giovedì 10 dicembre 2009

Raccontare il capitalismo. Una crisi, quattro variabili

Norberg legge la grande bolla finanziaria e denuncia politici, società di rating e imprese
di Alberto Mingardi

Da Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2009


La più duratura delle conseguenze della crisi del Ventinove non è stata, probabilmente, il complesso delle riforme del New Deal – ma, piuttosto, la sua “narrazione”. È stato il modo in cui ci è stato raccontato a consentire che il ricordo del Ventinove alimentasse un flusso di politiche rimaste sostanzialmente immutate, negli obiettivi e negli strumenti, per i quarant’anni successivi. È per questo che più ancora delle nuove norme, o delle nuove autorità di regolazione, ciò che resterà della crisi sarà la storia che ne scriveremo. Ci condizionerà negli anni a venire, ben oltre il momento in cui le immagini dei disoccupati della Lehman con i loro scatoloni di cartone saranno ricordi sbiaditi. Ecco perché in fondo non è curioso che di scrivere la “risposta” al punto di vista dominante, quello dei Paul Krugman e dei Joseph Stiglitz, il Cato Institute di Washington abbia incaricato non un economista ma uno storico delle idee, Johan Norberg, già autore di un libro di successo sulla globalizzazione, In Defense of Global Capitalism (2003).

Con questo Financial Fiasco, in poco più di duecento pagine scritte con piglio narrativo e dense di dettagli rubati alle cronache, Norberg fa il punto sui quattro elementi che, a suo dire, si sono sommati facendo lievitare la grande bolla. Il primo è una politica monetaria espansiva che ha portato a un abbassamento dei tassi d’interesse dal 6 all’1,75% nel 2001, senza che essi tornassero al 5% prima del 2006. Il secondo è il venire al pettine di una politica, peraltro di tradizione pluridecennale, di incentivazione dell’acquisto di immobili, che raggiunse il suo vertice con la trionfale proclamazione della “ownership society” di George W. Bush. Terzo, la perversione di una pratica intelligente (la cartolarizzazione del debito come strumento per “spalmare” i rischi) in conseguenza di incentivi regolatori perversi. Quarto, il malfunzionamento dell’oligopolio delle agenzie di rating, voluto ed alimentato dai regulators.

Ciascuna di queste quattro cause è stata oggetto di analisi magari più precise di quella di Norberg, ma raramente è stata messa in connessione con ognuna delle altre. L’obiettivo dell’autore è “mostrare che ciascuna delle circostanze che hanno condotto alla crisi era il risultato di azioni consapevoli di parte dei decisori in imprese private, agenzie governative, e istituzioni politiche”. La crisi è allora figlia delle conseguenze non intenzionali di decisioni politiche consapevoli. Per Norberg, il basso costo del denaro sta al crac come l’ossigeno allo scoppio di un incendio. Tassi troppo bassi per troppo tempo sono messi in conto, nel gioco della ricostruzione delle responsabilità, al “Maestro” di ieri, Alan Greenspan. L’esplorazione delle conseguenze inintenzionali delle azioni diventa inevitabilmente una serie di medaglioni, da Greenspan all’amministratore delegato di Countrywide Financial travolta dai subprime, Angelo Mozilo, da Hank Paulson a Richard Kovacevich, il chairman di Wells Fargo che fino all’ultimo voleva dire “no, grazie” agli aiuti pubblici.

Laddove però il libro di Norberg convince e appassiona ben più delle altre ricostruzioni oggi in libreria, è nel suo non perdere mai di vista il più vasto scontro di idee, nel quale la crisi non è che un altro campo di battaglia. Se per Norberg, “il capitalismo senza il fallimento è come il cristianesimo senza l’inferno – non ha più modo di motivare gli esseri umani attraverso le loro paure e la loro prudenza”, il suo saggio è una riflessione su come si arrivi a questa cosmologia senza inferi.

La mutazione del “Troubled Assets Relief Program” voluto da Paulson, da programma di acquisto di asset tossici a strumento per gli interventi i più vari (inclusi i bailout nel settore automobilistico), diventa il prisma attraverso cui si racconta il divenire della narrazione, le diverse letture della crisi. È curioso il parallelo con la crisi del Ventinove. Così come è stato George W. Bush a porre in essere quell’insieme di strumenti definiti da Nouriel Roubini “socialismo per Wall Street e i ricchi”, così fu Hoover a tagliare i nastri del New Deal. “Praticamente tutto il New Deal fu estrapolato da programmi avviati da Hoover”, ammise Rex Tugwell, uno dei cervelli del “Brain Trust”.

Paradossalmente, nella sua campagna elettorale del 1932, Roosevelt si impose sull’avversario “accusandolo di essere uno spendaccione, un centralista, un protezionista che voleva aumentare le tasse”. Se Hoover oggi è ricordato come un Presidente “assente” dal fronte più caldo della crisi, è forse a causa del suo Segretario al Tesoro, Andrew Mellon, grande banchiere e filantropo che avrebbe voluto che la crisi facesse il suo corso, e le fiamme dell’inferno ripristinassero col loro ardere incentivi più corretti per l’economia americana. Mellon parlava, ma Hoover non lo stette ad ascoltare – come ricorda anche Murray N. Rothbard (La grande depressione, Rubbettino, 2005).

La contronarrazione di Norberg è minoritaria ma ottimista. Con Hayek ma anche con Keynes, pensa che alla fine siano le idee a menare le danze della storia. L’ultimo capitolo del libro s’intitola “Domani, il capitalismo?”. È indubbio che il genere di capitalismo che conosceremo domani dipenderà in larga misura dal modo in cui ci saremo raccontati il difficile equilibrio fra Stato e mercato, oggi e ieri.

Johan Norberg, Financial Fiasco: How America’s Infatuation with Home Ownership and Easy Money Created the Economic Crisis, Washington DC: Cato Institute, 2009, pp. 208, $ 21.95.

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