da Il Sole 24 Ore del 15 gennaio 2009, pag. 1
di Carlo Bastasin
«Non è il tempo del compiacimento». Come celebrazione per il decimo anniversario della moneta unica, martedì nell’emiciclo di Stràsbtîrgo, il presidente Bce Jean-Claude Trichet, non poteva essere più so’ brio. Abuonmotivo: l’euro ha finora protetto con molta efficacia i 16 Paesi aderenti dall’impatto finanziario della crisi globale. Come ha scritto ieri Fabrizio Galimberti, l’euro garantisce anche tassi d’interesse molto bassi, eppure giorno dopo giorno cresce un senso di disagio per la tenuta di alcuni Paesi "periferici" come Grecia, Spagna e Irlanda. La crisi infatti pesa sui fabbisogni degli Stati, che in alcuni casi hanno assorbito i rischi del settore privato, facendo crescere i tassi d’interesse sui loro titoli pubblici. Sui mercati gravitano le ombre del’93: si prende in considerazione la possibilità che alcuni Paesi non siano capaci di finanziarsi ordinatamente e di rispettare i criteri di stabilità che regolano l’unione monetaria.
E’ bene chiarire: nessuno parla di un pericolo per l’euro, ma anzi di conseguenze che potrebbero essere chiarificatrici sulla profondità dell’integrazione europea. Non è realistico uno scenario di uscita dalla moneta unica, perché nessun Paese sopravvivrebbe all’abbandono dell’euro. Si troverebbe infatti isolato e privo di credibilità, a dover finanziare i propri debiti interni ed esterni con premi al rischio stellari, in condizioni molto peggiori di quelle attuali. Il problema è piuttosto che le difficoltà di alcuni Paesi non possono che essere risolte insieme ai Paesi partner. E bisogna trovare il modo di farlo, sia sul piano economico sia su quello finanziario: «il vero test di coesione», così lo chiama Jean-Claude Junker che presiede il gruppo dei ministri finanziari dell’euro.
Tra i Paesi più esposti ci sono quelli che hanno perso competitività negli ultimi anni e che stanno accumulando i maggiori disavanzi nel commercio estero. Non potendo svalutare la moneta, le economie in difficoltà finiscono in una recessione più profonda degli altri, con conseguenze deflazionistiche che aggravano la loro posizione, debitoria. Senza forti sacrifici e molta attenzione alla qualità della spesa pubblica, le divergenze con gli altri Paesi si ampliano sempre di più. Gli stimoli fiscali necessari ai Paesi in difficoltà devono dunque essere credibili, efficaci e sostenibili nel lungo termine. Ma credibilità ed efficacia sono possibili solo sei Paesi più competitivi, in surplus commerciale - cioè la Germania - stimolano la domanda interna al punto da rivitalizzare anche l’export dei Paesi in difficoltà. Da qui l’importanza di politiche europee coordinate in cui alla maggior spesa pubblica tedesca faccia riscontro la qualità della politica fiscale nei Paesi meno competitivi. Uno scambio che rappresenta già un inedito intreccio di sovranità nelle politiche fiscali dei Paesi dell’euro.
I mercati finanziari stanno disciplinando le economie dei Paesi dell’euro più vivacemente di quanto non possa fare lo stesso Patto di stabilità, e finché i segnali di stimolo non sono convincenti continueranno a preferire la sicurezza dei titoli emessi dal Governo tedesco e a scansare quelli dei Paesi periferici. Anche se piccoli incidenti nei collocamenti dei titoli sono avvenuti perfino in Germania e in Austria, i recenti allarmi lanciati da analisti e agenzie di rating hanno peggiorato la valutazione del rischio dei Paesi più critici. Il fatto che l’Italia abbia già un rating basso e stia recuperando da qualche tempo competitività ed export ci ha finora protetti. Ma in questi casi valgono i vecchi ammonimenti della Bundesbank: ogni catena è forte quanto il suo anello più fragile. Tutti i Paesi dell’euro risentirebbero dei problemi di ogni singolo anello debole.
I pacchetti fiscali di Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia andrebbero quindi sottoposti a un vaglio molto rigoroso della Commissione europea e, nel caso greco e irlandese certamente, andrebbero corretti. Lo stimolo tedesco dovrebbe essere ancora "europeizzato", meno concentrato cioè sulle infrastrutture locali e accompagnato da pacchetti simili nei maggiori Paesi, in mo- do da accrescerne il moltiplicatore fiscale. Ugualmente Italia e Francia dovrebbero adottare la proposta di Berlino di blindare la stabilità fiscale di lungo termine con innovazioni costituzionali. In questo quadro è indispensabile il ruolo di àncora della stabilità monetaria. Se uno dei Paesi periferici dovesse trovare difficoltà a finanziarsi, inevitabilmente si porrebbe il problema di aiutarlo, così come si aiutano le banche e le imprese a superare la carenza di credito. Il Fondo monetario è l’istituzione che interviene in casi di problemi strutturali, come ha previsto ieri il Governo irlandese. Nell’area euro vale invece la regola del non-salvataggio, che paradossalmente consente ai nostri Paesi di aiutare l’Ungheria, ma non un Paese euro. Si tratta evidentemente di un controsenso che non reggerebbe in caso di emergenza, ma che viene tenuto invita per obbligare i Paesi in difficoltà a reagire in anticipo. In caso di allarme, fanno capire a Bruxelles, Commissione europea ed Ecofin troverebbero ragione d’intervenire.
Siamo ancora lontani dall’ipotesi in cui la Bce possa essere autorizzata ad acquistare titoli pubblici europei, come fa la Fed, garantendo che nessuno Stato possa fallire. Perché si arrivi a quel punto di "unione" manca ancora sia la struttura istituzionale, sia la volontà politica. Ma rispetto all’inizio della crisi, molte cose si sono già messe in movimento in Europa, a cominciare dal prevedibile cambiamento di rotta di Berlino. Molti Paesi stanno capendo quanto il loro destino sia legato. Si tratta di movimenti troppo lenti e non sempre decifrabili, ma la direzione è invece già molto chiara.
Nessun commento:
Posta un commento