sabato 25 febbraio 2006

Relazione congressuale del segr. UIL Massimiliano Borotti

Riportiamo per intero la relazione del Segretario UIL di Piacenza, Massimiliano Borotti.
La riflessione proposta è ampia e profonda e merita una completa e attenta lettura. Al di là di ogni giudizio di merito.

Cari compagni e amici delegate e delegati, gentili ospiti,
in apertura dei lavori del XIV° Congresso Provinciale della UIL piacentina, colgo l’occasione per salutarVi tutti e ringraziarVi della Vostra presenza.

Oggi il percorso congressuale nella nostra Provincia è oggi arrivato al suo culmine, dopo aver affrontato le diverse assemblee di base e i conseguenti congressi provinciali di categoria; avremo il compito di dibattere lo schema di Tesi approvate dal Comitato Centrale della UIL ma anche di proporre arricchimenti sia nelle linee già tracciate sia per ciò che reputiamo vada aggiunto.

Un’occasione che ci permette di aggiungere altre motivazioni per affrontare il dibattito congressuale con la necessaria consapevolezza di esserne parte integrante e fondamentale.

Gli scenari che accompagnano i nostri pensieri non sono certamente i migliori auspicabili, il declino che il Paese ha intrapreso sui versanti dell’economia, del sociale, della sanità, della sicurezza, dell’istruzione, della sua capacità competitiva sui nuovi mercati, in ogni settore della vita pubblica rende sempre più incerta la ripresa e le soluzioni messe in campo fino ad oggi per contrastarne la deriva non ci sembrano le più idonee sotto tutti i punti di vista.

Dobbiamo forse, come qualcuno pensa, guardare solo alla data delle prossime elezioni politiche come unica ancora di salvataggio?

Certo è indiscutibile che quello sarà un passaggio fondamentale e importante, anche se mi preoccupa che ci si avvicini a quell’appuntamento avendo poca conoscenza e consapevolezza dei programmi delle coalizioni che si stanno fronteggiando. Meno insulti e più proposte sarebbe un metodo auspicabile.

Credo però che per rimettere in moto il nostro Paese si possa ripartire anche dal basso, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dai territori, dalle comunità locali.

Il titolo che abbiamo dato al nostro Congresso Provinciale testimonia proprio questo: la volontà di analizzare, costruire e proporre un percorso a cerchi concentrici che intersechi gli scenari più ampi dell’internazionalizzazione dell’economia con quelli a noi più vicini, nel tentativo di offrire idee e progetti a vantaggio di tutta la società.

In questa apertura di relazione potrei declinare completamente tutto il mio intervento di oggi a questo Congresso.

Le piccole nazioni in via di sviluppo sono come barchette di carta e il Fondo monetario, spingendole verso una veloce liberalizzazione dei mercati, le ha messe in un mare in tempesta senza giubbotti di salvataggio.

Eppure la storia della stragrande maggioranza dei paesi industrializzati avrebbe dovuto suggerire una strategia completamente diversa nella sequenza delle riforme da richiedere ai paesi in via di sviluppo.

Basti pensare alle due più grandi economie del mondo – Stati Uniti e Giappone – e a come hanno protetto in modo selettivo alcuni dei loro comparti industriali fino a quando non sono diventati abbastanza forti da poter competere con quelli di altri paesi.

Così come non può funzionare il protezionismo generalizzato, anche una liberalizzazione troppo rapida del commercio genera danni.

Costringere un paese in via di sviluppo ad aprire le proprie frontiere in modo indiscriminato può avere conseguenze disastrose sia sociali che economiche.

È così che sono stati distrutti milioni di posti di lavoro e la povertà non solo non è stata sradicata, ma, al contrario, è aumentata.

Non sono contro il processo di globalizzazione, anzi la globalizzazione può essere una forza positiva. Essa ha cambiato il modo di pensare della gente e ha diffuso l’ideale di democrazia e il benessere.

Questo si è verificato nei paesi che si sono resi artefici del proprio destino con governi che hanno svolto un ruolo attivo nello sviluppo, senza affidarsi stupidamente a un mercato che, autoregolandosi, riuscirebbe a risolvere da solo tutti i problemi.

Negli altri casi la globalizzazione non ha funzionato. Centinaia di milioni di persone hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita perdendo il lavoro e ogni tipo di sicurezza.

Sono dunque le regole della globalizzazione a essere sbagliate e questo accade perché gli organismi che le dettano si basano su una miscela perversa di ideologia e politica che impone soluzioni a favore degli interessi dei paesi industrializzati più avanzati.
Questa concezione, insieme all’applicazione di teorie economiche sbagliate di stampo neoliberista, sta producendo danni enormi.

Dietro l’ideologia neoliberista c’è un modello secondo cui la “mano invisibile” delle forze di mercato guiderebbe l’economia sulla strada dell’efficienza.

Una delle conquiste più importanti dell’economia moderna è stata quella di dimostrare in quali condizioni e in che senso ciò si verifica.

Proprio nel periodo in cui erano perseguite con maggior accanimento le politiche di questo stampo la teoria economica ha dimostrato che, ogni qualvolta l’informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, cioè praticamente sempre, la “mano invisibile” opera in modo imperfetto.

Ciò è vero in particolare nei paesi in via di sviluppo e in quelli ex comunisti. Il sistema di mercato richiede, infatti, diritti di proprietà chiaramente stabiliti e tribunali in grado di farli rispettare.

Esso necessita di una concorrenza e di un’informazione perfetta ma mercati concorrenziali ben funzionanti non si creano dalla sera alla mattina.

L’ideologia del fondamentalismo di mercato ignora l’essenzialità di tali presupposti, essa non è che un ritorno all’economia del laissez-faire propugnata nell’800.

Ma, come la storia ci ricorda, dopo la grande depressione i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, mentre l’operato dei governi che hanno abbracciato le teorie di stampo neoliberista ha imposto interventi che sono andati incontro a conseguenze disastrose.

Oggi più che mai sono convinto che la priorità per controbilanciare e contrastare effetti perversi che da ciò si generano sia ritrovare la speranza nel futuro attraverso una rinnovata qualità della vita.

Abbiamo iniziato l’anno augurando a tutti più qualità della vita, partendo dall’auspicio di un diverso modo di concepire i ritmi e i tempi di vita nella nostra società, per riportare la dimensione “umana” ad un più sereno modo di vivere.

In concreto abbiamo elaborato una bozza di “Protocollo d’intesa per la realizzazione del Piano Regolatore degli Orari” che consegniamo come nostro contributo alla sua realizzazione.

Per iniziare a riflettere su questo non si può che iniziare a riflettere sul lavoro, sulla sua centralità, sul suo valore e su ciò che lo circonda a partire dal concetto di flessibilità.

La flessibilità può non piacere ma è qui per restare a lungo, poiché è intrecciata strettamente coi modelli organizzativi e le tecnologie delle imprese del XXI secolo.

Dato questo presupposto, indichiamo un obiettivo, ossia un principio di riforma della realtà: si può intervenire sulla nuova organizzazione del lavoro e tale intervento «consiste nel rendere meno rigida la flessibilità», dunque nel renderla una «flessibilità sostenibile».

In questo ambito vorrei soffermarmi sul prezzo che ciascun lavoratore deve pagare sul piano personale e sociale, sulle conseguenze del nuovo modo di lavorare che si riflettono sulla famiglia e sulla comunità.
Al momento questi oneri si traducono, in una precarizzazione del lavoro cui pochi si sottraggono: dall’operatore di call center al giornalista, dall’addetto di un’impresa di pulizie al ricercatore universitario, dal gestore di un supermercato al web master.

Nessuno è immune. Nessuno è libero. Quasi nessuno ha un lavoro sicuro.

Se questa è la flessibilità del presente, il mondo del lavoro dovrà in fretta sapersi riconquistare nuove tutele e nuove sicurezze, dovrà inventarsi una flessibilità appunto sostenibile.

Individuato lo scopo, vorrei indicare almeno cinque itinerari per raggiungerlo:

1) fare in modo che la perdita, anche ripetuta, di un posto di lavoro non sia vissuta come un trauma, ossia come un passo verso l'esclusione definitiva dal mercato del lavoro;

2) evitare che dalla precarietà dell'occupazione consegua anche l’instabilità della vita privata;

3) dare continuità e progressione a profili di carriera discontinui;

4) ridare consistenza su nuove basi all'idea di «luogo di lavoro» come luogo di identità personale e integrazione sociale;

5) attenuare le disuguaglianze di genere, età, zona geografica di fronte alla flessibilità.

Tale trasformazione della flessibilità si può e si deve esplicare in determinati interventi. Noi ne vogliamo indicare alcuni:

1) La creazione di istituzioni che accompagnino il lavoratore nel suo frammentato percorso di carriera che diano «una casa stabile ai loro componenti nel momento in cui questi passano da un’occupazione all’altra».

2) La certificazione delle competenze professionali che valga nel passaggio da un’azienda all’altra (così che il lavoratore non scivoli in una sorta di carriera a gambero). Una misura che renderebbe possibile a tutti, non solo ai manager, lo sviluppo di carriere multi-datore.

3) Compiere interventi sull’organizzazione del lavoro di modo che nessuno, a 40 anni o giù di lì, sia già considerato un potenziale esubero e un lavoratore psico-fisicamente obsoleto.

4) Potenziare la formazione rendendola continua e per tutto l’arco della vita lavorativa;

Il lavoro occupa la fase centrale della nostra vita e rappresenta un “bisogno primario” cui l’uomo non può più rinunciare. Al lavoro sono dedicati gli anni migliori della nostra vita, il periodo della nostra massima espressione.

Il lavoro inoltre rappresenta la realizzazione del nostro essere, delle nostre aspettative. Il lavoro occupa le ore più belle della giornata, relegando affetti, famiglia, sport e divertimento a ritagli di tempo fra i più caratteristicamente “stanchi” della giornata, con il risultato di offuscare molto spesso le gioie offerte dal cosiddetto “tempo libero”.

Si può essere stanchi perché si svolge un lavoro pesante, fisico, ma il più delle volte la stanchezza è determinata da un forte disagio, da una situazione di continua tensione, avvertita durante la nostra giornata.

Questa è una caratteristica assai comune fra i lavoratori nell’attuale modello di organizzazione del lavoro, caratteristica riconosciuta ed accettata loro malgrado da tutti come fatto trascendente e relativo alla sfera squisitamente personale delle persone.

Io credo, al contrario, che il problema della stanchezza, del disagio e dello stress di un lavoratore sia un elemento fondamentale da tenere sotto controllo nella società odierna.

L’attuale organizzazione del lavoro e delle comunità locali, infatti, in nome della competitività a tutti i costi, contribuisce a rendere spesso infelici le persone, la dove il significato di “competitivo” è spesso sinonimo di un clima da legge della savana, di una guerra di tutti contro tutti per salire nella gerarchia aziendale o sociale piuttosto che per l’ottimizzazione tempo e delle risorse umane.

Anche per quanto riguarda l’ambito dei luoghi di lavoro spesso si tende a spersonalizzare e rendere asettici e impersonali i nostri uffici, impostandoli alla bruttezza.

Ma allora, se è vero come è vero che il lavoro occupa la parte migliore della nostra vita, e se le caratteristiche dei nostri luoghi di lavoro sono quelle appena espresse è evidente che esiste un controsenso molto forte cui la nostra società deve assolutamente riflettere e mettere mano.

La distribuzione dell’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro segue in grandi linee le indicazioni individuate da Taylor nel 1800, quando il livello tecnologico era per lo più meccanico e manuale ed il livello culturale medio vicino all’analfabetismo.

Oggi utilizziamo ancora quel modello, utilizzando orari di lavoro sempre più lunghi: pensiamo all’utilizzo dell’overtime che è ormai prassi acquisita nel nostro Paese.

Siamo dunque così convinti che questo sia il modello che porta alla competitività?

E le comunità locali devono rincorrere questo modello per compiacere al sistema economico?

Un’organizzazione del lavoro ha lo scopo di garantire il massimo risultato con il minimo sforzo. Spesso accade il contrario e demotivazione, inefficienza, stress e cinismo regnano sovrani.

Per molti si continua a preferire dipendenti o cittadini sudditi e arrendevoli a personalità autonome ed indipendenti.

Se a questo si aggiunge oggi lo spettro delle ristrutturazioni aziendali e subentra la paura di perdere il posto di lavoro ci dobbiamo domandare come stiamo trascorrendo i nostri anni migliori e quale futuro ci può attendere, quale qualità della vita vita ci aspetta e, soprattutto, come faremo ad essere competitivi con queste premesse.

L’era postindustriale sta attraversando un periodo di forte crisi di identità, la nostra economia sta attraversando un momento di grande incertezza nel quale le nostre imprese si trovano spesso impantanate. Le stesse istituzioni Locali arrancano in un oceano di ristrettezze economiche e pastoie legislative, a volte anche in autoreferenzialità.

E’ evidente la necessità di un radicale e rapido cambiamento di rotta che garantisca un buon lavoro per tutti e mantenimento di un livello soddisfacente di standard di vita.

L’esperienza fin qui sperimentata ha visto riorganizzare le economie locali, pubbliche e private, con pesanti ristrutturazioni operate da manager costosissimi che, però, hanno ottenuto risultati positivi in termini economici solo nel breve termine, creando forti disagi tra i lavoratori che si sono visti solo aumentare i carichi di lavoro, il malessere e la paura di essere magari trasferiti o licenziati.

Per i cittadini nella migliore delle ipotesi si è tradotta con un carico fiscale maggiore o un aumento dei costi delle tariffe dei servizi erogati. Nella migliore delle ipotesi però.

Non credo che questa sia l’unica strada per rendere competitive le nostre imprese o per rendere migliori i nostri modelli di vita.

Un’impresa e una società si rinnovano veramente, quando si riorganizza completamente, tecnicamente e culturalmente, impostando la propria struttura da un'altra ottica. Questo si deve chiedere ad un bravo manager, questo devono perseguire gli azionisti e gli amministratori.

Se il successo che ha avuto la diffusione delle politiche di Responsabilità sociale delle imprese poteva far ben sperare in questo senso, purtroppo, ad oggi, essa rimane ancora troppo spesso un’utopia in particolare nei confronti degli eletti della politica.

Se molte sono le imprese e gli Enti che hanno intrapreso iniziative responsabili, rarissime sono quelle che hanno posto al primo posto il fuoco della propria attenzione i propri dipendenti, la loro salute nel senso più ampio del suo significato, il luogo di lavoro, insomma il loro benessere, basta guardarsi intorno anche qui a Piacenza.

Eppure i lavoratori sono il vero fulcro di un’impresa e anche di una società, sono stakeholders due volte, come lavoratori e come cittadini, e quindi dovrebbero essere i portatori d’interesse privilegiati.

E’ sui lavoratori e sull’ambiente di lavoro e di vita che si gioca la partita di un cambio di rotta effettivo del nostro sistema economico e sociale.

Quante sono, in effetti, le aziende che, nell’assegnare i compiti ad un lavoratore tengono effettivamente conto delle sue capacità e delle sue condizioni in rapporto alla loro salute e sicurezza, dove per salute e sicurezza si intendere un ampio esame degli effetti e delle sintomatologie legate alla vita lavorativa, come lo stress, la depressione, il disagio.

Quante sono le Istituzioni e le imprese che effettivamente operano con efficienza in questo senso?

Mi rendo conto che il cambiamento cui alludo è difficile e tutto in salita, ma non utopico.
Il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz sostiene che occorre riconoscere “l’importanza delle riforme, non dimenticando però che queste devono essere introdotte secondo tempi e sequenze precise ed occorre interpretare il cambiamento non come semplice questione economica, ma come parte di una più ampia evoluzione della società”.

In queste poche righe ritroviamo molto del nostro agire passato, presente e credo anche futuro.

Molto possono fare i lavoratori, facendo sentire la propria voce, mettendo in risalto la propria creatività, assumendo un ruolo nei luoghi di lavoro che esalti la propria iniziativa e la propria dignità, diventando cittadini attenti e impegnati nelle scelte che li riguardano.

La frenesia del consumismo ci ha fatto perdere di vista i veri obiettivi.
Voglio tornare sullo stress che, a mio avviso, è un malessere assai diffuso e poco considerato fra le sintomatologie incluse nella sfera della salute e sicurezza.

Il carico di lavoro, la paura di non essere all’altezza, il raggiungimento degli obiettivi di budget assegnato uniti a pratiche burocratiche insensate e al timore di non essere più necessario sono tra le cause più comuni del disagio provato dai lavoratori e causa di sintomi che segnano profondamente la vita privata e sociale di un individuo.

Le aziende tendono a scaricare questo tipo di cause solo sulla capacità di adattamento dei singoli dipendenti, le Istituzioni a volte sui cittadini.

Certo è che la salute e sicurezza di molti cittadini è stata spesso trascurata in nome dell’utile e del profitto oppure in nome di un non ben configurato sviluppo. Così come spesso è accaduto con l’etica, con il risultato prodotto dai megascandali degli ultimi tempi.

Non ci può essere cambiamento se non ci si pone di fronte ai temi legati alla governance da un punto di vista nuovo, solidale e partecipativo.

Nella creazione del valore occorre pertanto allargare lo scenario anche ai beni immateriali, costituiti dalla qualità dei rapporti con tutti i soggetti interessati.

Ovviamente a noi del Sindacato interessano in primo luogo i lavoratori, ma non ci sottraiamo ad una valutazione più ampia che coinvolge anche gli altri partners, dichiarandoci disponibili ad assumerci la nostra parte di responsabilità per realizzare questo nuovo modello di società e di impresa.

Siamo favorevoli, anche per questi motivi, a una presenza negli organi decisionali dell’impresa di rappresentanze del mondo del lavoro, con una chiara scelta per il sistema duale che separa la gestione dai poteri di indirizzo e controllo.

Così come a percorsi partecipativi veri, in cui confrontare prima il quadro degli obiettivi di qualità di vita da raggiungere e poi quello economico. In questo contesto, i temi affrontati oggi possono essere governati con spirito, metodo e risultati diversi.

Investimenti in salute e sicurezza non sarebbero visti esclusivamente con l’occhio attento al conto economico, ma entrerebbero in una normalità di politiche rivolte alla salvaguardia del bene principale: la persona e il suo vivere.

E’ straordinario considerare che per tutelare i propri beni materiali non si bada a spese, ma quando si tratta di spendere per la sicurezza e il benessere delle persone, le difficoltà appaiono insormontabili.

Un’impresa o un Ente Locale socialmente responsabile, governati in modo aperto e trasparente, veramente attenti alla tutela del suo personale, hanno una ben più alta probabilità di uscire dalle statistiche negative, tanto amate dai tecnocrati.

Così come ragionare di un modo diverso di governare il territorio apre profonde perplessità in particolare da chi si sente l’unico e indiscusso protagonista.

Ci sono visioni diverse e preoccupazioni diffuse nell’allargare l’impegno e il coinvolgimento su questa nuova modalità di esercitare l’azione sindacale. Molti preferiscono mantenere il sindacato nei suoi tradizionali confini, forse perché non hanno idee in testa.

Noi della UIL abbiamo deciso di correre il rischio di essere strumentalizzati, di dare il nostro sostegno a chi magari non è completamente convinto o sincero nel praticare fino in fondo la responsabilità sociale, perché convinti che il possibile risultato positivo di tali iniziative vada perseguito ad ogni costo.

Per noi che da anni abbiamo caratterizzato la UIL come il sindacato dei cittadini, la responsabilità sociale è un naturale terreno di confronto, di iniziativa e di partecipazione, per migliorare la capacità di tutela dei lavoratori, ma anche e forse soprattutto per far progredire la civiltà, la cultura e lo sviluppo sostenibile nel nostro Paese.

Quindi l’esigenza di essere molto chiari e concreti, nelle proposte, nelle azioni, nei progetti, nella comunicazione, nell’equilibrio con cui conduciamo il nostro fare quotidiano, senza alcuna ambiguità.

E altrettanto dobbiamo pretendere dalle Istituzioni che governano il Paese, ad ogni livello. Questo è parte di ciò che chiediamo si tenga conto nel prossimo Patto Strategico nell’elaborazione della griglia di criteri da cui individuare i progetti necessari al rilancio di Piacenza.

La qualità della nostra vita dipende anche da un vero recupero del potere di acquisto dei salari e delle pensioni.

Nelle perduranti polemiche sul costo della vita è in gioco qualcosa di più della verità sui prezzi. E’ in gioco la verità sulla condizione del Paese.

Per una quota rilevante delle famiglie italiane si sta realizzando un quadro di crisi reddituale seria, che risulta aggravato da un sistema di welfare incompleto e spesso inefficace.

Intervenire detassando gli aumenti contrattuali e rivisitando l’Accordo di Luglio ’93 diventano passaggi dovuti e possibili per ridare ossigeno sia all’economia interna del Paese che alle famiglie.

Per ridare la speranza ai giovani di potersi costruire un futuro.

L’esigenza di sapersi mettere in ascolto, di analizzare la realtà, e su di essa disegnare un proprio originale modo di essere, chiama in causa nuove categorie, nello stesso tempo di pensiero e di forme organizzative.

Sarebbe per noi un gravissimo errore non osservare e saper cogliere che è tra i giovani che si possono cogliere i segnali di una contro tendenza, considerandoli insensibili e disinteressati, con i quali è impossibile comunicare.

Il messaggio che dobbiamo portargli deve essere alto, riscoprendo i nostri ideali di ieri, che ci hanno guidato in fasi splendide ed esaltanti della Storia del nostro Paese, quasi un nuovo Rinascimento condotto da classi dirigenti illuminate e non ripiegate su sé stesse alla ricerca esclusiva del vantaggio personale.

Ma dobbiamo soprattutto avere la capacità di ascoltarli e di saper discutere anche dei loro problemi.

Libertà, solidarietà, diritti e lavoro, riconoscimento delle differenze, questi i valori da cui ripartire per una nuova stagione di democrazia ed uguaglianza.

Non è rispolverare qualcosa di vetusto se questi concetti li inquadriamo in direzione delle nuove spinte ideologiche e dogmatiche che professano la supremazia di un “qualcosa” su chi non è considerato allineato, alle follie che esso propaganda oppure alle azioni illecite che promuove.

Gli stessi ideali di libertà e solidarietà sono troppo spesso parole, e soprattutto parole di cui troppo spesso si fa abuso.

La tratta di nuovi schiavi, il commercio di esseri umani o dei loro organi, sono fatti di attualità e non ricordi del passato, così come resta ancora da risolvere per miliardi di persone problemi quali la fame, la povertà, il degrado e la pace.

Ancora oggi sono calpestati, inespressi e ancor di più ignorati i diritti individuali e le libertà civili in molte parti del mondo.

Allora deve rinascere in noi tutti, e noi tutti abbiamo il dovere di trasmettere alle nuove generazioni la convinzione che ognuno può essere libero solo se tutti lo sono.

Dobbiamo riscoprire il significato originario della solidarietà che non può essere quello della pratica dell’elemosina ma quello dell’unione di persone per il bene comune, nel riconoscimento di interessi coincidenti e condivisi, dove condividere vuol dire fare un passo indietro rispetto al proprio interesse personale a vantaggio di quello collettivo.

Su questa strada si deve operare anche per l’affermazione dei nuovi diritti che la globalizzazione fa nascere. Nuovi soggetti ma anche nuovi bisogni, pensiamo solo alla tutela dell’ambiente e dall’inquinamento, all’alimentazione e ai consumi, alla ricerca genetica.

Progettare un futuro più sereno significa per noi avere in mente una società solidale, che possa vantare una rete di relazioni territoriali e decisionali ad ampio raggio, (non a senso unico per intenderci) capaci di mettere in contatto esperienze e soggetti diversi, riprendendo pratiche dimenticate o in alcuni casi male interpretate come la concertazione e la partecipazione.

Sgombriamo quindi il campo anche da tutta una serie di tentennamenti che anche in casa nostra in qualche frangente sono apparsi.

Le esperienze di successo insegnano che le libertà di mercato possono essere potenti leve per promuovere un sano sviluppo ma che altrettanto importante è il grado di consapevolezza che i cittadini hanno delle innovazioni strutturali e del governo dei beni comuni.

Un vento benefico soffierà se le azioni e le scelte quotidiane saranno coerenti e conseguenti a quei sentieri di crescita che la sovranità dei cittadini saprà indicare, interpretando al meglio lo stato delle cose adottando, di conseguenza, le necessarie iniziative per tentare di migliorarlo.

In questo contesto i costi di formazione del consenso democratico non rappresentano diseconomie, ma valori positivi che creano le condizioni necessarie per la determinazione di politiche adeguate ad affrontare le sfide dei nuovi mercati.

Ma i comportamenti cui assistiamo continuano a rispondere a paradossali sdoppiamenti tra intenzioni e comportamenti caratterizzati da una predisposizione passiva e da un senso di colpa che si scioglie in un’autoassoluzione.

Uno sdoppiamento che nel nostro Paese appare ancora più evidente se osserviamo le altre realtà europee che si trovano ad affrontare con uguali difficoltà le potenti spinte generate sia dall’integrazione europea sia dalla globalizzazione.

In effetti, tutti i maggiori paesi UE, nonostante la comune difficoltà di definire sentieri di crescita in grado di conciliare la necessità di un aumento di competitività con una qualità soddisfacente della vita e dell’ambiente, mostrano una maggiore capacità di coesione rispetto all’Italia.

Sicuramente hanno una più alta capacità di cittadinanza attiva, condizione strettamente correlata al livello di responsabilità e sensibilità verso il “bene comune”.

Questo consente di sviluppare in maniera più efficace e coerente non solo processi di definizione delle strategie nei diversi gradi di governo ma anche di rafforzare la capacità nazionale a partecipare alla determinazione delle scelte europee.

Ma per raggiungere una capacità di azione così alta, dopo aver ridefinito un metodo di relazione, per prima cosa dobbiamo operare una seria ed attenta Riforma della Pubblica Amministrazione.

Puntare sull’efficienza e sulla valorizzazione delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione non può essere solo una battaglia del sindacato, ma deve essere un’azione della politica.

Noi ci battiamo per ricreare condizioni culturali in cui l’amministrazione pubblica e i suoi dipendenti siano in grado di: assicurare valore aggiunto; riequilibrare la ricchezza e distribuirla in modo più equo.

Questo passa per un progetto di investimenti che diano sostanza a questi risultati. Ripuntare sul pubblico, investire nel pubblico, significa rendere competitivo il paese, ridurre se non eliminare le disuguaglianze, le emarginazioni e le povertà.

Concetto quest’ultimo che può essere mutuato anche ai livelli inferiori di governo della cosa pubblica.

I terreni di confronto e di collaborazione non ci mancano: welfare locale, Azienda USL ad area vasta, trasformazione delle IPAB, Bilanci di previsione, PUT, solo per citarne alcuni. A volte però abbiamo la sensazione che manchi la volontà di procedere nei fatti su questa strada, speriamo sia solo una sensazione.

Su queste basi credo sia importante declinare in modo chiaro cosa noi intendiamo per concertazione, perché riteniamo importante questa pratica, perché l’attuale livello di confronto non ci soddisfa.

Come sosteneva Kant: “il potere legislativo può sottostare alla volontà collettiva del popolo. Ed è da questo potere che devono provenire tutti i diritti, esso non deve assolutamente poter arrecare ingiustizia a qualcuno con le sue leggi. Soltanto la volontà concorde e collettiva di tutti, in quanto ognuno decide la stessa cosa per tutti e tutti la decidono per ognuno, per questo solo la volontà del popolo può essere legislativa.”

Ma non dimentichiamo che il diritto moderno nasce, secondo Thomas Hobbes, attraverso la distruzione della pretesa di verità: “auctoritas, non veritas fecit legem”. Per questo il diritto va sganciato da qualsiasi fondamentalismo.

Proprio per questo, a parer mio, è completamente giusto che un parlamento, un consiglio provinciale, comunale o una giunta in una democrazia partecipata sono sovrani, ma questo non preclude il diritto di critica.

Dunque la cittadinanza è agire politico autonomo e la sovranità popolare nel tempo non diventa più identità e neanche adesione partecipativa ad una comunità, ma piuttosto condivisione di uno status di diritti civili, politici e sociale e di valori universali.

Con il termine “concertazione” intendiamo una forma di dialogo e di confronto tra soggetti istituzionali, autonomie territoriali, autonomie funzionali e soggetti privati, teso alla risoluzione di problematiche generali o settoriali in ambito territoriale locale, in modo da realizzare strategie il più possibile condivise e partecipate.

L’obiettivo della concertazione, di conseguenza, è di giungere a scelte che siano il più possibile condivise, concertate e partecipate, in modo da favorire un incremento delle informazioni per le parti contraenti e per le amministrazioni responsabili degli interventi, realizzando una maggiore efficacia degli investimenti ed una maggiore capacità di monitorare i processi ed i loro esiti.

Essa si sostanzia in un momento permanente di confronto, il “tavolo di concertazione”, cui partecipano tutti i soggetti interessati.

La concertazione, trova fondamento nella collaborazione tra istituzioni pubbliche e private, parti sociali ed economiche, costituisce uno strumento finalizzato alla promozione e allo sviluppo del territorio; infatti, alcuni interventi sul territorio volti a risolvere difficoltà presenti e radicate in esso, per poter essere efficaci, richiedono l’apporto di diversi soggetti: tale collaborazione si concretizza proprio in un’attività di concertazione.

Lo sviluppo locale è allora il risultato della scelta di servirsi della concertazione una volta definiti gli obiettivi prioritari da raggiungere in quel territorio di riferimento.

E sulla via dello sviluppo sostenibile è più che mai di attualità riflettere sulla crisi energetica che investe tutto il mondo stringendolo in una morsa dai caratteri geopolitici, economici ed ambientali.

Possiamo dire che si sta in parte verificando quanto avevamo prospettato nel nostro precedente Congresso Provinciale, in quella sede lanciammo l’allarme rispetto alla riduzione delle riserve dei giacimenti petroliferi e delle tensioni sulle reti di approvvigionamento che ciò avrebbe comportato rendendo instabili e insicure vaste zone del mondo.

La condizione del nostro Paese, in questo contesto mondiale, è particolarmente grave e la morsa in cui l’Italia è stretta è durissima, nonostante gli appelli rassicuranti del Governo.

In primo luogo perché buona parte dei nostri approvvigionamenti provengono da paesi con forti tensioni; sul piano economico, le fonti primarie da noi usate in prevalenza scontano prezzi internazionali altissimi (in particolare gli idrocarburi), mentre sul piano del governo del sistema le azioni messe in campo fino ad ora sono non solo di difficile attuazione e verifica ma anche insufficienti.

La stessa mancanza di integrazione ed indirizzo a livello europeo abbassa notevolmente la possibilità di elaborazione e gestione di strategie energetiche di medio e lungo respiro.

L’insieme di tutto questo rischia di generare una seria minaccia per la competitività e la sicurezza del Paese.

Un futuro migliore per l’Italia, invece dipende in gran parte dalla capacità del Paese di rispondere alle grandi sfide energetiche – ambientali, quindi è necessario intervenire in profondità e celermente con un ricorso strategico all’aumento dell’efficienza energetica e uno sviluppo accelerato delle fonti rinnovabili, con la diffusione della cogenerazione di energia elettrica e calore e con un serio investimento a sostegno della ricerca e dell’innovazione tecnologica.

La competitività del paese ha bisogno tanto di energia a minore costo, quanto di un sistema energetico rinnovato e ambientalmente sostenibile.

Credo che il Protocollo di Kyoto rappresenti un’opportunità per guardare e pensare con fiducia verso l’innovazione delle politiche energetiche e per una riduzione della dipendenza dall’importazione di combustibili fossili.

Attuarlo, valorizzando le sue ricadute positive nel nostro Paese con misure interne che permettano di raggiungere almeno l’80 % degli obblighi di riduzione, e facendo ricorso, per la parte restante, agli interventi di cooperazione internazionale previsti dal Protocollo stesso, significa garantire in modo adeguato la transizione della nostra economia verso un futuro “non fossile”, a condizione di saper abbandonare l’approccio ideologico che in questo campo ha sempre prevalso.
Le direttrici su cui operare sono diverse e possono essere cadenzate in un arco di tempo medio lungo, ma occorre partire subito, ulteriori indugi sarebbero preoccupanti.

Noi vogliamo indicarne alcune e accanto a queste fornire possibili soluzioni:

- nel settore elettrico, con l’aumento dell’efficienza negli usi finali e nella produzione, con la generazione distribuita e la cogenerazione, e con un forte sviluppo delle fonti rinnovabili (eolico, biomasse, fotovoltaico, solare a concentrazione, solare termico, idroelettrico di piccola taglia, geotermia);

- nei trasporti, riequilibrando le modalità a favore della ferrovia, del cabotaggio e del trasporto collettivo, migliorando l’efficienza energetica dei mezzi di trasporto e incrementando l’uso dei biocarburanti e del gas naturale attraverso un potenziamento della rete di distribuzione per l’autotrazione;

- nell’industria e nei servizi, incentivando l’innovazione di processo e di prodotto si può aumentare l’efficienza energetica;

- nel settore civile, migliorando gli standard energetici degli edifici, i sistemi di riscaldamento e raffreddamento, l’efficienza energetica degli elettrodomestici e dell’illuminazione;

- nell’uso efficiente delle materie prime, nella riduzione dei rifiuti prodotti e nell’ampliamento del riciclo,

- nell’avvio di un programma di informazione che faccia crescere in particolare nelle nuove generazioni un uso più consapevole delle risorse energetiche;
- nella riforma della vecchia tariffa sociale dell’elettricità che aggiorni l’attuale meccanismo ormai inefficiente e vetusto.

Piacenza in questo ambito può cogliere diverse opportunità, rimarginando le ferite che il territorio e il suo sistema economico – occupazionale in questo settore si porta appresso, aggravate dall’avvio del cosiddetto processo di liberalizzazione del settore elettrico.

La prima, riguarda l’ex-Centrale nucleare di Caorso; il dibattito di questi ultimi mesi sul progetto IGNITOR ha solamente definito, nemmeno in modo convincente, i favorevoli e i contrari.

Personalmente, non mi interessa prenderne parte così come lo considero limitativo rispetto alle riflessioni che invece andrebbero fatte in proposito.

Penso, invece che andrebbe ripreso il percorso di confronto sul processo di decomissioning e sui suoi aspetti complessivi di prospettiva, in particolare per quanto riguarda la questione dello smaltimento delle scorie radioattive in termini di concretezza e rapidità.

Dico questo convinto che una ripresa del programma nucleare in Italia oggi non è proponibile, che l’individuazione di azioni di messa in sicurezza del combustibile e delle scorie esistenti siano quanto mai urgenti e che la partecipazione in sede internazionale alla ricerca sul nucleare pulito di nuova generazione possa essere un’occasione da non perdere.

La Conferenza Stato – Regioni non ha saputo individuare il sito nazionale per lo smaltimento definitivo e il materiale mandato all’estero per il riprocessamento ritorna nella sua sede di origine ogni volta: Caorso.
A questo punto vorrei fare una provocazione: considerato che su questo versante a tutt’oggi, e non si sa per quanto ancora, non si vedono soluzioni all’orizzonte, perché non indicare ufficialmente il sito come deposito nazionale temporaneo?

Almeno saremmo più onesti intellettualmente tra noi e verso i cittadini e forse si contribuirebbe a creare quella spinta emotiva accelerarando i processi decisionali per l’individuazione della soluzione definitiva.

La seconda ferita è nella ormai criticità e debolezza del Polo Elettrico Piacentino. Questo importante segmento dell’economia e dello sviluppo del nostro territorio dopo che ha rappresentato un volano per lo sviluppo ed un’eccellenza per il territorio, rischia attraverso la frantumazione avvenuta, di morire “d’inedia”.

Puntare quindi allo sviluppo di un centro di eccellenza per il settore energetico e ambientale, che svolga attività di ricerca e diffusione tecnologica soprattutto sulle soluzioni a rete, può diventare nuova linfa vitale per il suo rilancio e consolidamento.

Nuova linfa vitale e nuovo volano per un rilancio dello sviluppo sostenibile insieme ad altri grandi progetti come il recupero delle Aree Militari dimesse, la costituzione del Polo Industriale Militare, l’individuazione di strategie di crescita a valore aggiunto per la logistica, potranno costituire uno straordinario slancio verso una rinata vitalità della nostra economia.

Questo vuole essere il nostro contributo al dibattito, in modo come sempre originale e libero.

I caratteri politico – culturali di un’organizzazione sociale come la UIL non costituiscono in alcun modo un’opzione di schieramento simile a quello esercitato dai partiti politici.

L’identificazione di valori sociali con alcune formazioni politiche, non limiteranno mai e non pregiudicheranno la nostra funzione di sindacato che, per essere veramente autonoma, deve potersi confrontare senza alcun rapporto preferenziale e senza pregiudizi con ciascuna forma di governo, di amministrazione, di ente e di impresa.

La UIL è sempre stata e resta un’organizzazione di persone libere che possono avere opzioni politiche diverse: persone che si ritrovano insieme ed unitariamente decidono nel rispetto rigoroso del mandato fiduciario conferito dalle iscritte e dagli iscritti.

Questa tradizione, questa cultura, questi valori ci assegnano un ruolo particolare all’interno del Sindacato Confederale: - particolare per l’indipendenza nei progetti e nelle azioni; assolutamente autonoma nei giudizi e nei comportamenti; completamente libera da condizionamenti politici, governativi e imprenditoriali.

Un Sindacato che può confermarsi, se lo vuole, come un grande soggetto politico, indipendente verso l’esterno, perché forte della sua cultura, della sua storia, dei suoi progetti sociali e dei modelli di società per i quali ci battiamo.

Nelle discussioni che ci troveremo ad affrontare in ogni sede non dobbiamo farci trascinare né dall’atteggiamento solidaristico di impostazione cattolica che guarda più all’assistenzialismo caritatevole, né dal fondamentalismo marxista leninista che assicura a prescindere da tutto a tutti la stessa cosa.
Noi dobbiamo guardare con la nostra impostazione laica e riformista che è tanta parte della nostra storia. Cioè di una democratizzazione dello stato attraverso la partecipazione e la gestione dei cittadini.

Essa deve consolidare la tesi riformista della trasformazione dello stato per via concertativa attraverso la progressiva assunzione di sempre più livelli di partecipazione da parte delle organizzazioni dei lavoratori e dei cittadini.

Per fare questo non si può non entrare nel dibattito sindacale che tende a dividere in due le posizioni: una sempre negativa verso qualsiasi cambiamento, con una posizione che appare dogmaticamente di opposizione e politica, l’altra, troppo acquiescente, che da l’impressione di accettare la novità a prescindere e rischia anche essa di apparire politica al contrario.

Credo che in questa fase dobbiamo recuperare una battaglia di immagine, di dialogo e di proposta, anche con soluzioni organizzative di maggior respiro operativo, che collochi la nostra tradizione riformista e soprattutto autonoma dalla politica, nel dibattito sindacale non come terzo modello, ma come modello di sindacato che esca dagli stereotipi o dalle classificazioni.

Recuperando in primo luogo la tradizione che ha prodotto delle grandi evoluzioni nel movimento sindacale proprio con quello spirito di ritenere che il presente lo si costruisce avendo un legame con il passato.

Proprio nei primi anni del 1900 il riformismo socialista nei settori dell’istruzione, della salute e dell’igiene, della giustizia, dei trasporti e dei servizi essenziali, si faceva paladino non solo della difesa degli interessi di categoria in nome della valorizzazione della professionalità, ma anche della
riforma dei servizi in relazione alle nuove funzioni di uno stato moderno e democratico.

L’Avanti, nel 1907, sosteneva che: “ l’impegno della cultura riformista verso la scuola era a salvaguardia della scuola laica che doveva essere indipendente da tutti, neri, verdi, rossi di tutti colori, e costruire una scuola che chiamasse a sé i migliori uomini che fossero disponibili sul mercato, che la misura degli stipendi permettesse di attirare senza preoccuparsi delle idee politiche o religiose o scientifiche di ciascuno, senza badare se vestono la tonaca o se portano la cravatta rossa, affinché essi insegnino agli alunni non quello che essi o il governo credono che sia la verità, ma in modo, con la forza della ragione, con animo libero da pregiudizi da preconcetti, che ognuno debba cercare la verità….. una scuola in cui gli insegnanti siano assolutamente liberi nell’esercizio della loro missione e non debbano rispondere a nessuna autorità ma ad autorità tecniche……Una scuola educatrice di libere e forti coscienze, avversa a tutte le tirannie.”

Quel riformismo e quella laicità di partiti quali il socialista, il socialdemocratico ed il repubblicano ha tradotto in tante leggi proposte innovative e dirompenti dalla nazionalizzazione dell’energia allo statuto dei lavoratori, dalla riforma della scuola media all’istituzione delle regioni; dalla politica dei redditi alla lotta all’inflazione; dalla riforma sanitaria a quella previdenziale negli anni del centro sinistra.

Collegato a questa impostazione vi è l’esaltazione di un modello di sindacato, anch’esso libero e riformista, che è un sindacato naturalmente non massimalista, perché deve tendere se vuole tutelare integralmente i lavoratori, alla trasformazione delle attuali strutture capitalistiche, le quali giunte alla loro fase monopolistica impediscono ogni effettivo progresso economico e sociale e rendono difficile la tutela efficace degli interessi dei lavoratori.

Un sindacato che non vuole essere pansindacalista, ma vuole affermare l’idea che l’azione quotidiana in vista del miglioramento delle condizioni di tutti i lavoratori non può accettare limiti e condizionamenti di sorta alla propria azione e al progressivo avanzamento dei lavoratori.

Un sindacato che opera secondo i metodi del gradualismo democratico che deve sostanziarsi di contenuti economici e sociali, tradursi in una più ampia democrazia nella società.

Perché la democrazia confermi la concordia civile e la giustizia sociale è necessario che i diritti politici dell’uomo come cittadino siano accompagnati e sostanziati dai diritti sociali dell’uomo come lavoratore e cittadino.

Laddove i diritti sociali non sono riconosciuti e realizzati concretamente, non abbiamo effettive libertà politiche, non abbiamo effettiva democrazia.

Noi siamo i continuatori di quella cultura e di quella storia. Della storia di uomini come Bruno Buozzi.

Egli era fermamente convinto del principio della gradualità delle conquiste sindacali, rifuggendo dalle facili suggestioni propagandistiche e dalla demagogia che invece caratterizzava i sindacalisti rivoluzionari dei primi anni del secolo.

Politiche riformiste come la politica dei redditi e la concertazione, intuizioni come quella del sindacato dei cittadini, sono chiari esempi di un patrimonio genetico ereditato che ci consente di fare proposte innovative sulle quali, purtroppo molto spesso, gli altri si riconoscono solo dopo un lacerante percorso, al quale un diverso patrimonio genetico li costringe.

Negli anni si è cercato di onorare questa memoria e auspico che si possa proseguire così, coniugando i valori e gli ideali del passato con la pratica e l’azione quotidiana che il nostro lavoro di sindacalisti richiede.

La cultura che ci caratterizza può aiutarci a realizzare un cambiamento importante nel modo di pensare e rappresentare la società ed il mondo del lavoro. Possiamo assumere l’iniziativa per il cambiamento ricreando appunto quelle speranze e quegli ideali che sono stati patrimonio e valori di generazioni che hanno saputo migliorare la loro condizione e non hanno vissuto nella rassegnazione e nell’alienazione collettiva.

La conoscenza del passato ci aiuta a capire il presente. E’ giusto ribadire le tante azioni del passato che hanno prodotto conquiste di diritti e di tutele nel lavoro e nella società civile.

La coscienza e la militanza si formano su valori, che non nascono immediatamente e in modo spontaneo, ma attraverso la consapevolezza del grande sacrificio dei tanti, e di uomini come Bruno Buozzi, che con il loro esempio e comportamento hanno determinato l’evoluzione in positivo della società.

Cerchiamo di essere degni di questa eredità che è un pregio, ma è anche un impegno notevole, perché non è facile a volte seguire le strade più difficili, e quella riformista è a volte una strada difficile, però è sempre una bella strada perché conduce alla libertà, alla giustizia ed al progresso.

Nessun commento:

Posta un commento