di Paul Krugman
Il Sole 24 Ore
19 novembre 2010
Tutte le volte che faccio presente che la Seconda guerra mondiale pose fine alla Grande Depressione ricevo un sacco di lettere e messaggi nei quali mi si accusa di essere un guerrafondaio. Consentitemi di affermare una cosa: l'economia non è un'operetta morale. Non è una storia a lieto fine, nella quale la virtù è premiata e il vizio è castigato. L'economia di mercato è un sistema che persegue scopi organizzativi - il più delle volte si rivela un sistema abbastanza buono, ma non sempre -, e in ogni caso non è improntato ad alcun contenuto morale.
Non necessariamente i ricchi meritano la ricchezza che possiedono, e di sicuro i poveri non si meritano la loro condizione di indigenza. Nondimeno, noi accettiamo le notevoli sperequazioni di questo sistema in quanto i sistemi privi di qualsivoglia tipo di disuguaglianza non funzionano. (Prima che qualcuno apra bocca – "Aha! Krugman ammette la verità della supply-side economics, la politica dell'offerta!!" -, sto dicendo solo che esistono alcuni limiti oggettivi).
Quando oltretutto ci troviamo in difficoltà, con un'economia in piena depressione nella quale è difficile creare una domanda adeguata e ottenere la piena occupazione – soprattutto perché i tassi di interesse a breve termine sono più alti rispetto al limite inferiore zero –, la natura essenzialmente amorale dell'economia diventa ancor più evidente.
Come ho avuto modo di ribadire più volte, si tratta di una situazione nella quale la virtù si trasforma in vizio e la prudenza si tramuta in follia; per risolverla, è necessario dunque che qualcuno spenda di più, anche se spendere in effetti non è particolarmente saggio.
Quando le nazioni si ritrovano alle prese con questo dilemma, tendono a prevalere le teorie convenzionali, quantunque non dovrebbero.
In particolare, pare che non si riesca mai ad approvare una spesa pubblica che sia dell'entità necessaria. Questo è il motivo che indusse l'economista britannico John Maynard Keynes negli anni Trenta a proporre in modo spiritoso di seppellire nelle miniere di carbone bottiglie piene di soldi contanti, così che la gente potesse disseppellirle. Dal momento che qualsiasi proposta volta a incentivare la spesa pubblica per cose che avrebbero potuto essere utili era sistematicamente respinta in considerazione di un eccesso di cautela e di efficienza (vi suona familiare?), Keynes propose quindi di spendere in modo del tutto insulso.
Ciò che alla fine tornò utile fare negli anni Trenta (spendere per la guerra) si rivelò di fatto distruttivo, una sorta di scherzo crudele giocato dagli déi dell'economia. Sarebbe stato di gran lunga meglio se la Depressione si fosse conclusa spendendo per cose utili - come strade e ferrovie, scuole e parchi - , però non si raggiunse mai il consenso politico necessario a procedere a una spesa adeguatamente grande. Il mondo ebbe bisogno di Hitler e di Hiroito.
E che dire dell'affermazione comune secondo la quale gli Stati Uniti all'indomani della Depressione poterono prosperare soltanto perché i loro concorrenti erano rovinati a causa della guerra? È del tutto errata. In primis, sia prima sia immediatamente dopo la guerra i commerci erano un elemento del tutto secondario nell'economia americana: le importazioni e le esportazioni costituivano una percentuale di gran lunga inferiore rispetto a oggi del prodotto interno lordo. Per alcuni anni, alla fine degli anni Quaranta, in effetti ci fu un aumento dei commerci, dovuto in parte agli effetti del Piano Marshall che permise alle economie allo sfascio di comperare maggiormente dagli Stati Uniti – potremmo affermare che fu una sorta di stimolo fiscale - , ma si trattò in ogni caso di un fenomeno assolutamente passeggero.
Se è vero che la guerra aveva messo in ginocchio buona parte dei nostri concorrenti di oltreoceano, è altresì vero che aveva messo in gravi difficoltà anche buona parte dei nostri stessi clienti, giacché in sostanza si trattava in linea di massima delle medesime persone. In genere, la devastazione è sempre un male per gli affari.
Traduzione di Anna Bissanti
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