Da Il Riformista, 23 ottobre 2010
di Alberto Mingardi
“Le democrazie moderne devono contentarsi di placare il maggior numero possibile di appetiti, moltiplicando le funzioni pubbliche”. E’ difficile confutare lo schietto realismo di Vilfredo Pareto, che a inizio Novecento aveva di fatto previsto una delle caratteristiche del “secolo breve”: l’escalation delle funzioni pubbliche, in risposta alla necessità di “placare il maggior numero possibile di appetiti”. E’ per questo motivo che è difficile definire la “manovra” di George Osborne, cancelliere dello scacchiere inglese, con altri oggettivi che quello usato da Oscar Giannino (Chicago-blog): epocale. Perfetta? Sicuramente no, le cose perfette non sono di questo mondo. La finanziaria inglese si regge non solo su una vigorosa potatura delle uscite, ma anche su maggiori entrate, quindi più tasse, in particolar modo sui contribuenti delle più alte fasce di reddito. La logica è emergenziale, e si può capire. Ma sappiamo benissimo che le tasse è tanto facile metterle quanto difficile rimuoverle, e soprattutto un governo con una forte componente conservatrice dovrebbe sapere bene che un fisco più “progressivo” (che facendo “piangere i ricchi”, colpisce il successo economico e induce chi ne ha a considerare la possibilità di spostarsi verso altre giurisdizioni) può rivelarsi controproducente.
Detto questo, il governo Cameron-Clegg fa uscire dal perimetro dello Stato 490 mila persone, taglia la spesa di 94 miliardi di euro, mira a portare il deficit al 2 dall’11% del PIL in capo a quattro anni. E’ una cifra mastodontica, che non esaurisce le dimensioni dello spreco pubblico. Neanche i governanti inglesi hanno una conoscenza della macchina burocratica così perfetta da poter mettere in atto riforme che li porteranno a ritrovarsi esattamente con lo Stato che vogliono. I criteri di rigore che improntano le scelte di Osborne svelano la necessità di venire a patti con un deficit galoppante, più che un’idea coerente del rapporto fra Stato e individuo, fra pubblico e privato.
Tuttavia, con questa prova di forza il governo britannico dimostra di non considerare la “Big Society” una mera parola d’ordine. Il messaggio su cui Cameron e i suoi hanno investito nei mesi scorsi sarà parso ad alcuni più rassicurante dell’individualismo della signora Thatcher (there is no such thing as society, perché solo gli individui sono fatti di carne ed ossa), e però è subito chiamato ad uno “stress test” quale quello rappresentato da questa “manovrona”.
Ci vuole coraggio politico per tagliare, per provare a smentire la profezia di Pareto. Il bastone non basta: la riduzione del perimetro del pubblico deve essere vissuta da un Paese come un’occasione, non come una punizione.
Da parte nostra, come italiani assistere a questa prova dell’Inghilterra è un po’ deprimente. Noi siamo un Paese abituato a manovre straordinarie e correttive, da anni, ma alla prova del fuoco l’unica logica che riusciamo a mettere in campo è quella dei tagli lineari: tot% sui ministeri, tot% sui Comuni, tot% sulle Regioni, tot% sui parlamentari. In parte questo avviene perché la classe politica ha informazioni impressionistiche sui mille rivoli in cui si disperde l’intervento pubblico, in parte perché ai ministri del tesoro può sembrare più semplice, sotto pressione, imporre una percentuale che incominciare un’estenuante negoziazione coi colleghi di governo.
Cameron e Clegg hanno voluto fare il contrario, chiedendo ai ministri di preparare essi stessi due ipotesi di riduzione dei propri stanziamenti: del 25 e del 40 per cento.
Il metodo seguito è incoraggiante perché il dramma dei tagli lineari è che essi hanno un impatto contenuto: riducono le spese per un anno, ma non restringono il raggio d’attività dello Stato. Ancora più incoraggiante è il fatto che a portare a termine una manovra di questa identità sia un governo abborracciato, frutto di un compromesso di per sé instabile, nel quale la logica direbbe che liberali e conservatori dovrebbero cercare di tirare ciascuno la corda dalla propria parte, per dare l’impressione che si sia rotta in mano all’altro. Invece, gli inglesi hanno deciso di condividere il danno reputazionale di scelte così gravi. Con grande coraggio, e dimostrandoci forse che conta più la qualità di una classe dirigente del modo in cui è stata eletta.
I commenti di think-tank e osservatori britannici sono critici, e c’è pessimismo sull’efficacia della manovra. Avete capito bene. C’è chi chiede ancora più lacrime, se non più sangue. Anche questo dovrebbe insegnarci qualcosa, e anche questo ha a che fare con la logica dei tagli selettivi piuttosto che lineare. Quando la scure si è abbattuta alcuni mesi fa su poche, trascurabili poste in capo al ministero della cultura, c’è stata una sollevazione della stampa italiana. In parte, si era attivato il network degli amici degli amici ma in parte davvero persone intellettualmente oneste non capivano come e perché la scure dovesse cadere eguale per tutti.
Tutti pensiamo che tagliare si debba ma non si possa. Viva gli inglesi, che ci dimostrano che si deve e si può. Basta volere.
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