domenica 26 aprile 2009

25 aprile 2009 - Discorso a Vicenza di Valerio Zanone

25 aprile 2009

Vicenza, piazza dei Signori

Ringrazio il Sindaco Achille Variati dell’invito a celebrare l’anniversario della Liberazione sulla piazza di Vicenza: la città che ha per sua bandiera il tricolore del 1848, testimonianza di quanto l'indipendenza della nazione debba alla tradizione antica delle libertà comunali, di quanto l’unità d’Italia sia legata alle storie delle sue cento città.

I decreti di cui abbiamo ascoltato le motivazioni segnano due momenti fondamentali della storia italiana.

Nel 1866, quando il Veneto fu finalmente congiunto all’unità nazionale, la prima medaglia d’oro conferita a Vicenza per la resistenza opposta contro l’esercito austriaco dai cittadini nel 1848.

E negli anni nostri la seconda medaglia d’oro conferita a Vicenza nuovamente per la resistenza opposta dai cittadini contro l’occupazione delle truppe tedesche: il tributo vicentino alla lotta di Liberazione, con la lotta impari sostenuta dalle brigate partigiane; le centinaia di carcerati, deportati, fucilati; i coraggiosi scioperi del 1944; le azioni di contrasto dei reparti di guastatori; i combattimenti nei boschi e nelle campagne contro le divisioni di Kesselring; la disarmata ma non meno coraggiosa azione quotidiana del comitato di liberazione e della stampa clandestina.

Per chi non è vicentino, è un onore poterne oggi parlare nella città due volte decorata per aver combattuto: prima per unire l’Italia e poi per liberarla.

Davvero, il tricolore vicentino decorato per i fatti del 1848 e poi per i fatti del 1945 può rappresentare per tutta la cittadinanza italiana un vessillo della memoria che ci ritroverà uniti nel 2011; quando in ogni parte d’Italia saremo chiamati a celebrare insieme i 150 anni dell’Unità nazionale. Uniti a ripensarne le luci e le ombre, i malanni atavici affrontati e almeno in parte risolti, le promesse non mantenute e le prove di civiltà dimostrate; ciò che nell’insieme, a paragone con le altre parti dell’Europa e di fronte al mondo, significa essere italiani.

E ripensare anche, come possiamo fare oggi qui, cosa significhi nella storia nazionale, e nella nostra umile storia personale, la ricorrenza del 25 aprile.





Signor Sindaco, nel corso degli anni, molti anni ormai, mi è accaduto più volte di celebrare il 25 aprile in piazze diverse del paese. Ed è sempre motivo di emozione vedere lo splendore dei luoghi animato dai labari e dai gonfaloni, popolato dai combattenti e dai partigiani ai quali la cittadinanza senza distinzioni riserva sincera gratitudine. Ma, appunto con il passare degli anni, ad ogni 25 aprile si accentua un dato di fatto che è anche un motivo di riflessione. Dobbiamo riflettere sul dato di fatto che la grande maggioranza dei nostri concittadini, l’ottanta per cento e più, è nata dopo quel 25 aprile del 1945. Tre generazioni si sono formate dopo di allora. E’ con loro che dobbiamo ripensare il significato della ricorrenza che celebriamo.

Sono passati 64 anni, il tempo ha maturato lo spirito della pacificazione, la libertà guadagnata allora è diventata il patrimonio di tutti. Ed è proprio per questo che si può, e credo si debba, ripensare il 25 aprile in una visione pacificata e non parificata.
Certo, quando fra il 1943 ed il 1945 l’Italia fu tagliata in due non solo nel territorio ma nella coscienza individuale dei cittadini, vi furono soprattutto fra i giovani cresciuti nel chiuso recinto della propaganda fascista, quelli che si schierarono sull’altra linea del fronte in buona fede.

Il giudizio che a distanza di sessant’anni se ne deve dare è il giudizio della storia; la storia che con il tempo può arrivare a pacificare, ma non a parificare. Ogni parte d’Italia, e Vicenza più di altre, ha pagato alla lotta di Liberazione un tragico tributo di eccidi, e di caduti su entrambi i fronti del conflitto;e i caduti di tutti i fronti devono essere rispettati. Ma non si può parificare nel giudizio chi combatteva per la libertà con chi pretendeva di continuare a negarla, quand’anche ciò accadesse in nome del creduto senso della patria.

Per la verità va detto che il fascismo veramente patriottico non lo fu mai: perché riservando il culto rituale della patria ai soli fascisti, ne aveva tolto la sostanza alla totalità degli italiani. Aveva espropriato la cittadinanza dal senso della patria, per ridurlo ad emblema di parte. Dobbiamo oggi confidare che sessantaquattro anni bastino a non ripetere quel tragico errore; servano a riconoscere che nessuno può per diversità di opinione espropriare un concittadino dai diritti e dai doveri di appartenenza alla patria, che così si chiama perché tutti ne siamo figli senza discriminazioni.


Ora da qualche anno in prossimità del 25 aprile si affaccia dalle pagine culturali dei giornali, anche a firma di storici autorevoli, la tesi revisionista circa il rapporto fra memoria antifascista e identità democratica.

Quella tesi in sostanza sostiene che l’identità democratica della nazione non può essere condivisa da tutti, e quindi non può essere pienamente identitaria, se è fondata soltanto su un elemento di antitesi, quale sarebbe in termini lessicali l’antifascismo.

E passando dalla lessicografia alla storiografia, si sostiene che l’identità nazionale sarebbe stata incrinata dalla frattura del 1943, l’inizio del biennio che anche uno storico di sinistra ha definito il biennio della guerra civile.

Però ciò sembra trascurare appunto il dato storico innegabile, ossia il fatto che la frattura risaliva all’origine del fascismo, alla frattura degli anni venti rispetto al sistema delle garanzie statutarie. E dunque si trascura il dato di fatto che quella prima frattura era sanabile soltanto al prezzo di una frattura opposta; si trattava di chiudere con il ventennio, e uscirne non girando all’indietro l’orologio della storia, ma restituendo alla cittadinanza nazionale il senso nuovo della propria identità.

Non possiamo ridurre ad antitesi il termine antifascista, se non vogliamo svilire la realtà di quanto costò per vent’anni essere antifascista in Italia. Quanta virtù civile, quanta intransigenza morale costò a ciascun antifascista custodire per vent’anni in solitudine la propria fedeltà alla patria, dopo esserne stato espropriato dalla tracotanza del regime!

Cittadini, io penso che ogni generazione abbia la sua

impronta d’origine, l’esperienza di un anno memorabile che imprime il sistema dei valori destinato a prendere forma compiuta e razionale dopo la fanciullezza. Per la generazione cui appartengo, il 1945 è stato l’anno fondativo dei valori democratici.

Soltanto l’antifascismo, la resistenza contro il fascismo, e infine la liberazione dal fascismo possono spiegare perché e come partiti già allora contrapposti e destinati a contrapporsi lungo tutti i decenni della guerra fredda, seppero dividersi nelle scelte di governo senza incrinare il sistema di valori che prese corpo nella Costituzione della Repubblica.

Nella Costituzione, nel patriottismo costituzionale trova le due radici l’identità nazionale: un’identità non soltanto ricevuta per retaggio storico, linguistico e culturale, non soltanto avuta in eredità, ma liberamente scelta come recupero delle libertà perdute e conquista di nuovi diritti.

Tutta la prima parte della Costituzione repubblicana si può leggere come un manifesto antifascista, scritto in forma affermativa verso il futuro. E’ l’antitesi alla dittatura tradotto in diritti di libertà, articolo per articolo:

nel primo, contro la dittatura del regime, la sovranità del popolo;
nel secondo, contro le violenze e i tribunali speciali, i diritti inviolabili dell’uomo;
nel terzo, contro le infami leggi razziali, la pari dignità dei cittadini senza distinzioni di razza e di fede;
nell’articlo quinto, contro il centralismo gerarchico, le autonomie del governo locale;
nell’articolo undecimo, contro le avventure belliciste e nazionaliste, il ripudio della guerra e la devoluzione alle organizzazioni internazionali di pace;
e poi nei rapporti civili contro l’intrusione liberticida nella vita privata e pubblica, nella stampa e nelle scuole, i diritti irrevocabili di libertà scolpiti in sequenza: articolo 13, libertà della persona; 14, libertà del domicilio; 15, libertà di comunicazione; 16, libertà di circolazione; 17, libertà di riunione; 18, libertà di associazione; 21, libertà di stampa; 33, libertà di insegnamento;
e ancora contro il sindacato corporativo, all’articolo 39 la libertà di organizzazione sindacale; e contro la servitù della tessera, all’articolo 49 il diritto di associarsi liberamente in una pluralità di partiti.
Se l’identità nazionale fondata sui diritti di libertà trova la sua magna charta nella Costituzione della Repubblica, va detto che anche la repubblica trova nella resistenza antifascista la sua origine e spiegazione.

Nella storia degli italiani lungo i secoli la repubblica era stata il sogno dei cospiratori, l’epica dei poeti, e ogni tanto la bandiera degli insorti e dei ribelli. E una settimana dopo il referendum istituzionale, sul Corriere della Sera del 9 giugno 1946 Piero Calamandrei, di cui ora ricorre l’anniversario di nascita, si chiedeva come infine fosse stato possibile instaurare la repubblica con il verdetto civile e pacifico della volontà democratica. Perché ciò accadesse, scriveva Calamandrei, “è stato necessario che un immane rullo compressore spianasse, risalendo inesorabile, le nostre città e le nostre campagne; e che per aprire il varco alla liberazione, il nostro popolo ritrovasse nel dolore il coraggio di immolare alla libertà i suoi figli migliori”.

Ho notato che in vista del 25 aprile, da vari soggetti (enti locali, scuole, associazioni) sono venute iniziative per la diffusione di un libro che non porta in copertina il nome di un autore e non è nemmeno la stampa di un manoscritto: un libro scritto da centinaia di militari, operai, padri di famiglia e giovani studenti, su brandelli di carta e qualche volta sul muro di un carcere, le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana.

E alla segnalazione di quelle iniziative mi è tornata in mente un altro scritto di Piero Calamandrei: il discorso pronunciato nell’assemblea costituente il 4 marzo 1947, ad apertura della discussione generale sul progetto di Costituzione.
Quel discorso non risparmia critiche alle clausole di compromesso adottate dalla commissione dei 75., Ma si conclude con l’omaggio agli autori veri della Costituzione; che Calamandrei vedeva non nei colleghi seduti sugli scranni, ma nel popolo dei caduti, in guerra nelle steppe russe e nel deserto africano, poi nelle valli della Resistenza, nelle prigioni e sui patiboli. Rileggiamo cosa ne disse Calamandrei: “Sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile; quella di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole, quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana”.

Cittadini, ogni celebrazione del passato richiama la responsabilità presente. Rendere onore ai caduti significa il dovere di non tradirli.

Già nel 1945, l’alba della nuova Italia portava in sé le prime luci dell’Europa, l’idea dei primi europeisti di riscattare le due guerre mondiali del Novecento con un patto irreversibile di pace. La pace irreversibile fra gli Stati nazionali è stata acquisita dall’unione europea, e deve oggi tradursi in una politica comune di sicurezza che risolva le tensioni nelle aree di conflitto alle porte dell’Europa. Il 25 aprile è anche questo: la ricorrenza della svolta storica in cui cominciò a profilarsi quel “germinare di una nuova coscienza e di una nuova nazionalità” che negli anni trenta, nell’Europa soggiogata dalle dittature, Benedetto Croce aveva intravisto nell’epilogo della sua Storia d’Europa; l’unione europea destinata a risolvere le competizioni dei nazionalismi ed a costituire dopo la guerra una nuova cittadinanza, inclusiva di più generosi diritti sociali.
La generazione cui appartengo è figlia della liberazione. Dopo di essa la libertà è diventata un bene pubblico di uso quotidiano, e il problema quotidiano è diventato quello di farne l’uso migliore.

Concludo dove avevo cominciato. Celebrare il 25 aprile significa sentirsi cittadini di una repubblica che non vuole congedarsi dalle sue origini. Sentirsi italiani significa non dimenticare quell’idea civile, non tradire le ombre lontane di chi si è sacrificato per servirla. E parlarne senza secondi fini, con l’umiltà dovuta all’ala della storia che ci sovrasta, liberi nella coscienza individuale, solidali nella devozione alla patria italiana.

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