Crisi di governo, crisi politica, crisi di sistema nell'imminenza di una crisi economica: quale strategia per il PD?
Editoriale di Carlo Annoni
La crisi del II governo Prodi è da molti interpreta come la crisi delle coalizione coatte ed eterogenee che hanno caratterizzato il centro-sinistra nella cosi detta II repubblica.
Una crisi di governo, ma a parere di molti, anche e soprattutto una crisi politica e una crisi di sistema.
Crisi politica anzitutto. Per 15 anni un collante, fatto da regole elettorali maggioritarie e timori per il berlusconismo, ha tenuto assieme (tra uno strappo e l'altro) un insieme di forze che andava dai liberali diniani all'estrema sinistra di comunisti, no-global e verdi, passando per i post-dem mastelliani.
Mentre nel 98 la crisi politica era esplosa a sinistra, questa volta la crisi si è manifestata sul versante destro della coalizione.
Oggi la crisi è maturata in modo teatrale per i calcoli di un micro-partito localistico e post-moderno, ma anche per la critica impietosa e lucida dei libdem diniani e per la sfiducia di importanti personaggi una volta protagonisti della Margherita (W.Bordon).
Qualcuno parlerà di compravendite e calcoli meschini, ma non possiamo accontentarci di queste spiegazioni da bar sport.
La crisi che si è manifestata è politica, ed è profonda, toccando le ragioni dello stare assieme della coalizione stessa.
L'incapacità di aggredire i problemi del Paese con un politica radicalmente modernizzatrice ( e quindi di stampo liberale e liberista), è stata la percezione comune di tanti italiani.
D'altra parte la crisi del governo Prodi (e del maggioritario a coalizione coatte) nasce già quando nel 2006, di fronte alle incombenti elezioni, l'Unione si presentava con un programma di 284 pagine e con una comunicazione caotica, capace di determinare il "miracolo" del recupero berlusconiano e la quasi sconfitta elettorale del centro-sinistra.
Di fronte all'attesa di modernizzazione e attacco a posizioni di rendita, barriere e burocrazie, l'Unione cercò la quadra in nome di una concertazione che alla maggior parte degli italiani, ed in special modo alle aree produttive del nord, suonava e suona come una provocazione.
La concertazione presuppone "una Italia che non c'è più in un mondo che non c'è (mai stato!)", ed è agli antipodi degli interessi e dei desideri di ceti produttivi e imprenditoriali oramai irriducibili ad un sistema di relazioni industriali fondati sulla triangolazione sindacati padronali-sindacati lavoratori-governo e cementato dalla spesa pubblica.
Su questo presupposto si è mancato lo sfondamento al centro (politico) e nel nord (geografico) e si è preparata la frustrazione delle aree centriste dell'Unione che ieri hanno determinato la fine del governo Prodi.
Ora, l'implosione del centro-sinistra deve costringerci a riaprire un dibattito, almeno nell'ambito di quell'area modernizzatrice che include parte del PD, i radicali, lo SDI, i LibDem, per capire "che fare" non tanto nell'oggi, in cui la partita è obbligatoriamente in mano alla dirigenza del PD, ma da domani.
Se non affrontiamo questo tema in modo forte, profondo, e non solo nei salotti televisivi, rischiamo che la domanda diventi "che ci stiamo a fare?".
Per darci un primo orientamento sarebbe anzitutto utile capire se una visione del futuro condividiamo, quale essa sia e, se questa visione possa realisticamente divenire maggioritaria.
Se questa visione debba essere nel segno di una modernizzazione liberista e liberale dell'Italia o nel segno di un Paese ingessato nel gioco delle corporazioni e il cui ideale sia il "posto fisso", questo lo discuteremo ma con l'impegno di arrivare a decidere e scegliere. Senza "ma anche".
Chiaramente questo riposizionamento è possibile solo se vengono rotte le catene del maggioritario coatto e se governare ridiventa possibile.
Su questo Veltroni ha piena ragione a prevedere una corsa solitaria del PD alle prossime elezioni. Ma senza cambio di regole e coerenti riforme istituzionali ci troveremmo nuovamente prigionieri del maggioritario all'italiana appena volessimo non solo partecipare, ma vincere le elezioni.
Tra l'altro sappiamo bene che la crisi in Italia non è solo politica, ma di sistema. Perchè vincere, nel nostro Paese, non basta per avviare le riforme necessarie a far ripartire lo sviluppo economico e sociale. Lo abbiamo visto bene in 15 anni in cui, maggioranze anche straripanti, non sono riuscite a realizzare nulla di quanto atteso.
Quindi ben fa Veltroni a proporre un governo per le Riforme a chi nel centro-destra possa e voglia condividere i nostri obiettivi di governabilità.
Sperando, forse incautamente, che da quella parte non si guardi solo all'interesse di bottega ma anche a quello che, senza retorica, definirei l'interesse della Nazione.
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