da Europa
27 luglio 2010
Lazzaro Pietragnoli
I cinque contendenti alla guida del Labour Party non avranno un’estate semplice: per quanto abbiano deciso unanimemente di sospendere la campagna per tre settimane nel mese di agosto, il 25 settembre, quando uno di loro verrà ufficialmente dichiarato eletto, si saranno tenuti circa sessanta faccia a faccia, per non contare gli incontri individuali dei candidati nelle diverse città e regioni.
È un percorso volutamente lungo, quello per l’elezione del leader del Labour, che prevede più di due mesi di tempo perché i candidati possano presentarsi al corpo del partito e confrontarsi con gli altri contendenti alla ricerca del massimo supporto: d’altronde le elezioni si sono appena tenute e non c’è il rischio per ora di una fine anticipata della legislatura.
Meglio quindi riflettere sulla sconfitta, analizzare collettivamente gli errori fatti, e discutere apertamente delle diverse strategie in campo per tornare a vincere.
Anche se fino ad ora gli “husting” (i confronti tra tutti i candidati) più che sui progetti futuri si sono soffermati sul passato e sulla volontà di chiudere definitivamente una fase politica, contrassegnata da enormi successi, ma che alla fine aveva cominciato a lasciare l’amaro in bocca a molti.
Più difficile invece per il momento capire dove David Miliband, il fratello Ed, l’altro Ed (Balls) e i due outsider Diane Abbott e Andy Burnham si differenziano se non nell’attaccare, più o meno ferocemente, chi ha gestito il Labour negli ultimi quindici anni. Perfino David, che è stato braccio destro di Blair e poi fedele custode di Gordon Brown (rifiutandosi di farlo cadere quando ne avrebbe avuto la possibilità), non manca occasione per sottolineare critiche, manchevolezze, e anche qualche errore.
Eppure si deve proprio al trio Blair-Brown-Mandelson il sistema elettorale che prevede l’elezione del leader con la partecipazione di tutti gli iscritti: era il 1992 e i tre, allora ancora fedelmente alleati nell’opera di modernizzazione, decisero di attaccare il potere dei sindacati nella scelta delle cariche interne al partito e di favorire in contrapposizione la partecipazione degli iscritti.
Alla fine, costretti dall’allora leader John Smith, i tre si accontentarono di una mediazione, che portò al sistema tuttora in vigore, uno strano equilibrio di pesi e contrappesi.
Innanzitutto va chiarito che, per la configurazione del sistema politico inglese, il leader del Partito laburista è, innanzitutto, il leader del gruppo parlamentare e per questo chiunque si voglia far eleggere, deve prima di tutto trovare una certa quantità di supporter tra i deputati (12,5% è la soglia prevista, corrispondente a 33 firme): ne sa qualcosa Diane Abbott, costretta a “farsi prestare” firme da David Miliband pur di potersi candidare.
Chiuse le presentazioni delle candidature, comincia per i candidati una doppia fase: quella della ricerca delle “supportive nomination” e quella del confronto con gli altri candidati, che prevede incontri nelle diverse aree geografiche, ma anche di fronte a platee selezionate delle donne, dei giovani, degli eletti a livello locale, dei rappresentanti delle minoranze etniche e, quest’anno, per la prima volta, anche dell’organizzazione degli omosessuali laburisti.
Le “supportive nomination” (che si sono chiuse ieri) sono invece delle manifestazioni di sostegno che vengono espresse dalle diverse istanze del partito e del sindacato, che servono a mostrare il livello di fiducia di cui godono i vari candidati, anche se non hanno alcun peso nella determinazione finale del voto.
Alla fine, infatti, il leader viene eletto attraverso voto postale da un collegio elettorale suddiviso in tre: i parlamentari e gli europarlamentari, gli iscritti al partito, e infine gli iscritti alle organizzazioni affiliate (sono 29 tra sindacati, think-tank, associazioni ricreative).
Indipendentemente dalla reale consistenza numerica dei tre gruppi, ogni elemento del collegio elettorale vale per un terzo del voto: e così i 254 parlamentari assieme ai 13 colleghi eletti in Europa, hanno lo stesso peso dei 150 mila iscritti e dei 650 mila affiliati.
A rendere ancora più complicato il sistema ci pensa il metodo di voto: si chiama “single transferable vote” e prevede che ciascuno possa mettere in ordine di preferenza i cinque candidati. Se il candidato per cui si esprime la prima preferenza risultasse ultimo, viene conteggiata la seconda preferenza espressa, e poi la terza quando anche il secondo prescelto venisse eliminato, e così via fino a rimanere con due soli candidati. In questo modo si permette agli elettori di stabilire davvero chi vogliono e si evitano eventuali accordi sottobanco tra i candidati sconfitti.
Gli accordi si fanno ugualmente, ma almeno devono essere alla luce del sole: David Miliband sta chiedendo ai sostenitori di Diane Abbott e di Andi Burnham di dargli la seconda preferenza, mentre Ed Miliband ed Ed Balls stanno reciprocamente chiedendo ai loro seguaci il secondo voto.
Un sistema abbastanza complesso, ma che alla fine, comunque, garantisce che il leader eletto abbia il sostegno pieno di almeno due dei tre gruppi che compongono il collegio elettorale: anche se nell’unica occasione in cui si è usato nel passato (elezione di Blair 1994 contro John Prescott e Margaret Beckett) le differenze di preferenza tra le tre anime del collegio elettorale risultarono e Tony alla fine ebbe l’appoggio maggioritario di parlamentari, iscritti e membri affiliati.
Un risultato che probabilmente non si verdà questa volta, dato che i due favoriti, i Miliband brothers, godono di diverso sostegno nel partito (dove vince David) e tra i sindacati (dove invece vince Ed). Ma si tratta delle nomination di supporto: solo una volta che si andrà a contare i voti veri e propri (e le seconde e terze preferenze) si potrà davvero sapere chi avrà il difficile compito di guidare il Labour nei prossimi anni.
Nessun commento:
Posta un commento