di Valter Grossi
Nei titoli dedicati in questi giorni al congresso fondativo del Partito delle Libertà è stata ripetutamente richiamata la cosiddetta "rivoluzione liberale". Anche in molti interventi congressuali è echeggiato l'aggettivo "liberale", spesso abbinato a sproposito ad altre parole chiave come cristiano, popolare, valori tradizionali etc.
Tutto ciò crea confusione e richiede alcuni chiarimenti, se non altro per salvare e riscattare il buon nome del liberalismo politico, che non può certo esser assimilato al blocco conservatore e clericale messo in piedi dal demiurgo Berlusconi.
Sebbene il metodo liberale sia polisemico e spesso venga evocato per definire più un sistema di valori costituzionali, che un pensiero politico specifico, il liberalismo politico organizzato nella sua storia assume contorni che, per quanto variegati, lo hanno sempre distinto dai partiti conservatori.
Non a caso, infatti, nel Parlamento europeo, proprio in posizione intermedia tra il PPE (conservatori) e il PSE (socialisti), troviamo un terzo gruppo, con ben 100 deputati, l'ELDR (partito liberale europeo), oggi federato con alcuni gruppi democratici centristi nell'ALDE.
Il partito dei liberali, democratici e riformatori europeo nacque verso la metà degli anni '70, riunendo i principali partiti d'ispirazione liberaldemocratica e radicale di tutta Europa e vide per l'Italia tra i suoi fondatori Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi, rispettivamente leader del PRI e del PLI.
Tra le caratteristiche peculiari di questo soggetto politico, generalmente collocato al centro dello schieramento, possiamo annoverare una netta propensione per l'economia di mercato in tutte le sue gradazioni (si va dal liberalismo classico dell'FDP tedesca, al socialiberalismo degli olandesi di Democrazia 66), una particolare attenzione alle tematiche riguardanti i diritti civili e la laicità delle Istituzioni, un forte sentimento europeista, che ne ha rappresentato il carattere più peculiare, rispetto agli altri gruppi, che di fatti ancor oggi presentano storiche divisioni su questo tema centrale (i gollisti francesi, verso i cristiano democratici tedeschi).
Nelle coalizioni di governo di molti stati europei (in gran parte proporzionalisti) i liberali hanno collaborato alternativamente in formule di centrodestra come di centrosinistra, scegliendo in base alla situazione specifica, ma mantenendo sempre visibile il proprio profilo e la difesa dei propri principi.
In Germania ad esempio hanno governato con la sinistra nei governi Brandt e Schimitd, alleandosi poi con Khol, per poi passare all'opposizione dell'attuale grosse koalition. Mentre nel Regno Unito, dove il sistema maggioritario ne ha sempre falcidiato la presenza parlamentare, i liberaldemocratici sono stati all'opposizione di Margaret Thatcher, contrastandone l'antieuropeismo e le politiche di smantellamento del welfare (inventato dal liberale Lord Beveridge) ,così come si sono battuti contro la guerra in Iraq al tempo di Blair.
Tutto questo per dire che se la PDL fosse un partito liberale, come pretendono molti suoi esponenti non andrebbe certo a collocarsi nel Partito Popolare Europeo, che si qualifica per valori di riferimento assai diversi, a partire dal preteso riconoscimento in sede costituzionale delle cosiddette radici cristiane dell'Europa. Questa differenze tra liberali e conservatori sono del resto certificate dalle molteplici votazioni al Parlamento Europeo, sulle molte questioni questioni, da quelle eticamente sensibili, alla libertà di ricerca scientifica, ai diritti umani e di cittadinanza, piuttosto che sulle direttive comunitarie in materia di concorrenza o immigrazione, dove i due gruppi si sono trovati agli antipodi.
A riprova di ciò voglio ricordare un piccolo, ma significativo episodio: nel 1989, bicentenario della Rivoluzione Francese, l'Internazionale Liberale celebrò il suo congresso a Parigi, in concomitanza col compleanno del suo Presidente Giovanni Malagodi, che venne ricevuto per l'occasione dal sindaco di Parigi Jacques Chirac. Quando questi gli si rivolse dicendo "in fondo siamo tutti liberali" si vide subito corretto dall'interlocutore che gli rispose: "fra noi liberali e voi conservatori possono esserci anche cose in comune, ma siamo cosa diversa".
Ma se questa è la situazione sul piano delle organizzazioni politiche restano anche ragioni di principio che rendono incompatibile il liberalismo con il PDL e, dal mio punto di vista, ce ne sono due essenziali, in particolare:
1) l'idea liberale può essere anche definita come la teoria del potere limitato e quindi nutre per sua natura una speciale avversione verso tutte le forme di dispotismo (anche delle maggioranze) e di monopolio. Come può trovare spazio in un partito fondato sulla leadership personale di un monopolista televisivo, che concentra su di se un così rilevante potere mediatico, politico ed
economico?
2) l'idea liberale si basa sulla laicità dello Stato, garantita dal relativismo etico e quindi dalla neutralità dello Stato rispetto alle opzioni individuali. Questa, che altro non è che un impostazione laicista, come può conciliarsi con quelle oziose distinzioni tra laicità e laicismo, che poi giustificano la trasposizione di percetti religiosi nelle leggi dello Stato (testamento biologico, procreazione assistita, legami civili)?
E infine, sul piano più generale, quali sono stati in questi quindici anni i risultati del centrodestra in termini di modernizzazione economica e sociale? Ha promosso politiche di liberalizzazione, atte a smantellare le corporazioni, a tutelare gli interessi dei consumatori, a favorire la mobilità sociale, attraverso il dinamismo del mercato e la moltiplicazione delle opportunità?
A me pare proprio di no e che la fondazione di questo partito, tradizionale nei valori e conservatore degli asetti sociali consolidati, non promette nulla di buono in proposito.
Salvo, speriamolo, il risveglio di qualche coscienza di fronte alla necessità di porre in cantiere, al più presto, un'alternativa di governo credibile, che per esser tale non può prescindere dalla cultura più adatta ad affrontare i temi della modernità, quella del riformismo liberale.
Se il collettivismo marxista ha abbandonato il campo con l'implosione dei regimi autoritari nel 1989, non si possono però negare i meriti della socialdemocrazia nell'avanzamento dei diritti sociali in Europa.
E se la nuova sfida è quella di dare un significato globale alla cittadinanza occorrono nuove alleanze e nuove sintesi tra le culture che scommettono sul progresso e nella libertà.
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