sabato 13 giugno 2009

Di Pietro e l'età adulta della politica: costruzione dell'alternativa o narcisismo?

da Corriere della Sera del 9 giugno 2009, pag. 50

di Pierluigi Battista


Celebrata la festa del raddoppio dei voti, gustata l’ebbrezza dei brindisi e delle congratulazioni, ora Antonio Di Pietro dovrà deci­dere che fare nell’età adulta del­la sua politica. Da interprete di umori e ma­lumori che ribollono negli strati più profon­di della società italiana è diventato un prota­gonista stabile del palcoscenico nazionale. Da alleato minore del Pd ora rivendica addi­rittura la supremazia nell’(eventuale) allean­za. È stato abile a incarnare la figura del­l’ «anti-Berlusconi». Ha vinto. Ma ora ha quattro anni per non dilapidare il patrimo­nio accumulato.

Di Pietro ha già detto che vuole passare dall’«opposizione» all’«alternativa». Che vuol dire? Nemico giurato del politichese, paladino del linguaggio ruvido e franco, sta­volta ha usato una formula allusiva per dire che adesso nel fronte opposto a quello di Berlusconi non vuole essere più un ospite ma un azionista influente che detta le con­dizioni. Il Pd di Veltroni era nato con una «vocazione maggioritaria», come un parti­to che non si sarebbe limitato a mettere cao­ticamente in un unico calderone tutti i seg­menti antiberlusconiani. Di Pietro vuole es­sere la smentita vivente di questo schema. Il suo modello è semplice, binario, mani­cheo: da una parte il Caimano, dall’altro il popolo di Piazza Navona che sposa ogni ol­tranzismo pur di alimentare il duello con l’eterno Nemico, anche a costo, come è ac­caduto, di partire all’attacco del Quirinale. E se Berlusconi, malgrado la frenata di que­ste elezioni, ha la maggioranza relativa dei voti degli italiani, Di Pietro si sente a suo agio nell’Italia che di Berlusconi, persino an­tropologicamente, rifiuta tutto. Con cui non vuole scendere a patti. Di cui vuole libe­rarsi, con le buone o con le cattive.

Questo è il motore primo, la carta d’iden­tità del dipietrismo. Con questo volto ha raggiunto in pochi anni l’8 per cento. Ha mescolato insieme storie e biografie diver­se, sottomettendole alla personalità prepo­tente del fondatore unico. Ha miscelato il giustizialismo con il radicalismo culturale girotondista, il populismo con il leaderi­smo spinto. Ha vinto con un partito cucito a sua misura. Adesso Di Pietro dice che vuole cambiare insegne per ribattezzare una casa più gran­de del rustico messo su nel corso di questi anni. Ma sinora l’Italia dei valori si è total­mente identificato con il suo leader. Ha se­lezionato una classe dirigente raccogliticcia e in talune contrade, Campania in primis, di una qualità imbarazzante, purché ligia al­le indicazioni del Capo. Ha spezzato la linea divisoria tra il Di Pietro pubblico e quello privato. Ha gestito il partito come un affare di famiglia, scegliendo come delfino il fi­glio e trasformando le casse dell’Italia dei valori in una gestione familiare, dall’intesta­zione degli immobili alla nominatività del­le cariche sociali. Ma ha aggregato con dut­tilità ogni scheggia di scontento, ogni pez­zo del fronte del rifiuto. Ha goduto del favo­re di un network mediatico-giornalistico che si è forgiato nel fuoco delle battaglie po­litico- giudiziarie. Ha conservato il favore della pattuglia più militante e agguerrita della magistratura. Con la sua parlata ricer­catamente popolare e per niente succube delle convenzioni sintattiche e grammatica­li non ha raffreddato nemmeno le simpatie degli intellettuali più raffinati che hanno fatto dell’antiberlusconismo il nutrimento della loro estetica. Con la sua rozzezza compiaciuta e osten­tata ha dato voce a una corrente energica del populismo italiano.

Ma ora? Leoluca Orlando, che in questi anni gli è stato a fianco con discrezione ma con effica­cia, ha insistito nei commenti sul trionfo elettorale sulla consunzione dei «recinti» che hanno ingabbiato per decenni la politi­ca e l’ideologia europee. Di Pietro è da sem­pre estraneo a questi recinti: a cominciare da quelli che etichettano convenzionalmen­te la destra e la sinistra.

Culturalmente e antropologicamente Di Pietro non è «di sinistra» e chi nella sini­stra lo detesta sottolinea che in realtà il di­pietrismo è un pezzo di destra law and or­der conficcato nell’accampamento della si­nistra classica. Ma, grazie a questa spregiu­dicatezza ideologica, ha raggiunto le vette elettorali di questi giorni. Solo che, come si è visto in questa competizione europea, an­che nell’elettorato del Pd la tentazione ideo­logica del dipietrismo comincia a diventare una potentissima calamita, lo sfogo di una frustrazione, il simbolo di un desiderio spa­smodico di opposizione che non trova sboc­co nei volti e nei rituali del Partito democra­tico. E così Di Pietro sta diventando un dop­pio incubo del Pd: un alleato troppo indoci­le e adesso anche un cannibale che si ciba insaziabilmente della carne democratica an­cora alla ricerca di un leader.

Ma adesso comincia per Di Pietro un’al­tra storia: quella decisiva. Se Di Pietro sce­glie di avere un ruolo decisivo per la costru­zione dell’«alternativa», non può permetter­si di prendere il Pd per il collo, non tener conto che comunque quel partito ha nume­ricamente una forza elettorale tre volte su­periore a quella dell’Italia dei valori. Se de­ve stabilire un’alleanza, deve guardare al­l’esempio della Lega, che vincola la stabilità del suo rapporto con il Pdl al raggiungimen­to di alcuni obiettivi fondamentali (federali­smo, sicurezza, immigrazione). E non a quello che ha logorato l’alleanza prodiana con Rifondazione, conflittuale e rivendicati­va su ogni capitolo dell’attività di governo. Non può chiedere al Pd di adottare la linea dell’Italia dei valori, ma può costringerlo a ingaggiare battaglie comuni. Altrimenti il pieno dei voti di questi giorni resterà senza uso e senza sbocco. E resterà solo il contro­canto del Caimano: un esercizio di narcisi­smo politico e niente più. Dipende solo da lui.

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