sabato 19 settembre 2009

Morire per Kabul?

Quando la prosecuzione di una politica richiede molto tempo, prima o poi la gente dimentica le motivazioni per le quali fu adottata
di Antonio Martino

L’attentato nel quale hanno perso la vita sei nostri giovani militari a Kabul ha indotto taluno a chiedere il nostro ritiro dall’Afghanistan. Molte cose si potrebbero dire al riguardo ma mi limiterò a quelle che ritengo più significative. La prima considerazione è di metodo: in democrazia l’opinione pubblica è disposta ad accettare decisioni anche drastiche e a sostenerle solo per un periodo limitato. Quando viceversa la prosecuzione di una politica richiede molto tempo, prima o poi la gente dimentica le motivazioni per le quali fu adottata e fa progressivamente venire meno il suo appoggio.

Gli esempi sono numerosi e non riguardano soltanto la politica estera e di difesa. In politica monetaria, per esempio, si è dibattuto a lungo se fosse migliore un rientro graduale dall’inflazione o se fosse preferibile un decisione drastica che fermasse in breve tempo l’ascesa dei prezzi. I gradualisti sostenevano che bloccare di botto l’inflazione avrebbe provocato conseguenze negative almeno nell’immediato perché l’adattamento delle persone al mutato clima monetario richiede tempo; Hayek e gli altri fautori della terapia d’urto sostenevano che se il rientro dall’inflazione fosse durato a lungo non avrebbe potuto avere successo perché il “partito inflazionista”, costituito da quanti ritenevano di aver guadagnato dall’erosione monetaria, avrebbe impedito che la terapia venisse prolungata fino al successo finale.

Del resto, i meno giovani ricordano quale sia stato l’esito della escalation in Vietnam: un’azione decisa e rapida sarebbe stata approvata dagli americani, il lento e progressivo incremento delle forze armate in teatro finì col consentire agli oppositori dell’intervento di bloccarlo. Anche da noi, anche questa volta, la tragedia di Kabul ha resuscitato il partito di quanti non credono che valga la pena morire per Kabul. Consiglierei loro di riflettere sull’esito dello stesso slogan (“morire per Danzica?”) nella seconda guerra mondiale.

Sono passati sette anni dall’inizio delle operazioni in Afghanistan e sembra che le ragioni di quell’intervento siano state dimenticate. Quello sfortunato paese era dominato dal regime teocratico e medievale dei talebani, le libertà erano state soppresse completamente e la rete terroristica islamista aveva trovato conveniente farne la sua base operativa. Il terrorismo islamista era allora ed è tuttora un pericolo mortale non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo, specialmente l’Europa. Eppure a sentire i sinistri pacifisti si tratterebbe di una “guerra americana” combattuta dagli americani nell’interesse del loro Paese. Uno sguardo alla carta geografica convincerebbe chiunque che l’Afghanistan per ragioni di prossimità costituisce un pericolo molto più per gli europei che non per gli americani.

E’ vero che la missione internazionale dura ormai da anni ma solo gli sprovveduti potevano credere che sarebbe stata facile e breve. Quando ero ministro della Difesa venni dileggiato dai sinistri per aver sostenuto che la missione irakena era molto meno complicata di quella afgana, che avrebbe richiesto un impegno massiccio per almeno dieci anni. Il tempo è stato galantuomo: i fatti mi hanno dato ragione.

Infine, ma non meno importante, un Paese è grande solo se è disposto ad accollarsi le responsabilità connesse alla sua importanza. Non possiamo essere membri della Nato, scaricare sull’Alleanza il costo della nostra difesa (la media dei paesi europei membri della Nato spende il 2,4% del pil per la difesa, noi lo 0,8%!), cullarci nell’idea che se le cose andassero male altri verrebbero a salvarci e persino rifiutare di impegnarci in una missione comune di interesse generale. Se, invece di mandare oltre duemila militari in Libano in una missione di dubbia efficacia, invece di spedire 500 paracadutisti in Campania per compiti di ordine pubblico, invece di dilapidare il nostro denaro in enti inutili come le Provincie, mandassimo più uomini e mezzi in Afghanistan e dotassimo le nostre forze armate delle risorse di cui hanno bisogno, avremmo diritto di crederci un grande Paese. Stando così le cose invece faremmo meglio a riporre il nostro orgoglio nazionale: non abbiamo titolo per meritare i nostri straordinari militari.

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