lunedì 16 agosto 2010

Se l' opposizione diventa «un teatrino» e il liberismo un' ipotesi dimenticata

di Michele Salvati
Corriere della Sera
12 agosto 2010
Maurizio Sacconi ha rilasciato al Corriere (2 agosto) un' intervista di grande interesse, sia per le cose che dice, sia per lo stato d' animo che rivela. Riassumo quanto dice in tre punti. (a) Il governo ha fatto cose egregie. (b) Contro il governo si è mossa una coalizione di interessi conservatori: la sinistra ideologizzata, parte della magistratura, elementi dello stesso establishment («finanzieri impiccioni»). A essi Fini ha fornito un assist suicida, spiegabile soltanto per ragioni di ambizione personale. (c) Se il governo dovesse cadere o essere messo nell' impossibilità di funzionare si dovrebbe andare a nuove elezioni: «una maggioranza diversa sarebbe all' insegna del peggiore trasformismo e sarebbe un regresso verso una democrazia paralizzata». Sul primo punto mi limito a osservare che non ci si può attendere da un esponente del governo, in una situazione di grave tensione, un' analisi che soppesi in modo imparziale i risultati raggiunti. Per chi voglia farsi un' idea in proposito non mi resta che rinviare, oltre ai documenti governativi, a due siti web che seguono con spirito critico, ma anche con competenza, ciò che il nostro ministro ha annunciato di voler fare e ciò che effettivamente ha fatto: www.pietroichino.it e www.lavoce.info. Da modesto macroeconomista, vorrei solo aggiungere che faccio fatica a credere nel «tout va bien madame la marquise» intonato da Sacconi, quando osservo che durante la crisi il nostro reddito è caduto di più di quello dei grandi Paesi europei con i quali ha senso confrontarci e tutte le stime per i prossimi due anni convergono su una crescita minore. Scontato il primo punto, è il secondo il più interessante. Le vittorie della coalizione di centrodestra nel 2001 e nel 2008 erano state accolte con grandi attese: ecco finalmente un governo che, forte di una inattaccabile maggioranza parlamentare, guidato da un capo indiscusso, sarà in grado di combattere gli interessi, strappare i lacci e laccioli, eliminare le rendite che frenano lo sviluppo dell' economia e della società italiane. Ovviamente ci si aspettavano resistenze, e non soltanto nei sindacati e nella sinistra tradizionale, ma anche tra quei segmenti delle élite che normalmente appoggiano un governo di centrodestra, nello stesso establishment economico e istituzionale. Le aveva dovute affrontare la signora Thatcher, sconfiggendo prima i wets del suo partito, i moderati, e poi le forze economiche e istituzionali che si erano adattate al regime precedente ed erano preoccupate dall' asprezza ideologica della lady di ferro e dalla battaglia che stava avviando contro i sindacati. Sono forse queste le resistenze che il ministro lamenta, il «teatrino politico-istituzionale che rema contro il governo con armi improprie»? Basta proseguire il confronto con il caso britannico per rendersi conto che, se si eccettua l' ostilità di una parte del sindacato e della sinistra, si tratta di tutt' altro. Margaret Thatcher era figlia legittima del grande partito conservatore, che essa giunse a dominare dopo una dura battaglia interna e in virtù di un chiaro disegno politico liberale. Un disegno che perseguirà sino a quando il partito, preoccupato dell' impopolarità crescente del leader, non la sostituirà con John Major: il tutto si svolge nel più pieno rispetto delle regole della costituzione britannica. Silvio Berlusconi è un leader populista che emerge da una drammatica rottura di continuità del nostro sistema politico e non certo una Giovanna d' Arco del liberismo puro e duro: l' originario appello liberista è presto dimenticato, travolto da esigenze di consenso e, da ultimo, dalla grande crisi. La sua storia passata e il suo stile di governo lo mettono da subito in rotta di collisione con segmenti importanti delle istituzioni e dell' opinione pubblica. Anche la Thatcher fu oggetto di una forte avversione politica, come lo è ogni innovatore, ma la sua storia personale e il suo radicamento in una secolare tradizione costituzionale la mettevano al riparo dalle critiche cui è esposto da sempre Silvio Berlusconi. Si aggiunga che essa era a capo di un grande partito, animato da una vivace discussione interna, non il dominus populista di una coalizione formata da più partiti, con leader forti e tradizioni diverse. Insomma, tutto era fuorché «unfit to rule», come l' Economist definì Berlusconi in una famosa copertina. Si capisce che Sacconi si rammarichi di vedere ostacolate le riforme che ha in mente, specie in una situazione in cui è sul tappeto la grande sfida che Marchionne ha lanciato alle inadeguate relazioni industriali del nostro Paese. Ma mi sembra improprio chiamare «teatrino politico-istituzionale» l' insieme degli interessi, delle forze e delle opinioni che si muovono contro questo governo. Ed è ingeneroso ascrivere il comportamento di Fini a pure ambizioni personali. In un leader le ambizioni ci sono sempre, ci devono essere: il problema è quello di valutare se esse sorreggono un disegno politico e questo, nel caso di Fini, si può certo criticare ma è difficile negare che ci sia. Dopo di che, e vengo brevemente all' ultimo punto, anch' io sono preoccupato, come Sacconi, per i confusi scenari che si elaborano nel caso dovesse cadere il governo. Ma questi sono una conseguenza della storia che ho appena riassunto: la Thatcher ha convissuto benissimo con i meccanismi della sua democrazia, è questo governo che non riesce a conviverci. E mi meraviglia leggere alla fine dell' intervista che «le nostre vecchie democrazie europee devono competere con sistemi istituzionali molto semplici: Cina, India, Brasile...», come se il problema della concorrenza risiedesse nella presenza di ostacoli istituzionali che si frappongono all' azione del governo. Sacconi sa benissimo che la Cina non è una democrazia, e che gli altri due Paesi hanno meccanismi istituzionali altrettanto o più complessi dei nostri: è il basso costo del lavoro, accoppiato con capacità tecnologiche sempre più sofisticate che fanno la differenza. E contro questi svantaggi concorrenziali non c' è semplificazione istituzionale che tenga. Se vogliamo restare in democrazia, almeno. RIPRODUZIONE RISERVATA

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