Quelle ricette troppo deboli
di
Michele Salvati
dal Corriere della Sera del 23/2/09
Sarebbe sbagliato se la discussione su «Il contratto con gli italiani» di Berlusconi, provocata dal bel libro di Luca Ricolfi («Tempo scaduto», Il Mulino), acquistasse un significato maggiore di quello che può avere nella valutazione del governo di centrodestra. Dalla sua analisi Ricolfi trae la conclusione che il contratto non è stato rispettato (non si rispetta un contratto se si soddisfano solo in parte gli impegni assunti) e dunque Berlusconi dovrebbe oggi onorare la promessa di non presentarsi alle elezioni.
Ma basare su uno strumento propagandistico, sia pure efficace e innovativo come il contratto «stipulato» a Porta a Porta, il giudizio su chi votare nelle prossime elezioni politiche significa accettare l'agenda di una delle due parti in causa: anche se Berlusconi avesse rispettato il suo contratto al 100 per cento, il governo ha fatto (o non ha fatto) tante altre cose che possono egualmente indurre un elettore a preferirgli l'avversario. Ce n'è una, in particolare, su cui vorrei insistere, perché il centrodestra sembra non aver tratto alcuna lezione dalla sua esperienza di governo e presenta un programma per la prossima legislatura molto simile al precedente. La promessa cardine del «contratto», quella della riduzione delle imposte sul reddito, era giustificata da un'analisi che faceva risalire il ristagno economico del nostro Paese alla debolezza della domanda, allo scarso dinamismo dei consumi: bastava lasciare un po' più di quattrini nelle tasche degli italiani, e insieme lasciare un po' più libere le imprese sul mercato del lavoro, per far ripartire la macchina ingrippata dell'economia italiana.
Questa è una visione dei nostri guai del tutto sbagliata e Francesco Giavazzi (Corriere, 17 febbraio, e poi ancora ieri) ha fatto bene a ribadire il giudizio contrario, comune a gran parte degli economisti: i nostri guai derivano da una scarsa competitività dell'economia italiana, che può essere curata solo con un'opera inflessibile e paziente di eliminazione di rendite, di liberalizzazione dei mercati, di aumento dell'efficienza, di contenimento dei costi, di stimolo all'innovazione. Queste sono le vere ricette per curare il declino, assai poco seducenti per gli elettori: chi volesse scriverle su un nuovo contratto non otterrebbe molti consensi. E infatti Berlusconi si guarda bene dallo scriverle. Forse anche dal pensarle, perché un'immagine disastrosa dello stato dell'economia italiana come quella confermata dalle stime della Commissione europea che tutti i giornali hanno commentato ieri è intollerabile anche per le teste migliori del centrodestra.
A Davos, tre settimane fa, Tremonti se l'è presa con un economista che paventava per l'Italia una crisi argentina: ma quale può essere lo sbocco di una situazione così grave — e l'Unione europea oggi non ci fornisce alcun albero a cui legarci per resistere alle tentazioni — se non riusciamo a impostare con le nostre sole forze un programma che accetti i costi politici di un grande sforzo competitivo. Da quanto si deduce dal suo programma, il centrosinistra sembra più consapevole delle condizioni reali della nostra economia e della necessità di una politica dell'offerta. Ma è pienamente legittimo chiedersi se i riformisti avranno la forza di imporre all'intera coalizione le misure impopolari che discendono da quell'analisi: è questo il motivo per cui le esitazioni sulla Tav — pienamente legittime se affrontate e risolte a tempo debito — fanno una brutta impressione quando sembrano essere la conseguenza del riaccendersi di proteste popolari condivise e ampliate dalle componenti più radicali dello schieramento di centrosinistra.
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