una volta acquisito il risultato referendario, quale che esso sia, e quindi anche nel caso di non raggiungimento del quorum.
1° QUESITO: SERVIZI PUBBLICI LOCALI, SONO ORIENTATO PER IL NO
Sono in linea di principio favorevole alla liberalizzazione, piuttosto che alla mera privatizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Le privatizzazioni, di per sé, mi interessano poco tutte le volte in cui non preludano a vere e proprie liberalizzazioni; ed è questo il caso che si verifica quando la fisicità della rete distributiva (come per l’acqua) rende difficile qualsiasi concorrenza tra diversi operatori economici, che potrà realizzarsi solo nella fase iniziale della gara in vista dell’aggiudicazione ma non nella fase della prestazione del servizio.
In via generale ed astratta, penso che sia meglio evitare, finché è possibile, di uscire dalla padella di un costoso monopolio pubblico (che può avere qualche ragione sociale, ma va abbandonato perché è inefficiente) per cadere nella brace di un monopolio privato che, in mancanza di concorrenza, sarebbe egualmente costoso ma appare anche odioso (perché privo di alcuna ragione sociale).
Oltre tutto, il monopolio dell’ente locale è contendibile ad opera dei cittadini attraverso lo strumento delle periodiche elezioni locali, mentre il monopolio privato può esserlo solo ad opera di altri aspiranti monopolisti.
E qui mi fermo, perché il discorso mi porterebbe troppo lontano!
Tuttavia, se qualcosa mi spinge a sposare la causa delle privatizzazioni anche in questa ipotesi è perché credo che gli enti locali, hic et nunc, debbano fare cassa per fronteggiare la diminuzione dei trasferimenti statali, oggi inevitabile in ragione dello stato della finanza pubblica ed in vista del federalismo prossimo venturo.
Per quanto precede, mentre condivido l’attuale normativa nella parte finalizzata ad imporre la gara ad evidenza pubblica per gli affidamenti, mi preoccupa invece la lettera b) del comma 2 dell’art. 23-bis del D.L. 112-2008 (L. 133-2008), nella parte in cui prevede la possibilità dell’affidamento del servizio a società mista (pubblica/privata), nella quale al socio privato “sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento”.
Preferisco che il servizio pubblico locale venga espletato, se ce n’è la possibilità, interamente dai privati (tramite gara ad evidenza pubblica), ovvero direttamente dall’ente pubblico (e però senza il trucco dell’affidamento a società c.d. “in house”), regolando l’opzione per l’una o l’altra soluzione in base ad un mero calcolo di efficienza nell’interesse dei cittadini.
Considero invece le società miste come la peggiore delle soluzioni, perché l’esperienza dimostra che essa genera la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti.
La parte pubblica (quand’anche nessuno abbia illecitamente lucrato) ha utilizzato le società miste per aggirare la prescrizione dell’ultimo comma dell’art. 97 Cost. (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge”), collocandovi le clientele di turno ed appesantendone i bilanci; e la parte privata, mentre ha favorito le peggiori pratiche clientelari, ne ha approfittato per incrementare al massimo i corrispettivi che riusciva a strappare alla parte pubblica.
In breve e nel migliore dei casi: alla politica libertà di clientela, al privato libertà di tariffa.
In conclusione voterò NO sul quesito, in via di prevalenza e senza alcun particolare entusiasmo, sperando che, in ogni caso, sia possibile in futuro migliorare la legge.
2° QUESITO: TARIFFA DEL SERVIZIO IDRICO, VOTERÒ DECISAMENTE NO
Il quesito si propone di escludere dal calcolo della tariffa idrica un’adeguata remunerazione del capitale investito, che è correttamente previsto dalla normativa oggi in vigore.
Se la proposta referendaria venisse approvata, il privato investitore dovrebbe, in via di principio, fare investimenti nel settore senza alcuna possibilità di conseguirne una corrispondente adeguata remunerazione.
Mi sembra un obiettivo privo di senso, che certo non merita di essere favorito.
3° QUESITO: IMPIANTI NUCLEARI, VOTERÒ SI
Nel 1987 mi sono pronunziato, come molti liberali, contro il referendum abrogativo delle norme di allora, e devo dire che in quell’occasione per il NO militavano molte buone ragioni: in particolare, non apparivano all’orizzonte alternative praticabili rispetto al carbone, al petrolio ed al gas, mentre l’energia nucleare sembrava appartenere al futuro.
Continuo a pensare che quella risposta referendaria sia stata, per la situazione del tempo, assolutamente sbagliata, perché ci ha isolato dal resto del mondo industrializzato, anche sul piano della mera ricerca scientifica nella quale l’Italia di allora eccelleva, ed ha inoltre comportato la costosissima riconversione di impianti già esistenti, con enormi costi che i cittadini continuano a pagare sulle bollette.
Posizionarsi ora negli stessi termini di allora vorrebbe dire trascurare tutto ciò che nel frattempo è successo; sono passati 25 anni ed oggi la possibilità del ricorso a fonti alternative (allora praticamente inesistenti) appare concretamente praticabile, mentre il problema delle scorie ha acquistato una valenza allora sconosciuta in tutte le sue ricadute.
C’è poi il problema degli investimenti, che, se assorbiti dal nucleare, non potranno essere indirizzati altrove.
D’altra parte, il GAP tecnologico accumulato nel frattempo dall’Italia è assolutamente irrecuperabile, con la conseguenza che saremmo costretti a comprare la tecnologia degli altri, probabilmente dai francesi, che tenteranno di rifilarci quella obsoleta, con costi e condizionamenti ulteriori per il futuro prevedibile.
Fukushima e, da ultimo, la decisione della Germania di programmare la chiusura di tutte le centrali, hanno fatto il resto.
Infine, il referendum consultivo già svoltosi in Sardegna e la posizione assunta dalle regioni del nord (le uniche con basso rischio sismico) in termini di assoluta contrarietà rispetto all’allocazione degli impianti nucleari, mi convincono che individuare i siti nucleari in Italia sarebbe impresa impossibile; considero quindi assolutamente inutile e fuorviante incaponirsi nel volere percorrere una strada impervia e senza sbocchi, che, prima o poi, si dovrà comunque abbandonare.
Aggiungo che il Governo, nel goffo tentativo di evitare il referendum, ci ha messo del suo per incrementare le ragioni del SI.
Il quesito originario mirava ad abrogare soltanto la lettera d) dell’art. 7 comma 1 della L. 112-2008 (“realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare“), “), ma faceva salve la “promozione delle fonti rinnovabili di energia” e la “promozione della ricerca sul nucleare di quarta generazione o da fusione”, rispettivamente previste dalle lettere c) e d-bis) del medesimo comma.
Il Governo invece, con l’art. 5 del D.L. 34-2011 (L. 75-2011), al comma 2 ha abrogato l’intero art. 7 del D.L. 112-2008 (e quindi anche la promozione delle fonti rinnovabili e della ricerca sul nucleare di quarta generazione), mentre, ai commi 1 e 8, ha implicitamente confessato trattarsi di una semplice moratoria di dodici mesi, entro i quali toccherebbe allo stesso Governo di adottare tutte quelle attività previste dall’abrogato art. 7, le cui previsioni sono state tutte letteralmente riproposte nella nuova norma, salvo quelle delle lettere c) e d-bis).
Non c’è che dire, proprio un bel risultato!
Era quindi inevitabile che la Cassazione facesse immediatamente giustizia di questa finta abrogazione, riformulando il quesito referendario con riferimento alle apparenti nuove norme.
4° QUESITO: LEGITTIMO IMPEDIMENTO, SONO DECISAMENTE PER IL SI
Si tratta del quesito sull’abrogazione di ciò che resta della Legge 51-2010 recante “Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza” (c.d. legittimo impedimento), anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale (sentenza 23-2011) che ne ha eliminato le parti assolutamente incostituzionali.
Se, in difformità rispetto a quanto prevede l’art. 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini…sono eguali davanti alla legge”), si ritiene opportuno introdurre norme di salvaguardia per le funzioni istituzionali apicali, prevedendo speciali prerogative anche per le persone che temporaneamente le ricoprono, occorre procedere con norme di rango costituzionale.
E, a quel punto, tali norme non potranno riguardare solo i membri dell’esecutivo ma anche i membri del legislativo, reintroducendo l’immunità parlamentare che era stata opportunamente prevista dai Costituenti, della quale si era poi fatto intollerabile abuso, e che è stata infine improvvidamente espunta nel periodo più buio della Prima Repubblica, mentre sarebbe stato più ragionevole introdurvi soltanto qualche modesto correttivo che ne impedisse gli abusi.
Considero infatti la funzione parlamentare non meno importante della funzione di governo, e trovo assolutamente irragionevole una normativa che stabilisca diversità di prerogative per l’una e per l’altra, mentre chi svolge una funzione giudiziaria risulta già costituzionalmente tutelato dalla giurisdizione sostanzialmente domestica del CSM.
Così procedendo, ne risulterebbe ripristinato il sapiente equilibrio immaginato dai Costituenti tra i tre fondamentali poteri dello Stato, e forse potremmo risparmiarci qualche conflitto di attribuzione di cui non si sente proprio il bisogno.
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