HENRY A. KISSINGER
La Stampa
12/1/09
Mentre la nuova amministrazione americana si prepara a insediarsi, nel mezzo di una gravissima crisi finanziaria e internazionale, potrebbe apparire contraddittorio azzardare l’ipotesi che proprio la natura estremamente instabile del sistema internazionale apra un’opportunità unica per una diplomazia creativa. Questa opportunità nasconde un’apparente contraddizione. Su un piano, il collasso finanziario rappresenta un duro colpo alla posizione degli Stati Uniti. Mentre le decisioni politiche dell’America si sono spesso dimostrate controverse, le ricette americane per un ordine mondiale finanziario di regola non sono mai state contestate. Oggi, invece, la delusione per la gestione statunitense è molto diffusa.
La portata della débâcle rende impossibile per il resto del mondo rifugiarsi dietro il predominio americano. Ogni Paese dovrà dare il proprio contributo al superamento della crisi. Ciascuno cercherà di rendersi indipendente dalle condizioni che hanno prodotto il collasso. Ma allo stesso tempo ciascuno sarà obbligato ad affrontare la realtà, e cioè che i dilemmi prodotti dalla crisi possono essere risolti solo da un’azione congiunta. Perfino i Paesi più ricchi dovranno affrontare una scarsità di risorse. Ciascuno dovrà dare una nuova definizione delle proprie priorità. Ne verrà fuori un ordine internazionale solo se si arriverà a un sistema di priorità compatibili. Altrimenti, l’ordine internazionale andrà in pezzi, provocando un disastro.
Alla fine il sistema, sia politico sia economico, può venire armonizzato solo in due modi: creando un sistema internazionale di regolazione politica con la stessa portata di quello economico, oppure riducendo le entità economiche a un livello gestibile dalle strutture politiche esistenti, strada che probabilmente porterebbe a un nuovo mercantilismo, forse a livello di associazioni regionali. Un nuovo accordo globale sul modello di Bretton Woods sarebbe di gran lunga preferibile come soluzione.
Il ruolo dell’America in questa impresa sarà decisivo. Paradossalmente, l’influenza americana sarà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta. Dobbiamo modificare il nostro atteggiamento da gente che è sempre nel giusto, che ha caratterizzato troppi comportamenti americani, soprattutto dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Quel fatto cruciale e il successivo periodo di quasi ininterrotta crescita globale ha indotto troppe persone a equiparare l’ordine globale con l’accettazione dei progetti americani, incluse anche le nostre scelte di politica interna. Il risultato è stato un certo unilateralismo - lamentato regolarmente dai critici europei -, oppure, detto altrimenti, l’istituzione di una sorta di competizione in cui le nazioni venivano invitate a dimostrare di essere all’altezza dell’adesione al sistema internazionale conformandosi alle ricette americane.
Mai dai tempi dell’insediamento di John F. Kennedy mezzo secolo fa si è vista una nuova amministrazione che arrivasse con un tale bagaglio di aspettative. È una situazione senza precedenti in cui tutti i protagonisti della scena internazionale riconoscono il desiderio di affrontare i cambiamenti imposti dalla crisi globale in collaborazione con gli Usa. Lo straordinario impatto del presidente eletto sull’immaginario dell’umanità è un elemento importante nella definizione del nuovo ordine mondiale. Ma esso apre un’opportunità, non delinea una politica. La sfida finale consiste nel trasformare le preoccupazioni comuni della maggioranza dei Paesi (e di tutti i Paesi maggiori) riguardo alla crisi economica, insieme a una paura condivisa del terrorismo jihadista, in una strategia congiunta rafforzata dalla consapevolezza che dossier come la non proliferazione, l’energia e il cambiamento climatico non concedono soluzioni nazionali o regionali.
La nuova amministrazione non può commettere errore peggiore di quello di adagiarsi sulla propria popolarità iniziale. L’atteggiamento cooperativo del momento deve venire incanalato in una grande strategia che vada oltre le controversie del passato recente. La carica di unilateralismo americano aveva un qualche fondamento, ma è diventata anche un’alibi per la differenza chiave tra l’America e l’Europa: gli Usa si comportano ancora come uno Stato nazionale in grado di chiedere ai propri cittadini sacrifici in nome del futuro, mentre l’Europa, sospesa tra l’abbandono degli assetti nazionali e un nuovo sistema politico ancora da definire, trova molto più difficile rinunciare ai propri benefici, preferendo quindi un «potere morbido». La maggior parte delle controversie tra le due sponde dell’Atlantico sono state di sostanza, e solo in misura minore di carattere procedurale: si sarebbero manifestate indipendentemente dall’intensità delle consultazioni. Il partenariato atlantico poggerà in gran parte su politiche condivise, piuttosto che su procedure concordate.
Anche il ruolo della Cina nel nuovo ordine mondiale è cruciale. Una relazione che, da entrambe le parti, è iniziata essenzialmente come un piano strategico per mettere in difficoltà un avversario comune, si è evoluta nei decenni fino a diventare un pilastro del sistema internazionale. La Cina ha reso possibile l’esplosione dei consumi americani comprando il debito Usa: l’America ha aiutato la modernizzazione e le riforme dell’economia cinese aprendo il suo mercato ai beni prodotti da Pechino.
Entrambe le parti sopravvalutano la durevolezza di questa intesa. Ma fino a che è durata, essa ha alimentato una crescita globale senza precedenti, mitigando anche le preoccupazioni sul ruolo della Cina una volta che sarebbe emersa in piena forza come superpotenza. Un’ostilità tra questi due pilastri del sistema internazionale distruggerebbe più di quando conquisterebbe, senza alla fine portare benefici a nessuno. Questa consapevolezza va preservata e rinforzata. Ognuna delle due sponde del Pacifico necessita della cooperazione dell’altra per affrontare le conseguenze della crisi finanziaria. Ora che il collasso finanziario internazionale ha devastato il mercato delle esportazioni cinesi, Pechino sta incentivando lo sviluppo delle infrastrutture e i consumi domestici. Non sarà facile cambiare rapidamente direzione, e il tasso di crescita cinese può flettere provvisoriamente sotto il 7,5% che gli esperti cinesi hanno sempre indicato come la soglia oltre la quale si rischia la stabilità politica. L’America ha bisogno della collaborazione cinese per rimediare al proprio squilibrio della bilancia dei pagamenti, e impedire che il suo deficit deflagrante inneschi un’inflazione devastante.
Il modello di ordine economico mondiale che emergerà in futuro dipende in gran parte dall’intesa che la Cina e l’America elaboreranno nei prossimi anni. Una Cina frustrata potrebbe farsi tentare dalla costruzione di una struttura asiatica esclusivamente regionale, il cui nucleo esiste già nella costruzione dell’Asean+3, l’Associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico più Cina, Giappone e Corea del Sud. Nello stesso tempo, se in America aumenta il protezionismo o se si comincia a vedere la Cina come un avversario a lungo termine, una profezia che si autoinvera potrebbe oscurare le prospettive di un ordine globale. Un simile ritorno al mercantilismo e alla diplomazia dell’800 spaccherebbe il mondo in entità regionali in competizione, con conseguenze pericolose per il futuro.
Le relazioni sino-americane devono essere portate a un nuovo livello. L’attuale crisi può venire superata soltanto sviluppando il senso degli obiettivi condivisi. Dossier come la non proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’energia e l’ambiente richiedono legami politici più stretti tra Cina e Usa. L’attuale generazione di leader ha l’opportunità di trasformare le relazioni transpacifiche in un disegno di destino comune, come avvenne per le relazioni transatlantiche nel dopoguerra, con l’unica differenza che le sfide di oggi sono più politiche ed economiche che militari.
Questa visione deve includere anche Paesi come il Giappone, la Corea, l’India, l’Indonesia, l’Australia e la Nuova Zelanda, o come parti integranti delle strutture transpacifiche, oppure attraverso accordi regionali su argomenti specifici come l’energia, la non proliferazione e l’ambiente.
La complessità del mondo emergente richiede dall’America un approccio più storico dell’insistenza che ogni problema ha una soluzione finale esprimibile in programmi con limiti temporali spesso vincolati ai processi politici interni. Dobbiamo imparare a operare nei limiti del possibile, e prepararci a conseguire gli obiettivi finali attraverso una serie di sfumature. Un ordine internazionale diventa permanente solo se i suoi partecipanti ne hanno condiviso non solo la costruzione, ma anche la difesa. In questo modo, l’America e i suoi partner potenziali avranno un’opportunità unica di trasformare un momento di crisi in una finestra di speranza.
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