PIETRO GARIBALDI
da La Stampa
23/5/09
Più che all’andamento dei mercati finanziari e della produzione industriale, le preoccupazioni dei cittadini e delle famiglie italiane sono legate ai consumi e al posto di lavoro. È giusto ed è inevitabile che sia così. Nonostante i timidi segnali di ripresa, che devono comunque essere letti come una riduzione della velocità di caduta, quando guardiamo la situazione dal punto di vista di famiglie e lavoratori non possiamo affatto escludere che il picco della crisi debba ancora venire.
L’occupazione della grande impresa continua a diminuire e l’utilizzo della cassa integrazione ha raggiunto i livelli del 1993, l’unico anno del dopoguerra in cui i consumi aggregati dei cittadini sono diminuiti. Nella prima metà del 2009 circa 350 mila lavoratori hanno fatto ricorso alla cassa integrazione e un’ondata di disoccupazione crescente potrebbe colpire il Paese nella prossima estate. L’Unione Europea prevede infatti una crescita della disoccupazione dal 7 per cento al 9 per cento entro il 2010.
La cassa integrazione garantisce fortunatamente un sostegno al reddito, ma richiede comunque alle famiglie una riduzione delle proprie entrate.
Le famiglie tendono spontaneamente e autonomamente a mantenere un profilo di consumo costante anche quando il livello di reddito diminuisce. Un comportamento di questo tipo è possibile grazie all’utilizzo dei propri risparmi. Ma quando i risparmi sono pochi o il reddito diminuisce in modo troppo rapido, diventa obbligatorio ridurre i consumi. Gli ultimi dati sulle vendite al dettaglio riflettono un calo del 5 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È il dato peggiore dal 1997 ed è probabile che le famiglie italiane stiano davvero riducendo i propri consumi.
I 350 mila cassaintegrati sono giustamente preoccupati per il loro futuro e devono accettare una drammatica riduzione del reddito. Gli stessi lavoratori cassaintegrati devono però riconoscere di vivere all’interno di uno Stato Sociale che garantisce loro un ammortizzatore sociale che gli permette di convivere e superare un periodo difficilissimo. I più di 4 milioni di lavoratori precari sono messi molto peggio. Non abbiamo ancora statistiche ufficiali e non le avremo fino al prossimo giugno, ma i primi segnali suggeriscono una situazione quasi drammatica. Con la scadenza del contratto a termine o del contratto a progetto, la maggior parte dei lavoratori precari non ha alcuna forma di sostegno al reddito, al di là del simbolico contributo una tantum di 1500 euro introdotto dal governo a fine 2008. Molti di questi lavoratori precari sono giovani e riescono a sopravvivere grazie alla rete sociale loro offerta dalla famiglia. Chi non ha una famiglia di riferimento, rischia invece la povertà.
Lo Stato non può permettersi di abbandonare questi lavoratori. Il governo in carica gode di un vasto consenso. La necessità e l’importanza di aprire il capitolo delle riforme strutturali sembrano fortunatamente essere tornate di attualità, come riconosciuto dal ministro dell’Economia sulle colonne della Stampa. La riforma degli ammortizzatori sociali non può e non deve aspettare l’ondata di disoccupazione in arrivo. Introdurre un sussidio unico di disoccupazione a cui si ha accesso indipendentemente dal posto di lavoro si può e si deve. Rispetto alle risorse oggi stanziate per gli ammortizzatori sociali, servirebbero circa 8 miliardi aggiuntivi. Finita la recessione, il sussidio unico si potrebbe poi finanziare attraverso un contributo fiscale su tutti i posti di lavoro pari al tre per cento, poco più alto del 2,5 per cento oggi esistente. Il governo ha più volte sostenuto di aver già stanziato, con l’aiuto delle Regioni, una cifra non lontana dagli 8 miliardi necessari. Innanzitutto non è affatto chiaro che queste risorse arriveranno alle famiglie, anche perché necessitano di leggi regionali non ancora approvate. E in ogni caso queste risorse non arriveranno ai precari, poiché il governo ha deciso di destinarle in via discrezionale ai settori o alle imprese che di volta in volta ne avranno bisogno.
Le riforme possono a volte essere impopolari. Riformare le pensioni è un processo molto difficile e dovrà necessariamente avvenire nell’interesse generale contro la volontà dei lavoratori vicino alla pensione. Riformare gli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti i lavoratori, non dovrebbe trovare resistenze. La domanda è sempre la stessa: se non si riforma nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra, allora quando?
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