mercoledì 1 settembre 2010

Perchè non possiamo non dirci liberisti -

da Critica liberale 2006
di Andrea Bitetto
Diciamoci la verità, non se lo aspettava nessuno il decreto Bersani. Non se lo aspettavano i protezionisti, i socializzatori, i comunisti, i collettivisti, gli egalitaristi, i corporativisti, i monopolisti ed i cugini oligopolisti, i concessionari esclusivi di ogni abito vestiti, così come non se lo aspettavano i liberali, i liberisti, più o meno riconoscibili. I primi perché, dopo tutto, si sentivano al riparo visti i numeri che, in Parlamento, la sinistra anti-mercato poteva vantare: allineando i comunisti rifondati o semplicemente italiani, la pattuglia verde e la frangia nostalgica – quella del “nessun nemico a sinistra” - dei diesse. A questi poi dovevano essere aggiunti i protezionisti, i collettivisti, i monopolisti in servizio permanente effettivo nella destra italica. I secondi invece, i soliti quattro gatti liberali, avevano poco da sperare, visti i rapporti di forza e scontate le alleanze sociali che formano il collante delle due coalizioni.



Eppure, in un caldo ed afoso pomeriggio estivo arriva, rinfrescante come un acquazzone, la notizia che – a fari spenti – il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto di riforme “liberalizzatrici”.



La notizia non fa in tempo a diffondersi che le armate dei protezionisti, dei socializzatori, dei comunisti, dei collettivisti, degli egalitaristi, dei corporativisti, dei monopolisti e dei loro cugini oligopolisti, dei concessionari esclusivi, si armano e scendono in trincea. Acquistano intere pagine sulla stampa nazionale per spiegare che loro sono così in favore del mercato – non per nulla molti di loro amano dire di esercitare professioni liberali, dimentichi, per ignoranza, del significato affatto diverso del termine liberale in simile contesto – che lo vogliono vedere sotto tutela, custodito dalle premure e dalle amorevoli attenzioni dei vari ordini professionali, delle loro tariffe vincolanti erga omnes, dei prezzi minimi imposti, dell’esclusiva alla vendita, del passaggio ius sanguinis delle licenze per l’esercizio di un’attività, del controllo amministrativo della produzione del pane, e via discorrendo. Altri ancora, schiumando rabbia, si riversano sulle strade dove, invece di lavorare, pensano di dar vita all’ennesimo sciopero selvaggio dove alle proteste – pur sempre legittime – si aggiungono le violenze (a questo punto i questurini di alleanza nazionale ci devono spiegare perché le proteste no global sono sbagliate e quelle dei tassisti sacrosante…).



Sarà forse perché da liberali siamo amanti, in Italia, delle cause perse, il nostro gruppo pare risvegliarsi in un paese che inizia, seppur blandamente, a parlare la sua stessa lingua. E così assumiamo, d’ufficio, la difesa del pacchetto Bersani.



Ovvio, le misure prese sono, per molti versi, insufficienti a promuovere la terapia d’urto che serve ad un malato come l’Italia: ci si limita a curare qualche piaga quando l’intervento necessario è un trapianto di strumenti che favoriscano la competizione e che incentivino, premiandolo, il merito. Ma, da riformatori, ci rendiamo conto che chi vuole tutto e subito è generalmente difensore dello status quo.



Diciamo, pertanto, avanti così.



Ma facciamo un passo indietro e torniamo alle polemiche.

Si è detto da alcuni che nel merito il provvedimento potrebbe andare bene così come concepito ma che il metodo utilizzato non è stato molto concertativo. La risposta del ministro Bersani è stata impegnativa: «le regole non si concertano». Noi approviamo anche il metodo. Chi avrebbe potuto sperare in un risultato migliore facendo accomodare i rappresentanti delle categorie interessate dal pacchetto Bersani ad un tavolo in cui la portata principale era costituita da un polpettone per loro indigesto? Chi avrebbe potuto evitare che, forti del mito del consenso a tutti i costi, i suddetti rappresentanti, una volta scodellata sul piatto l’amara pietanza, non avrebbero abbandonato il tavolo indignati e scontenti? L’invocata concertazione sarebbe stato il grimaldello grazie al quale si sarebbe procrastinata, sine die, qualsiasi riforma, in attesa che, tra tutti gli ospiti convenuti, il più protezionista, il meno concorrenziale, iniziasse a comprendere le ragioni del mercato e dell’efficienza, splendida endiadi che vuol anche dire le ragioni dei consumatori, finalmente riportati – seriamente – al centro dell’interesse politico.

E soprattutto, come si potrebbe sperare in un’analoga decisione che riguardi la riformulazione delle regole, sì sempre quelle, del mercato del lavoro? La sfida, infatti, per i liberali è quella di fare da cane da guardia al processo di liberalizzazione dell’economia italiana. Come non cogliere, allora, al balzo l’occasione di ricordare, a tempo debito, e sempre al ministro Bersani, che «le regole non si concertano» quando gli interessati non saranno più solo avvocati, farmacisti, notai, tassisti, e nemmeno i lavoratori – o aspiranti tali - ma le burocrazie delle confederazioni sindacali, la cui rappresentatività è sempre postulata ma mai stimata, e la cui base associativa è ormai dominata da pensionati e da lavoratori anacronisticamente legati al passato taylorista?

Quello sarà il banco di prova della reale portata riformatrice e liberale dell’attuale esecutivo, quando si tratterà di far capire, in una sorta di dialogo tra un muto ed un sordo, ai vari Bonanni, Epifani & C. che la medicina è la stessa anche per i privilegi sindacali.



Affiliamo, pertanto, le nostre modeste armi e prepariamoci a difendere, in Italia, l’indifendibile, ovvero il mercato e le sue regole.



Come non capire, ad esempio, che nella difesa dei minimi tariffari, nelle restrizioni dovute alle licenze, si annida sempre la famosa idra dalle cento teste del pregiudizio e dell’errore economico cara al liberista Bastiat? Infatti, le lagnanze avanzate, ad esempio da avvocati e tassisti, peccano del medesimo fraintendimento economico. Avvocati e tassisti partono dall’assunto che l’offerta di servizi (siano essi legali o siano il trasporto di una persona) debba essere necessariamente data, fissa ed immutabile, così come fisso, nella sua misura minima, deve essere il prezzo, una sorta di prezzo politico, identico a quello caratteristico delle economie di piano, scilicet sovietiche. Ad essa, all’offerta, si deve adeguare la domanda (sic!), mai nel fisiologico fluttuare di offerta e prezzo, ma sempre e solo quella domanda capace di intercettare un livello di prezzo stabile, ed inderogabile in pejus, e un’offerta che viene controllata da una autorità centrale (si chiami ordine o organo amministrativo che concede la licenza). Mi pare evidente che la domanda tenderà anch’essa ad essere molto, troppo stabile e non variabile, se non per cause esogene.



Nella retorica, ovviamente, entra in gioco il livello della qualità della prestazione, per gli avvocati (come se i minimi tariffari tenessero indenne la professione dalla sifilide dei mozzaorecchi) o il reddito di sussistenza del tassista.



Ma così, diciamo noi liberisti, non può essere. Non può essere che si postuli un prezzo politico e una offerta di servizi che sia predeterminata, a meno che non si voglia il corollario evidente di una simile dinamica economica, ovvero la pianificazione, l’economia di piano, che credevamo di aver sconfitto meritoriamente nel 1989.



Si deve, invece, permettere al mercato di fare ciò che sa fare meglio di qualsiasi altra istituzione divisata. Il mercato non è, questo è evidente, assenza di regole, ma un sistema di regole che prescinde dalla fissazione di un risultato predeterminato (non vi può essere mercato dove il sistema dei prezzi è stabilito esogenamente ed autoritativamente). Il mercato cerca di favorire, con le sue regole, molte delle quali crittotipiche, non verbalizzabili e difficilmente conoscibili, una migliore allocazione delle risorse. Punto.

Purtroppo il fraintendimento sul ruolo e sul funzionamento del mercato è la causa prima della sete di protezionismo che in Italia rischia di far morire d’inedia la nostra economia.

E allora siamo costretti, come dicevamo d’ufficio, ad assumere le difese del mercato, perché la reazione delle ultime settimane pare essere l’ennesimo rigurgito di uno spirito anti concorrenziale.



Così, a coloro che postulano la fissità del prezzo e dell’offerta, noi dobbiamo opporre che il prezzo e l’offerta devono variare come varia la domanda. Infatti, in una economia di mercato la conoscenza delle circostanze, degli elementi necessarii per una scelta efficiente non esite mai in una forma concentrata o integrata (come devono postulare i pianificatori di ogni epoca e di ogni credo), ma esiste solo come infiniti e dispersi frammenti di conoscenza, spesse volte a dirittura contraddittori, posseduti da ciascun individuo.

Ed il sistema che consente di aggregare tutte le informazioni altrimenti disperse è il sistema dei prezzi che viene formandosi all’interno di una economia di mercato. Il che avviene all’interno di una economia di mercato perché è solo questa in grado di fornire le informazioni che consentono agli individui di giudicare i vantaggi comparativi dei diversi usi delle risorse: e così, inintenzionalmente, gli stessi individui servono i bisogni di altri individui a loro affatto sconosciuti. Ecco perché Adam Smith era solito dire che non è la benevolenza del birraio o del macellaio a consentire di sfamarci, ma la ricerca del proprio interesse individuale che interagisce – nel mercato – con il correlativo nostro interesse a pagare il prezzo migliore (ovvero più basso) per il servizio migliore (ovvero di qualità superiore).

E quello che deve essere ricordato ai protezionisti ed ai pianificatori di ieri come di oggi è il fatto che ciascuno di noi è scarsamente in grado di comprendere il completo sistema dei prezzi, degli elementi che concretamente lo determinano e lo condizionano, mentre siamo in grado compiutamente di fruire dei suoi benefici nel momento in cui ne agevoliamo il funzionamento.

Ecco perché l’ambizione di stabilire per decreto i prezzi, le tariffe, è condannata al fallimento, ovvero all’inefficienza.



E così non solo avremo la possibilità di trovare sul mercato il bene o servizio che rappresenti il miglior rapporto qualità/prezzo, ma consentiremo, indirettamente, anche di ristabilire sul mercato un equilibrio, perennemente instabile perché soggetto ad infinitesimali adattamenti, tra offerta e domanda. L’offerta aumenterà in funzione dell’aumentata domanda e del momentaneo aumento dei prezzi che una maggiore domanda stimola: così, per tornare all’esempio dei tassisti, se il prezzo di una corsa diminuisce aumenterà anche la domanda del medesimo servizio, domanda che spingerà nuovamente verso l’alto il prezzo fino al livello in cui sarà sufficientemente remunerativo per ulteriori nuovi tassisti, il cui ingresso farà nuovamente scendere il prezzo delle corse intercettando, in un nuovo equilibrio, la nuova curva della domanda. Chi saprà stare sul mercato sarà premiato, mentre sarà escluso solo chi non è in grado di stare al passo con la concorrenza.



Lo stesso funzionamento deve valere per il professionista: questi non ha nulla da temere da una tariffa che sia in grado di fluttuare – non solo verso il basso ma anche verso l’alto (ecco perché la battaglia è quella di una vera liberalizzazione delle tariffe dei professionisti) – posto che queste tariffe all’inizio consentiranno un nuovo equilibrio anche rispetto ad una mutata domanda di servizi legali, mentre sul lato dell’offerta avremo un costante stimolo o alla qualificazione professionale, nel tentativo di intercettare quei settori in cui è richiesta maggiore competenza specifica, e quindi vi sono prezzi di riserva più remunerativi, oppure alla raccolta di domande che si situano su livelli inferiori di qualificazione tecnica, dove si formano, grazie al mercato, prezzi di riserva più bassi e quindi meno remunerativi per unità di servizio reso.

E’ ovvio, e questa è la strada che i professionisti devono seguire, che il solo abbattimento del limite minimo della tariffa non risolva tutti i problemi in un colpo solo. E’ necessaria anche la rivisitazione della regolamentazione dell’accesso alle professioni e della funzione di selezione meritocratica in mano alle Università. Le lagnanze dei professionisti, infatti, meriterebbero miglior sorte se venissero indirizzate verso un provvedimento semplice e non costoso: l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ovvero la lotta alla burocratizzazione della cultura. Con un simile intervento, si rimetterebbe in moto il sistema di selezione – ormai ingrippato - delle università che dovrebbero cercare di farsi concorrenza sulla qualità della formazione più che non sulla facilità con cui si superano gli esami di profitto. Ne uscirebbero laureati migliori pronti ad arricchire, più che non zavorrare, le professioni: questa sarebbe la miglior garanzia per la fornitura di servizi qualificati capaci di affrontare la sfida del mercato.



Ma c’è qualcuno disponibile a condurre sino in fondo la lotta senza quartiere alla rendita economica, stella polare dei liberisti di ogni tempo?



C’è qualcuno che ancora ricordi l’ammonimento etico, prima che economico, di Luigi Einaudi, secondo il quale «i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni» e che « quella che i cosiddetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica»?



L’esercito dei liberali ha aperto le proprio liste. Attendiamo nuovi iscritti dopo aver constatato che, in Italia, le schiere dei protezionisti e dei pianificatori sono ancora foltissime.

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