mercoledì 3 ottobre 2007

La scuola ritrovata

Europa


FEDERICO ORLANDO
03-10-2007

Agli italiani la scuola piace “nonostante”. È la scoperta dell’Osservatorio sul capitale sociale, diretto da Ilvo Diamanti, che ne ha parlato lunedì su la Repubblica, nelle stesse ore in cui il ministro Fioroni illustrava gli stanziamenti conseguiti dal suo ministero, dopo le perplessità sollevate dalla finanziaria “leggera” di Prodi e Tps. “Nonostante” vuol dire che gli italiani promuovono la scuola dei loro figli, “nonostante” la sentano lontana dalla società che cambia. Se poi gli italiani sappiano consigliare essi stessi la scuola a stare ai tempi, se collaborino a quest’impresa, o preferiscano lamentare che i professori pretendano qualcosa dai ragazzi anziché servirli, è discorso che forse l’Osservatorio farà a una prossima occasione. Per ora, l’Osservatorio rileva che la protesta non sempre ha giustificati motivi. Quando la protesta è motivata (“la scuola fornisce il suo servizio ma non trasmette più sicurezza nel futuro”), a noi sembra che la memoria storica degli italiani li tradisca. Nella nostra memoria storica, per dire, le cose stanno diversamente. C’è stata forse un’età (gli ottant’anni dalla riforma Casati del 1860 alla riforma Bottai della scuola media unica del 1940) in cui la scuola non obbligatoria (elementari) trasmetteva sicurezza alle élite che vi accedavano: il classico, le magistrali, le tecniche, lo stesso avviamento professionale, ultimo nella graduatoria della società classista. Ma dopo il grande ribaltamento dell’edificio liberale-borghese nella Costituente (vedi intesa Gonella-Togliatti contro la “scuola laica” ereditata dai liberali e per la nuova “scuola nazionale” delle masse, La scuola degli italiani di Adolfo Scotto di Luzio, il Mulino) la nostra memoria storica fatica a trovare grandi sicurezze sul futuro: l’obbligo esteso alla media unica fu una grande conquista della democrazia, ma l’incertezza delle famiglie precipitò di pari passo con quella grandezza: molti ragazzi pagarono l’universalizzazione della nuova scuola di massa con l’improvvisazione di docenti, programmi, ordinamenti, libri e pedagoghi. Vent’anni dopo ci saremmo ricaduti con la liberalizzazione degli accessi all’università. Il Sessantotto fu in parte anche la rivolta a questa discrasia società-scuola, come il rock dall’anno prima era stato la rivolta alla discrasia società libera-ipocrisia vittoriana, e come ancora l’anno prima Berkeley era stata la rivolta alla discrasia tra ricerca dirompente e università mummificata. Dire, a quarant’anni dal Sessantotto, che nella memoria degli italiani c’è una scuola felix, che trasmetteva ai ragazzi “il senso del futuro”, è dunque romantico. A meno che non si debba pensare che gli italiani, mentre favorivano o lasciavano che dilagassero il facilismo, l’antinozionismo, l’egualitarismo, l’autogestione, l’antiselezione, il vilipendio della cattedra, del registro, del voto, della campanella, dell’esame in genere e di quello di riparazione in particolare, e tutte le altre porcellerie di cui è intrisa la storia (giovanile e non) dell’ultimo quarantennio, non aspirassero, senza il coraggio di promuoverla derettamente, a quella “restaurazione” a cui s’ispira la politica del ministro Fioroni: che non è, pensando alla Costituzione, né cattolica (Gonnella), né comunista (Marchesi), né liberale (Croce), ma è ritorno al buonsenso: cuore di ogni politica vincente, se i politici fossero in grado di capirlo, rinunciando a stampare nella cruenta polvere della “storia” la loro poco vasta orma. Nelle ore precedenti alle rilevazioni dell’Osservatorio e alle informazioni di Fioroni sui nuovi stanziamenti per miglioramenti funzionali, edifici, recuperi postdiploma, bonus fiscali ai docenti, aumento degli insegnanti di sostegno in ruolo (vedi articolo di Paola Fabi su Europa di ieri), avevamo realizzato un piccolo forum personale con alcune insegnanti di ruolo delle superiori e dell’obbligo e altri insegnanti ascoltati per radio (perfino a Prima Pagina, condotta in questi giorni dal collega Massimo Franco): tutti concordi sul consenso, nelle famiglie e anche fra i ragazzi, al ritorno al buonsenso, dopo cinquant’anni di esilio dalla scuola; discutevano animatamente se la condizione retributiva e lo status di non pochi docenti ancora precari fossero compatibili col recupero dell’autorità che l’insegnante deve avere non solo a scuola ma nella società; se occorra sostenere fino in fondo un governo che vede premiati la riproposta degli esami di riparazione, l’apertura degli istituti di pomeriggio, il ritorno alla geografia, alla matematica, alla storia e soprattutto all’italiano nell’epoca degli sms e del linguaggio fatto di detriti di parole e di frequente minimalismo bloggerista. I docenti del mio piccolo forum concordavano anche sulle “cocciniglie parassite” addensate nel grande albero della scuola: mancanza perfino di chiodi per appendere i cappotti, carta igienica acquistata di tasca propria dai docenti, aule non ridipinte dalle province, imposte scassate, gabinetti rotti, poche sale computer. Nell’Italia dello spreco delle caste. Nei prossimi giorni, anche Europa tornerà spesso ai problemi della scuola. Intanto conforta che né il ministro sia afflitto da complessi di strategia ideologica (vedi Cultura di massa e società italiana 1936-1954, il Mulino, di David Forgacs e Stephen Gundle), né studenti e studentesse siano tutti bulli e pupe come quelli della lap dance e delle marchette nelle discoteche pomeridiane (vedi il citatissimo libro di Marida Lombardo Pjiola Ho dodici anni mi chiamano principessa e faccio la cubista, Bompiani), né i professori e le professoresse siano come gli assenteisti e le smutandate in cattedra di cui si sono occupate le cronache del non concluso 1977.

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