domenica 8 novembre 2009

Quando i governi crollano in Borsa

Conti in rosso. Lo "stimolo" di Stato ha prodotto qualche segnale positivo negli Usa. E molte incertezze a Wall Street
di Carlo Lottieri

Liberal
4/11/2009

Dopo una settimana (la scorsa) piuttosto negativa, con la borsa italiana che ha perso più del 4%, anche l'inizio di novembre non è dei migliori. E pare proprio che la crescita dei corsi azionari avutasi da marzo 2009 ad oggi sia finita. Come rileva anche il nuovo numero di Barron's, molto dipende dalla politica statunitense. Nel Senato, in particolare, è forte l'inquietudine su cosa potrà succedere al mercato della casa quando il programma di finanziamenti e agevolazioni fiscali avrà esaurito la sua azione. Simile schema in Europa, dove il settore automobilistico ha vissuto un quarto d'ora di serenità grazie agli incentivi pubblici, ma è evidente che prima o poi bisognerà tornare alle logiche di mercato. Con questo non si vuol sostenere che necessariamente le borse siano destinate a scoppiare a breve (i manager interpellati da Barron's restano sostanzialmente rialzisti), ma certo la situazione resta difficile.
Ogni volta che la borsa scende, a finire sul banco degli imputati è il mercato. La responsabilità è addebitata agli speculatori e a un'economia "fuori controllo" che non risponde alle decisioni dei politici. L'analisi però fa sorridere, perché quando si osservano più da vicino le cose è facile vedere come gli speculatori faranno anche la loro parte, ma molto superiore - per ragioni evidenti è il ruolo perturbatore dei governi. Una cosa riesce sempre più chiara: e cioè che gli stimoli di Stato hanno il fiato corto e che di "exit strategy", per ora, non si parla.
Solo qualche giorno fa la stessa Casa Bianca ha ammessso che l'insieme delle iniziative predisposte dall'amministrazione ha creato solo 540 mila posti. Poiché il costo complessivo degli stimoli è di 787 miliardi di dollari, ciò significa che fino ad oggi ogni posto è costato un milione di dollari, che impiegati altrove avrebbero - con ogni probabilità - dato frutti migliori. Si può sperare che nei mesi a venire quella semina produca altro raccolto, che le aspettative più rosee (3,5 milioni di posti) non sembrano giustificare un investimento tanto massiccio. Sotto, bisognerebbe cominciare a comprendere quanto sia perturbante l'azione dei governi. E' significativo che ormai gli analisti parlino apertamente di bolle, quale conseguenza della debolezza del dollaro e dell'espansione monetaria. È questa, ad esempio, la tesi di Roubini, che punta il dito molto più su chi crea questo sistema di incentivi che non con chi, come ogni operatore finanziario, in tale quadro si muove e da questa situazione punta a trarre benefici. Poi è chiaro che scelte politiche espansive e redistributive come quelle che con particolare intensità hanno dominato l'economia occidentale negli ultimi due anni sono anche il risultato di pressioni lobbystiche. Le grandi banche e aziende cospirano per avere un quadro legale che faciliti la loro iniziativa e permetta di fare soldi agevolmente. Ma allora non è proprio il "greedy capitalist" che va messo sotto processo, ma semmai quel formidabile anfibio a metà tra politica ed affari che domina le grandi capitali.
Gli autentici speculatori di mercato che comprano a poco nella speranza di vendere a molto possono al più fare profitti alle spalle del"parco buoi", quando riescono a muovere quantità ingenti di risorse e trascinano su e giù chi farebbe bene a mettere i propri soldi sotto il materasso. Ma non sono loro all'origine delle maggiori turbolenze. Dietro ai guai borsistici, non c'è insomma la mano invisibile di Adam Smith, ma invece la mano assai ben visibile della politica: quel concentrato di interessi, populismo e volontà di dominio che già ha prodotto la Grande Depressione e che ora rischia di cronicizzare la crisi attuale.

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