da Corriere della Sera del 9 giugno 2009, pag. 50
di Pierluigi Battista
Celebrata la festa del raddoppio dei voti, gustata l’ebbrezza dei brindisi e delle congratulazioni, ora Antonio Di Pietro dovrà decidere che fare nell’età adulta della sua politica. Da interprete di umori e malumori che ribollono negli strati più profondi della società italiana è diventato un protagonista stabile del palcoscenico nazionale. Da alleato minore del Pd ora rivendica addirittura la supremazia nell’(eventuale) alleanza. È stato abile a incarnare la figura dell’ «anti-Berlusconi». Ha vinto. Ma ora ha quattro anni per non dilapidare il patrimonio accumulato.
Di Pietro ha già detto che vuole passare dall’«opposizione» all’«alternativa». Che vuol dire? Nemico giurato del politichese, paladino del linguaggio ruvido e franco, stavolta ha usato una formula allusiva per dire che adesso nel fronte opposto a quello di Berlusconi non vuole essere più un ospite ma un azionista influente che detta le condizioni. Il Pd di Veltroni era nato con una «vocazione maggioritaria», come un partito che non si sarebbe limitato a mettere caoticamente in un unico calderone tutti i segmenti antiberlusconiani. Di Pietro vuole essere la smentita vivente di questo schema. Il suo modello è semplice, binario, manicheo: da una parte il Caimano, dall’altro il popolo di Piazza Navona che sposa ogni oltranzismo pur di alimentare il duello con l’eterno Nemico, anche a costo, come è accaduto, di partire all’attacco del Quirinale. E se Berlusconi, malgrado la frenata di queste elezioni, ha la maggioranza relativa dei voti degli italiani, Di Pietro si sente a suo agio nell’Italia che di Berlusconi, persino antropologicamente, rifiuta tutto. Con cui non vuole scendere a patti. Di cui vuole liberarsi, con le buone o con le cattive.
Questo è il motore primo, la carta d’identità del dipietrismo. Con questo volto ha raggiunto in pochi anni l’8 per cento. Ha mescolato insieme storie e biografie diverse, sottomettendole alla personalità prepotente del fondatore unico. Ha miscelato il giustizialismo con il radicalismo culturale girotondista, il populismo con il leaderismo spinto. Ha vinto con un partito cucito a sua misura. Adesso Di Pietro dice che vuole cambiare insegne per ribattezzare una casa più grande del rustico messo su nel corso di questi anni. Ma sinora l’Italia dei valori si è totalmente identificato con il suo leader. Ha selezionato una classe dirigente raccogliticcia e in talune contrade, Campania in primis, di una qualità imbarazzante, purché ligia alle indicazioni del Capo. Ha spezzato la linea divisoria tra il Di Pietro pubblico e quello privato. Ha gestito il partito come un affare di famiglia, scegliendo come delfino il figlio e trasformando le casse dell’Italia dei valori in una gestione familiare, dall’intestazione degli immobili alla nominatività delle cariche sociali. Ma ha aggregato con duttilità ogni scheggia di scontento, ogni pezzo del fronte del rifiuto. Ha goduto del favore di un network mediatico-giornalistico che si è forgiato nel fuoco delle battaglie politico- giudiziarie. Ha conservato il favore della pattuglia più militante e agguerrita della magistratura. Con la sua parlata ricercatamente popolare e per niente succube delle convenzioni sintattiche e grammaticali non ha raffreddato nemmeno le simpatie degli intellettuali più raffinati che hanno fatto dell’antiberlusconismo il nutrimento della loro estetica. Con la sua rozzezza compiaciuta e ostentata ha dato voce a una corrente energica del populismo italiano.
Ma ora? Leoluca Orlando, che in questi anni gli è stato a fianco con discrezione ma con efficacia, ha insistito nei commenti sul trionfo elettorale sulla consunzione dei «recinti» che hanno ingabbiato per decenni la politica e l’ideologia europee. Di Pietro è da sempre estraneo a questi recinti: a cominciare da quelli che etichettano convenzionalmente la destra e la sinistra.
Culturalmente e antropologicamente Di Pietro non è «di sinistra» e chi nella sinistra lo detesta sottolinea che in realtà il dipietrismo è un pezzo di destra law and order conficcato nell’accampamento della sinistra classica. Ma, grazie a questa spregiudicatezza ideologica, ha raggiunto le vette elettorali di questi giorni. Solo che, come si è visto in questa competizione europea, anche nell’elettorato del Pd la tentazione ideologica del dipietrismo comincia a diventare una potentissima calamita, lo sfogo di una frustrazione, il simbolo di un desiderio spasmodico di opposizione che non trova sbocco nei volti e nei rituali del Partito democratico. E così Di Pietro sta diventando un doppio incubo del Pd: un alleato troppo indocile e adesso anche un cannibale che si ciba insaziabilmente della carne democratica ancora alla ricerca di un leader.
Ma adesso comincia per Di Pietro un’altra storia: quella decisiva. Se Di Pietro sceglie di avere un ruolo decisivo per la costruzione dell’«alternativa», non può permettersi di prendere il Pd per il collo, non tener conto che comunque quel partito ha numericamente una forza elettorale tre volte superiore a quella dell’Italia dei valori. Se deve stabilire un’alleanza, deve guardare all’esempio della Lega, che vincola la stabilità del suo rapporto con il Pdl al raggiungimento di alcuni obiettivi fondamentali (federalismo, sicurezza, immigrazione). E non a quello che ha logorato l’alleanza prodiana con Rifondazione, conflittuale e rivendicativa su ogni capitolo dell’attività di governo. Non può chiedere al Pd di adottare la linea dell’Italia dei valori, ma può costringerlo a ingaggiare battaglie comuni. Altrimenti il pieno dei voti di questi giorni resterà senza uso e senza sbocco. E resterà solo il controcanto del Caimano: un esercizio di narcisismo politico e niente più. Dipende solo da lui.
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