martedì 7 aprile 2009

Ostellino il liberale "eretico"

La Stampa
7/4/2009
UN ANTICONFORMISTA FRA LE TRAPPOLE VORACI DELLA POLITICA
di Luca Ricolfi

Un libro «anticiclico», così è stato immediatamente definito, ancor fresco di stampa, Lo Stato canaglia, il bel saggio di Piero Ostellino sulla cultura politica dell’Italia. Anticiclico perché ci vuole una certa dose di coraggio e di anticonformismo a difendere il mercato di questi tempi, quando mezzo mondo - impaurito dalla crisi - invoca più protezione, più tutele, più aiuti, in definitiva più soldi dallo Stato, visto come l’unico attore che può salvarci dal diluvio della crisi. Eppure Ostellino, allievo di due grandi liberali come Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio, se la cava brillantemente quando ribalta le accuse al mercato ricordandoci tre punti basilari.

Primo, il mercato non è una sorta di stato di natura della vita economica ma un’istituzione storica: l’ordine del mercato è «ordine costituzionale, incrocio e sintesi tra l’antica matrice liberale e la nuova e necessaria dimensione istituzionale. La libertà di concorrenza ha una dimensione giuridica, perché è sancita dal costituzionalismo e regolata dalla legge ordinaria». Secondo, è ingenuo vedere la crisi di oggi come conseguenza più o meno inevitabile del «liberismo selvaggio» imperante da qualche decennio: secondo Ostellino la crisi - oggi come nel 1929 - è innanzitutto il frutto di decisioni politiche errate (soprattutto da parte della Federal Reserve), e semmai è la pretesa della politica di governare i mercati con interventi discrezionali che occorrerebbe chiamare sul banco degli imputati (fondamentali, a questo riguardo, le riflessioni sulla differenza fra legge e legislazione). Terzo, il nucleo del liberalismo non è il «laissez faire», l’assenza di regole, o il liberismo come viene dipinto dai suoi nemici di destra e di sinistra ma semmai l’esercizio della libertà individuale entro un sistema di regole simmetriche, per cui (kantianamente) l’unico limite alla mia libertà è la libertà degli altri: «La libertà liberale non è anarchia, ma si sostanzia e si manifesta all’interno di un quadro normativo perché è un concetto giuridico, non solo politico o economico. Godiamo delle libertà individuali, che attribuiamo alla democrazia, mentre esse sono figlie del liberalismo, che è il costituzionalismo, lo Stato di diritto, il governo della legge».

Il libro di Ostellino non è solo «anticiclico», è anche un testo profondamente controcorrente, talora politicamente scorretto. Si potrebbe dire che è esso stesso l’illustrazione, la testimonianza vivente, di una delle affermazioni che compaiono nelle ultime pagine, quando parla del gregarismo dell’uomo di sinistra: «al liberale non spiace essere in minoranza, anzi». E infatti, a essere in minoranza Ostellino ci riesce perfettamente in alcuni passaggi fondamentali, ad esempio quando mostra le impressionanti affinità fra la cultura politica della destra e della sinistra, il profondo conservatorismo che le impregna entrambe. Qui Ostellino addirittura radicalizza la concezione di Hayek, secondo cui i liberali non sono a metà strada fra conservatori e socialisti, ma gareggiano in innovazione con i socialisti, cercando di promuovere più libertà là dove i socialisti cercano di promuovere più uguaglianza: per Ostellino in Italia ormai anche la sinistra è diventata conservatrice, per cui la cultura liberale si trova ad essere l’unica innovatrice, l’unica che vuole cambiare davvero il Paese, rendendolo più meritocratico e meno bigotto.

Ma lo zenit dell’anticonformismo Ostellino lo raggiunge quando parla del carattere degli italiani, della mentalità che in secoli e secoli si è sedimentata nelle coscienze, nei costumi, nei riflessi condizionati di un popolo. Qui il tono cambia, e la pagina dell’osservatore freddo e disincantato si fa letteraria, in un’alternanza di invettive, riflessioni amare, timide speranze. Gli italiani sono «anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini». «Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca - che cambia qualcosa per restare sempre la stessa - è una sorta di “8 settembre permanente”. Istituzionalizzato».

Qui le parole di Ostellino paiono riprendere il fiume carsico dei pensatori anti-italiani: da Leopardi a Prezzolini, da Flaiano a Guareschi, da Longanesi a Montanelli, da Luigi Barzini jr. a La Capria, per tacere di autori come Pavese e Pasolini, anch’essi refrattari a non pochi tratti del carattere nazionale. Anti-italiani, come ha scritto Dino Messina, «non perché non amino l’Italia ma perché denunciano il male nazionale che si chiama conformismo».

Visto da questa angolatura Lo Stato canaglia è un libro decisamente atipico nel panorama editoriale italiano. Atipico non tanto perché dice cose controcorrente, ma perché rinuncia a una abusata risorsa di molti libri di successo: lusingare il lettore, facendolo sentire migliore di coloro di cui il libro parla. Se leggete La Casta di Stella e Rizzo vi sentite bene, perché non siete come i politici. Se leggete i pamphlet di Travaglio vi sentite bene perché non siete come gli imbroglioni e i corrotti. Se leggete Gomorra di Saviano vi sentite bene perché non siete camorristi. La letteratura di denuncia è un tonificante per l’io del lettore. Con Ostellino no, sentirsi bene è difficile perché le cose di cui parla riguardano anche noi, le nostre debolezze, il nostro opportunismo, il nostro deficit di senso civico, il nostro insufficiente amore per la libertà. Se siamo d’accordo con lui, è difficile esserlo con noi stessi. Insomma, un vero amico: perché gli amici ti dicono la verità, anche quando può farti soffrire.

Autore: Ostellino Piero
Titolo: Lo stato canaglia. Come la cattiva politica continua a soffocare l'Italia
Edizioni: Rizzoli
Pagine: 247
Prezzo: € 19.00

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