sabato 26 settembre 2009

Su Barroso ha perso Schulz

EUROPA - 25 settembre 2009


Gianluca Susta

Con la lucidità e l’intelligenza che tutti gli riconoscono e che noi abbiamo potuto apprezzare da vicino in questi primi tre mesi al parlamento europeo, Luigi Berlinguer risponde – seppur indirettamente – al fondo di questo giornale di qualche giorno fa: «Cosa ci sta a fare il Pd in Europa?». Fondo nel quale si giudicava con non consueta severità il voto di astensione della delegazione italiana... rectius: della componente “democratica”, sulla fiducia a Barroso.
Non sono intervenuto prima perché “la consegna” era quella di rimanere uniti, di non fare polemiche in questa fase congressuale molto delicata, di non trarre conclusioni affrettate all’inizio del cammino, per quanto significativi fossero gli episodi considerati.
L’intervento di Luigi Berlinguer mi libera dalla “consegna” e, se non altro perché dell’Alleanza progressista dei socialisti e democratici al parlamento europeo sono vicepresidente, ritengo doveroso “rendere conto” e commentare.
Con le colleghe Silvia Costa e Patrizia Toia non ho condiviso la scelta di astenerci e l’abbiamo manifestato chiaramente quando il gruppo è stato chiamato a pronunciarsi, anche se, essendo cresciuti alla scuola di partito, abbiamo successivamente dichiarato che avremmo accettato la disciplina di “delegazione” (italiana, democratica).
Ciò non toglie che le ragioni del nostro dissenso verso la gestione dell’intera vicenda e verso la scelta per l’astensione, restino interamente valide.
La conclusione di questa partita politica – che registra l’indubbia sconfitta di noi tutti, ma in particolare di Martin Schulz – non è altro che il frutto del perpetuarsi, anche dopo le elezioni di giugno, del metodo consociativo che ha governato finora le istituzioni europee, metodo che forse era l’unico possibile fino a giugno, ma che, anche alla luce del risultato delle elezioni e della prossima (incrociamo le dita per il referendum irlandese) entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è superato e contrario al rafforzamento dell’Europa. Di fronte all’affermarsi di euroscettici, neonazionalisti antieuropeisti e conservatori, “l’idea” d’Europa deve essere una bandiera che qualcuno deve prendere in mano per ravvivare il dibattito sulla nuova governance mondiale (di cui l’Ue è un attore importante), sul multilateralismo, sulla difesa ambientale del pianeta, sul riequilibrio della distribuzione della ricchezza nel mondo. Il dopo elezioni si presentava come il tempo in cui la forza che ha sempre avuto la pretesa di essere l’unica forza riformista del parlamento europeo avrebbe dovuto rompere con il consociativismo, mettere letteralmente intorno al tavolo i partiti europeisti liberaldemocratici, ambientalisti e socialisti e proporre una strategia comune per la guida del parlamento e della commissione esecutiva supportata da un adeguato programma di azione che avesse come “cuore” non tanto la ricerca di questo o quel parziale risultato sul sociale (importante, ma perseguito con un approccio ideologico superato) ma l’“Europa in sé”, che va spiegata innanzitutto come un grande ideale. Si è cercato, invece, ancora una volta, il piccolo cabotaggio, le chiacchierate con Verhofstadt (capogruppo liberale, già ex premier belga) o con Daul (capogruppo Ppe) sulla ripartizione delle cariche in parlamento, ci si è limitati a un po’ di reprimende nei confronti dei capi di governo “compagni” e a ottenere qualche concessione sul sociale da Barroso.
Sono mancate la “Politica” e la consapevolezza che i socialisti hanno subito una sconfitta bruciante prima nel voto popolare e poi per la scelta di astenersi in nome di una “unità” del gruppo di cui non si è capito bene il fine, visto che metà del gruppo stesso, poi, non ha votato secondo le decisioni assunte.
È prevalso nei socialisti un atteggiamento di presuntuosa autosufficienza, quella che ha portato il Psf a sbeffeggiare Bayrou in Francia e a spalancare le porte al risultato (16%) dei Verdi di Cohn-Bendit (che sui giornali italiani ci fa le prediche di come si debba costruire un’alternativa alla destra diversa, che arrivi «fino al centro »), a non creare ponti con i Liberali nel Regno Unito (i più europeisti tra gli europeisti a Strasburgo!), a considerare di destra i Liberali eredi di Genscher in Germania (che pure governarono con Helmut Schmidt), una presuntuosa autosufficienza che si sta traducendo in una sorta di impotenza strutturale del centro sinistra in Europa (salvo eccezioni).
È in questo quadro che va data la risposta alla domanda «cosa ci sta a fare il Pd in Europa»? Non ho accettato di fare il vicepresidente di una “cosa” vecchia riverniciata.
Oggi, questa “cosa” appare, purtroppo, così! Lo è nella tattica (che ci ha portato a una – ripeto – bruciante sconfitta); lo è nella strategia (la costruzione dell’Europa sociale passa attraverso il rilancio dell’idea di Europa politica – c’è un’Europa diversa da quella che ci propina Barroso! – e non dalle mediazioni per “monetizzare” risultati, pur importanti, sulle singole direttive sociali), lo è nella guida, troppo individualista. Il Pd è la novità (lo dice bene Luigi Berlinguer) e la novità richiede discontinuità (lo dico con amicizia, anche se senza ipocrisie, a chi si sente fortemente legato all’identità socialista che il gruppo ex Pse rappresenta) e noi, finora, non abbiamo segnato discontinuità e quando qualcuno ci ha provato ha trovato o l’ostracismo di Schulz o il dissenso della maggioranza dei colleghi.
Occorre mettere in campo subito iniziative trasversali, di “unità riformista” con i parlamentari liberaldemocratici dell’Alde (molti hanno votato contro Barroso), con i Verdi di Cohn-Bendit, con alcuni indipendenti che ci sono tra i non iscritti, con quella parte della tradizione democratico-cristiana, assolutamente minoritaria, ma che esiste ancora e che può ritrovarsi su una piattaforma di vero europeismo, il tutto nella consapevolezza che al di fuori del “nostro” gruppo ci sono molti convinti europeisti che credono nel “modello sociale europeo”, ma che chiedono anche più coraggio, meno “consociativismo”, sulla new e green economy, sui diritti, sull’immigrazione, sul rafforzamento delle istituzioni europee.
Stiamo vivendo il paradosso di un’Europa che conta sempre di più, che influenza sempre di più le legislazioni nazionali, che è invocata dal mondo come punto di equilibrio e stabilità anche dopo questa crisi finanziaria (illuminante per me è stato il confronto con parlamentari Usa due settimane fa in commissione economica e monetaria del parlamento europeo) e qui, invece, nessuno brandisce davvero, anche con radicalità, la bandiera dell’Europa politica. Occorre aprire le porte troppo chiuse di Bruxelles e di Strasburgo, occorre far entrare il “vento” che soffia dal basso, occorre essere anche un po’ “pierini”, altrimenti, mentre noi discutiamo se esiste ancora la “spinta propulsiva” del socialismo, l’Europa e gli Europei se ne corrono altrove.

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