martedì 9 febbraio 2010

Sull'Europa lo spettro del '92

di Wolfgang Münchau
da il Sole 24 Ore
9 febbraio 2010

Gli ultimi giorni mi hanno riportato alla memoria gli attacchi speculativi alla sterlina e alla lira del settembre 1992. I ministri delle finanze d'Europa e le banche centrali all'epoca reagirono con rabbia e incomprensione. La parità centrale della sterlina nel meccanismo dei tassi di cambio era tanto insostenibile quanto lo sono oggi le finanze pubbliche in Grecia o gli stipendi in Spagna.
I mercati finanziari odierni giustamente percepiscono che la zona euro non si sta occupando degli squilibri e sono oltretutto confusi dai vari segnali provenienti da Germania e Francia in relazione a un possibile salvataggio in extremis. Gli investitori sono giunti alla conclusione che le probabilità di un'epidemica insolvenza stiano aumentando. E hanno ragione.
A restare immutato rispetto alla crisi del '92 è il fatto che i rappresentanti politici europei e i loro consiglieri economici sono tuttora privi delle più basilari nozioni di come i mercati finanziari reagiscono alle politiche economiche o, in questo caso, a una totale mancanza di politiche. Al momento è assolutamente poco chiaro che cosa accadrebbe se uno dei paesi della zona euro dovesse essere incapace di rifinanziare il proprio debito. Sospetto che ci sarebbe un salvataggio in extremis, ma non ne sono più tanto sicuro come un tempo.
Il consiglio meno valido in questa situazione - che ha già contribuito a diffondere il panico tra gli investitori la settimana scorsa - è lasciare che sia il Fondo monetario internazionale a risolvere l'intricata situazione. La motivazione alla base di tale consiglio è che l'Unione Europea non si trova nella condizione di poter fornire aiuti d'emergenza in maniera efficace, mentre l'Fmi ha l'esperienza, il personale e gli strumenti per potersene occupare.
Tutto ciò è vero, ma i sostenitori di un salvataggio in extremis guidato dall'Fmi a ragion veduta ignorano il catastrofico segnale che ciò farebbe giungere ai mercati finanziari, in relazione alla direzione verso la quale si avvierà la zona euro. Dimostrerebbe che la zona euro è incapace di risolvere i suoi stessi problemi, al punto da poter perdere tale e tanta credibilità che gli investitori inizierebbero a trattarla non più come un'unione monetaria, ma come un sistema di tassi di cambio fissi con un orizzonte temporaneo definito.
Un importante investitore con il quale ho parlato la settimana scorsa di coinvolgimento dell'Fmi ha subito evocato il paragone con l'Argentina. L'Argentina non era disposta a procedere a una svalutazione. La Grecia non è nella condizione di poterlo fare. I programmi dell'Fmi funzionano meglio quando le valute hanno l'autorizzazione a svalutarsi, in quanto altrimenti un aggiustamento potrebbe esserci esclusivamente tramite un calo degli stipendi e un'austerità fiscale rigidissima. Se l'Fmi supplisse alla situazione, la Grecia potrebbe benissimo imboccare la medesima strada dell'Argentina.
Molto meglio sarebbe se la zona euro riuscisse a risolvere da sola i suoi problemi. Ciò imporrebbe una strategia che vada oltre quanto prescritto dal patto di crescita e di stabilità della Ue. Il problema è uno solo: la mancanza di una verosimile strategia di fine-partita. Il patto in questione comprende procedure dettagliate inerenti a ciò che accade quando un governo non riesce a conformarsi ai desideri degli altri membri, ma non va oltre la sanzione massima prevista, una semplice ammenda. Qual è però lo scopo di dare un'ammenda a uno stato insolvente? In definitiva l'unico fine-partita resterebbe l'insolvenza, alla quale si sommerebbe il dilagare di tale situazione.
Perché dunque l'establishment politico europeo non lavora attivamente per definire solide politiche anticrisi? Ho sentito dire la settimana scorsa a Parigi e Berlino che un segnale di salvataggio in extremis sarebbe mal interpretato dall'opinione pubblica greca e metterebbe istantaneamente fine a tutti gli sforzi di consolidamento. A tale osservazione rispondo che, secondo me, dipende da quale segnale i politici intendono inviare e quali condizioni prevede questo ipotetico intervento di salvataggio. Naturalmente, lo si dovrebbe rendere poco allettante, per evitare che insorgano preoccupazioni di ordine etico. Dovrebbe inoltre comportare una perdita almeno parziale di sovranità: nessun paese dotato di logica e razionalità dovrebbe voler accettare i finanziamenti. E chiunque lo facesse, dovrebbe sapere con certezza che in seguito gli toccherebbe convivere con conseguenze alquanto indesiderabili.
Un simile sistema non necessariamente eviterebbe sempre e comunque le insolvenze, ma servirebbe enormemente a evitare un contagio automatico. I paesi che non dovessero accettare tali condizioni, potrebbero ancora essere insolventi ma, in tal caso, altri paesi potrebbero avere la chance di evitare una ricaduta adeguandosi alla procedura concordata.
Al momento, in assenza di un qualsiasi struttura, la minaccia di un default è trasmessa automaticamente dal primo paese vulnerabile a quello successivo. La settimana scorsa il mercato azionario ha fatto registrare un calo più consistente a Madrid e a Lisbona che ad Atene. E non dimentichiamo che altri paesi europei potrebbero essere altrettanto vulnerabili. L'Austria potrebbe ancora essere prosciugata dalla sua crisi bancaria; il Belgio ha un livello molto più alto d'indebitamento rispetto a Spagna e/o Portogallo e un settore finanziario fortemente dissestato dalla crisi globale. A mano a mano che le preoccupazioni si propagano verso Nord, seri investitori potrebbero essere tentati di scommettere ingenti capitali su una scissione della zona euro.
Giovedì prossimo, al loro summit speciale sull'economia, i leader dell'Unione Europea dovrebbero far convergere la loro attenzione sulla crisi, piuttosto che dibattere di vaghe riforme di microeconomia. Più capitali per la ricerca e lo sviluppo non sono la risposta che serve in questo momento. L'Unione Europea deve inviare un segnale urgente e inequivocabile della sua determinazione a individuare e mettere a punto una solida linea politica anticrisi. Non occorre che questa politica sia varata questa settimana stessa, ma il summit deve in ogni caso lanciare un chiaro segnale al mondo: la zona euro si occuperà e risolverà direttamente i propri problemi.
Tale linea politica dovrà risultare adeguata ed efficace, dovrà rispettare le normative previste della Ue, compresa la regola che preclude d'intervenire con un salvataggio in extremis di un paese membro in difficoltà, e dovrà comprendere molti disincentivi per qualsiasi eventuale e potenziale beneficiario. Il summit della Ue sarà con ogni probabilità l'ultima chance per dissipare l'ambiguità che caratterizza i ministeri delle Finanze dell'Europa che non hanno un capo e la Commissione europea che hanno creato. Deve, quindi, dare agli investitori la propria visione di una possibile strategia di fine-partita. In caso contrario, ritorneremo indietro al 1992.

(Traduzione di Anna Bissanti)

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