mercoledì 8 giugno 2011

La pericolosa deriva del rapporto tra MEF e giustizia tributaria

di Enrico Zanetti
8 giugno 2011
da http://www.eutekne.info/

Il recente dibattito sulla necessità di riequilibrare il peso e l’attenzione data alla riscossione, nel rapporto tra Fisco e contribuente, a favore di una maggiore centralità del tema della giustizia, sta dando i suoi primi frutti. Quali?

Tanto per cominciare, il Ministero dell’Economia e delle Finanze sembrerebbe intenzionato a depotenziare il Consiglio di Presidenza della Magistratura Tributaria, passando d’ufficio la presidenza dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria al primo presidente della Corte di Cassazione e, cosa ancor più significativa, assumendo in via diretta la competenza sul piano disciplinare.
Sembra una battuta, ma non è così (si veda “Il MEF va incontro ai magistrati tributari: in «forse» il progetto di riforma” di sabato scorso).

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, così come l’Agenzia delle Entrate, sembra incapace di accettare una lapalissiana verità: nel rapporto tributario sono istituzioni degnissime di questo Paese, ma sono una parte in causa che non può pretendere di essere invece considerata super partes e amministrarsi pure il contenzioso con i cittadini.
Dopo aver accorpato la funzione di accertamento e quella di riscossione (è appena il caso di ricordare che Equitalia è una società partecipata al 51% dall’Agenzia delle Entrate; per il restante 49% dall’INPS), il futuro ci riserverà anche il graduale accorpamento della funzione di amministrazione della giustizia?
Dovremo rivolgerci a Giustizitalia per chiedere l’annullamento di un procedimento avviato dalla collegata Equitalia sulla base di un accertamento validato dalla comune controllante Agenzia delle Entrate?

È ovvio che quanto precede è un’iperbole che va sicuramente ben oltre le intenzioni di chi oggi, all’interno del Ministero, accarezza l’idea di una sua presa sulla giustizia tributaria più diretta ancora di quanto non sia comunque già oggi.
Ciò nondimeno si tratta di processi che vanno in una direzione sbagliata e che avvicinano, anziché allontanare, all’iperbole di cui sopra, destando più che legittime preoccupazioni, oggi, nei liberi professionisti più attenti ed esperti delle dinamiche proprie del diritto tributario e, domani, in tutti gli imprenditori e cittadini che ne prenderanno coscienza man mano che la situazione andrà ad interessarli direttamente.

Processi di palese concezione statalista
La cosa più disarmante è, però, che questi processi di palese concezione statalista (intesa come primato dello Stato sul cittadino, in contrapposizione a quella liberale di chi crede in un rapporto maggiormente paritario) vengano concepiti sotto l’egida di governi che, nel gioco delle parti, dovrebbero viceversa spingere nella direzione opposta.
È disarmante perché, in una concezione strettamente bipolare, anche votando dall’altra parte alla prima occasione utile, si risolve poco o nulla: dall’altra parte sta infatti chi crede con ancora maggiore fermezza (e, tutto sommato, con maggiore trasparenza) in questo opinabile approccio ideologico ed è quindi escluso che possa fermare un processo già avviato che va proprio nella direzione cui lo avrebbe volentieri a sua volta indirizzato.

C’è poco da fare: già negli anni passati le endemiche esigenze di cassa che caratterizzano il nostro bilancio avevano prodotto effetti perniciosi sotto forma di continui cambiamenti normativi e sistematiche violazioni dello Statuto del Contribuente; oggi, con una coperta sempre più corta e una voglia sempre troppo timida di fare sacrifici veri sul lato dei tagli alla spesa pubblica, la politica cerca nel gettito l’impossibile quadratura delle sue incapacità.
E, per il cittadino, nella gestione del rapporto tributario essa passa da sua rappresentante a sua controparte, a prescindere dall’esito elettorale.
Non però una controparte qualunque: una controparte che vuole pure amministrarsi il contenzioso.
Magari per darsi torto, per carità; magari no.

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