martedì 16 febbraio 2010

L'economia 2.0 di Arnold Kling e Nick Schulz: “I mercati falliscono spesso, e proprio per questo abbiamo bisogno dei mercati”

Scuola di Chicago, Harvard e outsider. Il mercato si inventa la terza via
di Alberto Mingardi
Da Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2010

Per la scuola di Chicago, “i mercati di solito funzionano, e per questo abbiamo bisogno dei mercati”. Per la scuola di Harvard-MIT, “i mercati falliscono spesso, e per questo abbiamo bisogno dello Stato”. C’è una terza via. È quella che Arnold Kling e Nick Schulz chiamano “Economia 2.0”: “i mercati falliscono spesso, e proprio per questo abbiamo bisogno dei mercati”.

L’affermazione è solo apparentemente paradossale. La tesi di Kling e Schulz è che per superare le market failures non serva l’intervento pubblico, ma l’innovazione. E l’innovazione si produce precisamente sui mercati. Per questo, è proprio “più mercato” la soluzione migliore ai pretesi fallimenti del mercato stesso.

Messa così, potrebbe apparire una presa di posizione ideologica: invece ciò che Kling e Schulz fanno, in questo loro From Poverty to Prosperity, è solo tirare le fila di una serie di sviluppi del pensiero economico. Dopo il dottorato all’MIT Kling ha lavorato per il Board of Governors della Federal Reserve e poi è stato senior economist a Freddie Mac (posizione che ha lasciato nel 1994), mentre Schulz è Fellow all’American Enterprise Institute ed è essenzialmente un giornalista. Se il “ticket” è costruito secondo la stessa logica dei Levitt e Dubner di Freakonomics, il libro è radicalmente diverso. Contando sull’apporto di testimonial come i Nobel Solow, Fogel, Phelps e North (intervistati a conclusione di ogni capitolo assieme ad economisti di rango quali William Easterly, Paul Romer e Joel Mokyr), Kling e Schulz cercando di spiegare come cambia la scienza economica. Il passaggio cruciale è proprio nel momento definitorio. Dice Douglass North: nel momento in cui ci interessa soltanto una visione statica del mondo, i problemi sono facili da risolvere. L’economia passa dall’essere un ragionamento sull’allocazione di risorse in regime di scarsità, a un’indagine “sull’abbondanza che viene generata dal progresso tecnologico” - o meglio, sul ruolo giocato dai mercati “nel selezionare e filtrare l’innovazione”.

Si torna al saggio del 1945 di Friedrich von Hayek, “L’uso della conoscenza nella società”. Per Hayek, l’errore fondamentale dei sostenitori del socialismo (ma anche dei sostenitori della concorrenza perfetta) è pensare che le informazioni siano “date” a tutti gli attori. Al contrario, la conoscenza rilevante perché l’attività economica possa esplicarsi, perché la produzione possa avvenire, è dispersa, e il sistema dei prezzi ne è la rete di connessione, il meccanismo di coordinamento. “Il fatto più significativo di questo sistema è costituito dall’economia di conoscenza con cui esso opera, o in altri termini da quanto poco devono sapere i partecipanti individuali per agire nel modo giusto”. La moderna divisione del lavoro è resa possibile da poco altro che il sistema dei prezzi: uno strumento nel quale l’uomo si è “imbattuto”, e che non ha “progettato”. In un certo senso, i tentativi teorici di cui Kling e Schulz danno conto riguardano specificamente come l’“imbattersi” in istituzioni “buone” di cui parlava Hayek si sia rifinito col tempo. Dell’impatto del progresso sulla fisiologia umana, dei mutamenti dei sistemi di idee, delle evoluzioni del diritto.

I due autori preferiscono parlare di “protocolli” anziché di “istituzioni”. In parte, è l’épater le bourgeois che si concedono due battitori liberi rispetto all’accademia. Ma la logica sottostante è quella di cercare una categoria più ampia, che abbracci dichiaratamente valori, pratiche e consuetudini, prima ancora che norme e diritti codificati. Come spiega Joel Mokyr, un ruolo importantissimo lo hanno i sistemi d’idee: “l’ideologia ha vita propria, evolve nel tempo secondo la sua dinamica, e condiziona il sistema economico”. Non si può sottostimare, secondo Mokyr, il “condizionamento” di una qualche forma di riconoscimento delle “libertà economiche” nel promuovere la rivoluzione industriale. Adam Smith a nostra insaputa è nato prima di James Watt.

Già parlare di “economia 2.0” significa alludere alla dimensione del software - e secondo Kling e Schulz dovremmo dare preminenza proprio al software, piuttosto che all’hardware, quando ci interroghiamo “sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni”. Nella realtà delle cose “tutti i Paesi cadono in qualche modo nel mezzo, fra i due estremi di una nazione controllata dal crimine organizzato, e una che operi invece sotto la rule of law”. La qualità delle istituzioni ha un impatto significativo soprattutto sul “trust”, la fiducia, che è un essenziale per abbassare i costi di transazione e dunque, indirettamente, agevolare l’innovazione.

Chi fa innovazione? Per Kling e Schulz, la risposta è ovvia: gli imprenditori. “Tutti vogliono la crescita ma nessuno vuole il cambiamento”, spiega Romer. È il risk taker, l’imprenditore, che deve incaricarsi di “superare la resistenza al cambiamento”. È per questo che, nella continua interazione coi consumatori, egli deve fare uso di una intelligenza “adattativa”: l’imprenditore prova ed adatta. Ed è per questo che è più difficile innovare all’interno di strutture complesse e burocratizzate, a meno che un mercato effettivamente libero non renda possibile anche la caduta degli dei, in un quadro in cui “only the paranoid survive”, cioè sopravviva solo chi non si siede mai sugli allori.

Anche nell’“economia 2.0”, ci sono problemi di policy da considerare attentamente. Come regolare gli intermediari dopo la crisi partendo dall’assunto che “l’assenza di trasparenza è parte della funzione basilare dell’intermediazione finanziaria”, cioè che le asimmetrie informative non sono appianabili, e che il premio al rischio è fondamentale per gli investimenti. O come tutelare dinamicamente la proprietà intellettuale. Problemi che Kling e Schulz esaminano con curiosità non di maniera, e la ragionevole aspettativa che il mercato riuscirà a smentire di nuovo economisti e osservatori.

Arnold Kling & Nick Schulz, From Poverty to Prosperty. Intangible Assets, Hidden Liabilities and the Lasting Triumph Over Scarcity, New York-London: Encounter Books, pp.320, $ 27.95.

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