domenica 22 novembre 2009

Recessione finita, oppure no Le variabili da tenere d'occhio

di Vittorio Carlini
Il Sole 24 ore
21/11/2009

Il presidente degli Usa Barack Obama, alla fine, ha ammesso quello che diversi economisti, spesso fuori dall'ufficialità, dicono da tempo: esiste il rischio di una ricaduta in recessione. O se si vuole, in maniera più politically corret: la ripresa potrebbe assumere le sembianze di una«W».

A ben vedere nessuno ha la sfera di cristallo e nessuno, nel territorio inesplorato dell'attuale congiuntura, può dire cosa accadrà da qui a pochi mesi. Certo, probabilmente non vedremo la Borsa tornare nella "Fossa delle Marianne" del 9 marzo scorso (almeno si spera). Ma se la rimonta indosserà un abito a forma di «L», «W» oppure di saxofono (sì, gira anche questa nuova figura per delineare il possibile andamento del Pil) sarà sempre questione di maggiore o minore probabilità di uno scenario rispetto all'altro.

Diamo i numeri...
Nel terzo trimestre 2009, la prima lettura del Pil Usa ha indicato una crescita annualizzata del 3,5 per cento. Un bel balzo rispetto al calo del 6,4% tra gennaio e marzo. Non pochi hanno sentenziato: «Basta con i catastrofismi! Il peggio è alle spalle, siamo fuori dalla crisi». Ok, certo. Ma come dimenticare che il governo di Washington ha profuso a piene mani incentivi e sostegno all'economia? «La ripresa - ribattono molti esperti -è dopata. Bisogna attendere quando il sostegno "pubblico" verrà meno». Il passaggio di testimone tra la politica espansiva dell'amministrazione di Obama e la spesa di Mr e Mrs Smith è fondamentale: dovesse fallire sarebbero guai. Allora senza alcuna pretesa di esaustività, per cercare di capire ciò che può essere, alcune variabili, come riporta la stessa CnnMoney, offrono spunti interessanti. Indicatori legati all'economia Usa, ma che valgono anche per altri mercati.

La disoccupazione preoccupa
Il tasso di disoccupazione, in ottobre, è salito al 10,2%, il massimo negli ultimi 26 anni. Un dato che preoccupa la Casa Bianca. È banale ricordare che più le persone perdono impiego e busta paga, più la propensione al consumo diminuisce. Cioè, la domanda aggregata si sgonfia. Non solo: la mancanza di uno stipendio (che è anche una "tragedia" dell'esistenza, non solo economica) impedisce di pagare le rate dei muti, facendo lievitare le insolvenze. Come dimostrano i numeri: il tasso di morosità dei prestititi sulle multiproprietà di Fannie Mae alla fine di settembre è salito allo 0,62%, contro lo 0,16% del 2008; mentre oltre il 14% dei titolari di mutui per l'acquisto di una casa risulta o insolvente o in ritardo di più di tre mesi sui pagamenti. Insomma, la situazione non è rosea. Bisogna ricordare, peraltro, che gli economisti guardano anche ai "payroll", cioè all'andamento delle buste paga. In ottobre ne sono andate perse più di 190mila, un valore maggiore della media di mensile negativa che ha caratterizzato la recessione del 2001. Se il trend continua... sono dolori.

Le vendite al dettaglio: si spera nel Natale
Negli Stati Uniti le vendite al dettaglio hanno mostrato, negli ultimi mesi, alcuni segnali di ripresa: escludendo le auto (che hanno beneficiato di forti incentivi per le vendite), sono salite in cinque sugli ultimi sei mesi. La National retail foundation, peraltro, stima che lo shopping nell'importantissimo periodo natalizio sarà in flessione dell'1% rispetto allo stesso periodo del 2008. Un andamento migliore delle aspettative allontanerebbe, di molto, i timori di stallo dell'economia. Sarà così? Difficile rispondere: la disoccupazione, cui si aggiunge la stretta sul credito, gioca un ruolo fondamentale. Alcuni economisti, anche in Italia, sottolineano che il problema negli Usa è stato proprio quello di un boom della domanda dopata dal debito. «È ora - sostengono - che gli americani siano meno cicale e diventino più formiche». Si tratta di una bella tentazione teorica. Tuttavia, il consumer spending vale circa il 70% dell'attività economica nazionale. David Wyss, capo economista di S&P's ricorda alla CnnMoney : «Se i consumatori, a Natale, (e già durante il Thanksginving, ndr) avranno paura di fronte alle vetrine, potremmo ricadere in recessione». Si potrà obiettare: ma la spinta deve arrivare dall'Europa e dai paesi (ex) emergenti, Cina in testa. Considerazione plausibile ma, è il commento di molti, ipotizzare una ripartenza senza Stati Uniti è utopia.

Il mondo dell'auto: quale futuro dopo gli incentivi?
Poche industrie sono state colpite dalla crisi più di quella dell'auto. Negli Stati Uniti due delle sorelle di Detroit, General Motors e Chrysler, sono state accompagnate sotto la "tutela" del concordato (Chapter 11) per evitarne il fallimento. Negli ultimi mesi le vendite si sono riprese. General Motors è riuscita a raggiungere 28 miliardi di dollari di ricavi, all'incirca 4,9 miliardi in più rispetto a quanto realizzato dalla "Old GM" tra aprile e giugno. E, nonostante abbia iscritto a bilancio una perdita di 1,15 miliardi, la società automobilistica si è detta pronta ad accelerare i rimborsi dei prestiti ricevuti da Washington, dal sindacato dei lavoratori e dal governo canadese. Tuttavia la stessa GM, nelle sue previsioni, non fa voli pindarici: nel quarto trimestre prevede una "moderazione" dell'industria dell'auto, con un tasso stagionale annualizzato di vendite di auto «che dovrebbe scendere a 56,4 milioni di veicoli». Anche negli Stati Uniti si avrà una discesa dei volumi: stimate circa 10,7 milioni di unità. Insomma, la debolezza della domanda nel settore è prevista: fondamentale è monitorare il suo andamento senza il paracadute delle sovvenzioni statali (negli Usa come in Europa)
Caro, caro, caro, petrolio?
Il prezzo dell'oro nero, nell'estate del 2008, aveva raggiunto valori stratosferici: oltre 145 dollari al barile. Se quel livello avesse resistito, sarebbe stato un bel macigno sull'economia: da un lato, la bolletta energetica sarebbe schizzata verso l'alto (con la conseguente inflazione); dall'altro, avrebbe causato non pochi problemi alle famiglie che avrebbero indirizzato la loro (scarsa) spesa verso i consumi energetici (per quanto anch'essi rilevanti nella crescita del Pil). La recessione dell'economia reale ha, però, portato il barile a più miti consigli. Oggi, gli indizi sembrano indicare che il peggio è alle spalle (più che un'affermazione un mantra...) e le quotazioni sono ripartite: si aggirano attorno a 78 dollari. A ben vedere, bisognerà capire cosa "farà" l'enorme liquidità in circolazione immessa dagli istituti centrali (cui si aggiunge la politica dell'easy money). Il petrolio, infatti, alla stregua dell'oro è diventato (anche) un asset finanziario. Molti investitori puntano sul barile di carta alla ricerca di un ritorno sull'investimento: nel caso di un nuovo balzo delle quotazioni bisognerà, quindi, capire quanto è il peso dell'investment demand e quanto, invece, della domanda reale. Solo quest'ultima sarà l'indizio di una possibile ripresa della congiuntura.

Borse mondiali, liquidità e banche centrali
Già, il peso della domanda di carattere finanziario. Che questa abbia, proprio a causa dell'enorme massa di denaro frusciante in circolazione, un'importanza enorme lo si è visto anche dall'andamento dei mercati finanziari. Le Borse hanno messo a segno un rally notevole dal marzo scorso. Si ha un bel dire che i fondamentali erano assolutamente sottostimati e che i prezzi scontavano una "soluzione-fine-di-mondo" che non si è concretizzata. Certo, ci sarà anche questo. Ma è la ricerca di un ritorno sull'investimento (a fronte di tassi a zero negli Usa e a all'1% in Europa) che ha dato gas ai listini. Altrimenti bisognerebbe spiegare perché tutti i settori sono saliti indistintamente, senza alcuna selezione. In particolare le banche, che hanno corso moltissimo e che non passa giorno in cui non si ripeta: hanno fatto utili con il trading e dovranno ancora affrontare perdite e svalutazioni sui crediti. Tuttavia, più che monitorare con assillo l'andamento delle Borse è meglio guardare con attenzione alle mosse delle banche centrali. Proprio ieri la Bce ha compiuto il primo gesto concreto (gli annunci sono acqua gettata contro lo scoglio...) verso la riduzione del denaro prestato generosamente alle banche: «richiederemo - ha detto l'Eurotower - almeno due rating di una istituzione esterna di valutazione del credito» sui titoli garantiti da altre attività (Abs) che le banche (ci) cedono come collaterale. Un piccolo passettino. Un tentativo di prova verso l'exit strategy. L'inizio di drenaggio della liquidità sul mercato è un momento da monitorare con attenzione perché è lì che si potrà valutare meglio la salute del paziente, sia di Wall Street sia di Main Street.

Casa, dolce casa...
Già, Main Street. Quel mondo reale, dove nel 2007 scoppiò la bolla immobiliare che è stata una delle cause della crisi finanziaria (prima) e della recessione (dopo). Il contestuale rialzo dei tassi e il crollo dei prezzi dell'immobiliare hanno, da un lato fatto saltare i mutui subprime (inseriti negli Asset backed security) e, dall'altro, fatto diminuire il valore del bene a garanzia dei mutui stessi. Il tutto con le conseguenze che sappiamo. Nel 2009, nonostante la dura crisi, le vendite di immobili sono aumentate: a settembre hanno raggiunto 5,57 miliardi di dollari, secondo la la National association of realtors. Tuttavia i problemi non mancano. Le insolvenze sui prestiti salgono e, nel commercial housing cui molte banche locali sono esposte, si assiste ad un pericoloso aumento delle morosità. Non solo: le difficoltà dei due enti parastatali Fannie Mae e Freddie Mac, che hanno ricevuto più di 110 miliardi di dollari dal governo di Washington per il loro salvataggio, pone seri problemi su fronte di eventuali ulteriori sostegni pubblici.

Il debito a stelle e strisce... alle stelle
Pensare a iniezioni di denaro pubblico è, infatti, molto difficile. Proprio di recente, l'esecutivo ha pubblicato l'ultimo dato sul debito pubblico. Secondo quanto indicato dal dipartimento del Tesoro Usa, il debito ha superato la soglia dei 12mila miliardi di dollari. Al 16 novembre 2009 ammonta a 12.031,30 miliardi contro 11.999,51 miliardi il giorno prima. La prima soglia simbolica dei 10mila miliardi era stata superata nel settembre 2008. Dal primo novembre 2009 l'indebitamento è cresciuto di oltre 138 miliardi e si sta avvicinando rapidamente al tetto di 12.104 miliardi (circa l'80% del Pil Usa 2008) autorizzato dal Congresso.

Insomma i dati, le variabili da osservare (al di là delle troppe dichiarazioni di questa o quella autorità) possono essere diversi (l'elenco potrebbe continuare...). Numeri utili per cogliere qualche indizio in grado di farci capire cosa può succedere. Ma sempre nella consapevolezza che le previsioni, in economia, sono di per sé fallaci. E chi sostiene il contrario è in mala fede o un illuso.

vittorio.carlini@ilsole24ore.com

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