giovedì 7 maggio 2009

Molte parole thatcheriane pochi fatti

Fine di un'era? In realtà il thatcherismo non si è mai affermato fino in fondo, spesso si è fatto solo ciò che si era costretti a fare.
di Alberto Mingardi
Da Il Riformista, 7 maggio 2009

C'è una narrazione dominante, sulla crisi economica in corso, che miete grande fortuna nell'opinione pubblica. Secondo la chiave di lettura che fornisce, nei mesi scorsi sarebbero venuti al pettine tutti i nodi «dell'ideologia del laissez-faire di Ronald Reagan e Margaret Thatcher», avremmo finalmente raccolto i frutti maturi di una «deregulation selvaggia» peculiarmente americana, sarebbe caduta l'illusione per cui «l'interesse privato delle istituzioni finanziarie proteggesse le azioni dei risparmiatori». I tre virgolettati sono di Joaquin Almunia, Mario Monti e Alan Greenspan. Ce n'è mille, ma che tre personalità di indubbio rilievo trasmettano vibrazioni di questo tipo è significativo.

Spiega se non altro come mai parlare di «fine dell'era thatcheriana», come ha fatto sul Financial Times Gideon Rachman, in realtà è ridicolo. Gli ultimi trent'anni non hanno visto dipanarsi le magnifiche sorti e progressive del liberismo più ideologico e militante. Il che non sminuisce in nulla, e anzi esalta, l'eccezionalità dell'esperimento thatcheriano.
La straordinarietà dell'esperienza di Margaret Thatcher sta proprio nel fatto che la Lady di Ferro volle portare a Downing Street una visione del mondo precisa. Leader inconsueta, e anomala in tutti i sensi per i Tories (donna, e per giunta non delle classi alte), la Thatcher aveva un disegno consapevole di riduzione dell'intervento pubblico. Non riuscì a fare tutto quello che avrebbe desiderato: lo Stato sociale le sopravvisse intatto, persino nelle sue articolazioni più patentemente disfunzionali (il national health service). Non così lo Stato imprenditore. È di un ministro thatcheriano il conio della parola "privatizzazione". Sono di quegli anni i primi esperimenti di "liberalizzazione", ovvero di transizione al mercato di settori fino ad allora presidiati dall'intervento pubblico.

Ma questo processo non ha seguito un andamento omogeneo. Noi avvertiamo il thatcherismo come vicino e presente, sentiamo il fiato sul collo del "mercatismo", semplicemente perché l'Italia non ce l'ha avuto. Un Paese bloccato, incapace di fare le riforme, che quando le fa ci si mette controvoglia e solo in virtù di un vincolo esterno, ripropone all'infinito, nella retorica politica, la necessità di cambiare. Il resto del mondo ci pare "liberista" per contrasto: perché noi non lo siamo.
Negli ultimi vent'anni, però, le idee di mercato non hanno certo trovato campo libero. Da una parte, esse hanno guadagnato in legittimità, sono entrate con maggior forza nel discorso pubblico. Dall'altra, hanno prodotto più un ammodernamento della retorica dei partiti di sinistra (si pensi più che a Clinton, liberale suo malgrado per il contrappeso di un Congresso conservatore, a Blair), che un cambiamento delle policies.
Certo, si è tamponata la disordinata espansione dello Stato che era stata la cifra di tutto il Novecento. Si è forse invertito l'onere della prova: si è compreso che la produzione politica di norme non deve necessariamente caratterizzare ogni ambito della vita associata. Ma lo Stato non ha fatto grandi passi indietro. La riduzione della pressione fiscale è stata episodica e nemmeno in America si è accompagnata a un taglio sostanziale della spesa pubblica. La "deregulation" è spesso stata prodromica a una regolazione di tipo diverso. Le ultime grandi privatizzazioni datano i primi anni Novanta.

Il thatcherismo ha avuto proseliti nel mondo, nell'Europa dell'Est in particolare. Ma i casi in cui si è visto un progetto organico di riduzione delle prerogative del pubblico sono pochissimi. Il più delle volte, si è fatto solo quello che non si poteva che fare. Quando la pressione fiscale è talmente alta da disincentivare in modo pervasivo le energie vive dell'economia, per riavviare la crescita economica è necessario ridurla. Il thatcherismo, che pure ridusse di sessanta punti percentuali l'aliquota massima dell'imposta sul reddito, non è stato "solo" una prassi, o una retorica, di tagli fiscali. È stato un tentativo di rieducazione di una società, quella inglese, alla responsabilità individuale. Si provò l'ebbrezza del ritorno all'età vittoriana: la riduzione delle imposte, la semplificazione per agevolare l'imprenditorialità, la privatizzazione delle grandi società che si accompagna ad una diffusione della proprietà delle stesse, sono i tre vertici del triangolo di una "società di proprietari".

In democrazia, sia la pressione dell'elettorato, sia quella dei gruppi d'interesse, tendono a consolidare lo Stato-provvidenza. Il thatcherismo ha potuto avere luogo perché negli anni 70 il fallimento dello statalismo era talmente evidente e drammatico, da "chiamare" una risposta. Il capitalismo è vittima della sua efficienza. Gli basta una dose molto limitata di libertà, per creare ricchezza. Lo Stato moderno vive col mercato un rapporto parassitario. Ne ha bisogno, per predare la ricchezza di cui vive, ma non vuole riconoscere libertà che implicherebbero il suo appassimento. E le mitologie politiche prevalenti vengono arrangiate di conseguenza.

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