mercoledì 14 aprile 2010

Se Galan dev'essere, liberi l'agricoltura dall'arrocco di Zaia

Perché continuare a pensare che la validità dei nostri prodotti debba essere affermata in una logica di chiusura?
di Alberto Mingardi
Da Il Riformista, 11 aprile 2010

Al maresciallo Petain, i devoti del culto di Bacco devono eterna gratitudine per un motivo. Quando i nazisti arrivano in Francia, il governo di Vichy mette in atto quella che forse è l’unica nazionalizzazione della storia mai pensata a tutela della proprietà privata: pianta la bandierina sui terreni e delle vigne di Rothschild, per evitare che fossero i tedeschi a impossessarne, in quanto proprietà di ebrei. Il barone Philippe de Rothschild combatterà con De Gaulle, lasciando a Parigi la moglie e la figlia. Le sue vigne vennero risparmiate, e le ritrovò al ritorno a Mouton. Non ritrovò invece la moglie, la contessa de Chambure, che venne portata via dai nazisti sotto gl occhi della figlia Philippine e mandata a morire nei campi di concentramento.

Certo in modi meno eclatant, ma la politica pesa sempre sul vino, sui prodotti della tavola, più in generale sull’agricoltura. L’agricoltura è stata per buona parte della nostra storia l’attività economica principale degli esseri umani, i pubblici poteri si sono “tarati” su di essa, le questioni legate all’estensione e alla gestione della proprietà agricola sono state temi politici cruciali, fino a tempi recentissimi. L’agricoltura è stata non a caso prescelta come uno dei pilastri dell’unificazione europea, non solo con la creazione di un mercato unico ma anche attrezzando una vera e propria “politica comune” di questo settore: distribuendo sussidi ed imponendo dazi alle importazioni.

Chi siano i vincitori e chi i vinti è difficile da valutare. La politica agricola europea sussidia l’offerta ma circoscrive anche la domanda, riducendo il ventaglio delle scelte e contribuendo a mantenere artificialmente alti i prezzi per i consumatori. L’impressione è che abbia impedito una piena razionalizzazione economica del settore, la cui importanza sul piano occupazionale si è enormemente ridotta, ma le cui quotazioni risalgono dal punto di vista dell’estetica. E’ fondamentale per la tutela del paesaggio, la cura delle campagne, eccetera.

Gli italiani votarono in massa (70,2% di si) per l’abolizione del Ministero dell’Agricoltura nel 1993, e qual è la grande questione sulla quale si arrovellano in questi giorni i retroscenisti? La nomina di Giancarlo Galan a Ministro dell’Agricoltura, al posto di Luca Zaia che è il suo successore in Veneto.

Zaia è stato un ministro molto popolare fra gli agricoltori, perché ha interpretato quel mix di localismo e nazionalismo che riesce straordinariamente congeniale alle loro associazioni di categoria. E’ la vecchia battuta di Tremonti sulla polenta ed il McDonald’s. Zaia è riuscito a capovolgerla, mettendo pure a segno uno straordinario colpo d’immagine come il “McItaly”. Ma, in generale, ha affermato con i suoi diversi atti l’idea che la tutela delle tipicità debba passare attraverso politiche conservatrici, attraverso una strategia di “arrocco” e di chiusura per cui quanto noi abbiamo di buono non è da far conoscere agli altri con passione e dedizione: è da proteggere quanto più possibile dagli attacchi e dalle interferenze del resto del mondo.

Quindi grande enfasi sul sistema dei controlli e delle denominazioni, supporto alla logica dei dazi sulle derrate provenienti dal resto del mondo, no agli ogm.

Zaia tutte queste carte se l’è giocate con abilità e una capacità organizzativa notevole, riconosciutagli da tutti. Forse il passaggio di consegne con Galan potrebbe diventare l’occasione per pensare diversamente il primo settore: sia nei simboli, sia nelle cose concrete.

L’agricoltura è uno dei modi in cui l’uomo modifica l’ambiente in cui vive. Ha senso chiudere a priori agli ogm? Gli agricoltori che desiderano essere liberi di sperimentare non vogliono certo che tutto ciò che si sia coltivabile sia ogm. Non sono pazzi, e non credono, per esempio, che l’agricoltura biologica debba scomparire. Chiedono una possibilità in più, non una possibilità in meno. Il maiscoltore Silvano Dalla Libera e gli altri membri di Futuragra, l’associazione degli agricoltori favorevoli alle biotecnologie, non desiderano che poter perseguire una strategia che sembra loro non solo sicura sul piano tecnologico, ma anche razionale su quello imprenditoriale.

E perché continuare a pensare che la validità dei nostri prodotti debba essere affermata in una logica di chiusura? Non c’è niente che sia “meticcio” come il cibo, e non c’è bisogno di ricordare per l’ennesima volta che il prodotto più arcitaliano di tutti, cioè la pizza Margherita, sarebbe stata impensabile senza la scoperta delle Americhe e quindi del pomodoro.

Soprattutto, dobbiamo ripensare quell’idea di consumatore che si è fatta strada nell’opinione pubblica. Non è vero che chi ama la polenta odia l’hamburger, non è vero che gli appassionati di lessi misti non possano concedersi un pranzo fast food, non è vero che la gente giudichi le pietanze sulla base della nazionalità. La nostra cultura della buona tavola è certamente più radicata e forte di quella di molti altri Paesi, ma questo non può rappresentare un vincolo alle scelte individuali. Il cibo segue le mode ed è sensibile a tutte le sollecitazioni che toccano qualcosa di così intimamente legato alla cultura ed all’identità. Cultura e identità non sono ferme: cambiano nel tempo, si evolvono, si arricchiscono nel confronto con l’altro.

Se proprio il Ministero dell’Agricoltura deve esistere, meglio sarebbe se aiutasse gli agricoltori italiani ad attrezzarsi per il futuro: non a cullarsi nell’illusione che possa non arrivare.

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