mercoledì 10 febbraio 2010

2010, multinazionali in fuga

Nota l'Istituto Bruno Leoni: «Gli investimenti esteri vengono attratti quando il capitale è ben formato, il diritto certo e le tasse basse di Francesco Pacifico
La Fiat deve abbandonare Termini Imerese per la mancanza di strade, autostrade e ferrovie. L'Alcoa vuole scappare da Portovesme e Fusina perché l'elettricità in Italia costa il 30 per cento in più rispetto agli altri Paesi europei. E chissà quante saranno, dopo quelle di "Detroit" e di Pittsburgh, le multinazionali in fuga dal Belpaese.

Da Liberal, 9 febbraio 2010

Nota l'economista Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni: «Gli investimenti esteri vengono attratti quando il capitale è ben formato, il diritto certo e le tasse basse. Va da sé che sotto questi aspetti l'ambiente in Italia è dichiaratamente inospitale. Allora perché meravigliarsi che multinazionali come Alcoa e la Fiat - per nostra e loro fortuna lo è divenuta - inizino proprio dal Belpaese a tagliare i rami secchi?».

Entro giovedì il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, vuole trovare un'intesa con il colosso dell'acciaio, ma le vertenze finite sul suo tavolo rischiano di aumentare. La Glaxo, uno dei nomi più pesanti del Big Farma ha deciso di chiudere il centro di ricerca di Verona, disfacendosi di 500 addetti e smisurate conoscenze nel campo delle scienza neurologiche. Anche La Yamaha è pronta a fare a meno dello storico impianto di Lesmo, in Brianza, per andare in Spagna. Poco più in là i vertici di Nokia Italia hanno deciso spostare le attività di ricerca di Cinisello Balsamo a Dallas. La russa Severstal ha invece messo all'asta gli stabilimenti

italiani un tempo del re del tondino, Luigi Lucchini. Questa fuga dall'Italia non ha soltanto ripercussioni in termini occupazionali. Pur rappresentando soltanto il 16 per cento del nostro Pil (nelle economie più sviluppate il dato è almeno doppio) le imprese portano know how e applicano quelle best practies di responsabilità sociale che i nostri campioni nazionali si rifiutano di seguire: investono in ricerca, garantiscono commesse alle Pmi, introducono livelli migliori di formazione continua per il personale. In poche parole, distribuiscono ricchezza.

Alberto Mingardi si chiede se, di fronte a questo scenario, «ci sia ancora qualcuno che ha il coraggio di sostenere che piccolo è bello anche perché non può scappare all'estero. Come dicono gli anglosassoni, la Fiat di Termini Imerese e l'Alcoa di Portovesme rientrano nella tipologia di quegli incendi che aspettano soltanto di scoppiare».

Nella parte italiana dell'indice della libertà economica elaborato dal Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, proprio l'istituto Bruno Leoni ha indicato con chiarezza quali sono i ritardi del Belpaese, che gioco forza si traducono in gap di competitività.

Secondo il rapporto si scontano una scarsa libertà fiscale, una diffusa corruzione, l'impossibilità dello Stato di investire a fronte di debito pubblico esorbitante, la difficile tutela dei diritti di proprietà.

E fortuna che i pacchetti di liberalizzazione imposti agli Stati membri dall'Unione europea hanno ridotto i costi nei servizi e nella logistica o ampliato la concorrenza sul versante finanziario.

Ma al riguardo ancora più emblematico lo scontro a distanza tra il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e il ministro competente Altero Matteoli, sul deficit infrastrutturale italiano.

Da Milano, ospite della mobility Exibition 2010 di Assolombarda, l'imprenditrice mantovana ha sottolineato che gli investimenti nelle grandi opere«dal 2005 a oggi sono calati. Serve una maggior dotazione di finanza pubblica, anche se alcune cose sono state fatte dal governo così come è necessario cambiare la burocrazia e le modalità di decisione, soprattutto di gestione del consenso, perché ancora oggi opere fondamentali vengono bloccate dai comitati del no».

Da qui le proposte di dotare di veri poteri i commissari straordinari, di semplificare le norme di autorizzazione e incentivare i fondi privati e il project financing». Parole che hanno fatto imbufalire Matteoli, a Genova per lanciare l'agognato Terzo Valico: «Si può fare di più e di meglio e ci proveremo, ma ho la sensazione che la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, abbia visto un altro film».

Se andrà in porto la trattativa tra il governo e l'Alcoa non basterà soltanto un decreto per scontare le tariffe dell'energia nelle isole. E non saranno certamente i soldi, i fondi pubblici, a tenere in Italia colossi come la Glaxo, la Nokia e la Yamaha. Anche perché seppure Giulio Tremonti si convincesse ad aprire i cordoni della Borsa, interverrebbe l'Europa a bloccare lo stanziamento degli aiuti.

Di conseguenza sarebbe più utile guardare gli errori del passato e riprendere quelle riforme abbandonate dalla crisi, perché portano benefici soltanto nel medio e lungo termine, mentre sono accompagnate nell'immediato da forti ripercussioni sociali.

Intanto le liberalizzazioni, per non parlare di un welfare che dà ai padri e non ai figli. «Il punto», conclude Mingardi, «non è soltanto rafforzare gli attuali ammortizzatori sociali o accompagnare i lavoratori alla pensione. Si deve dare la possibilità al lavoratori di ricollocarsi e di riqualificarsi indipendentemente dalle crisi».

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