lunedì 24 gennaio 2011

Un mondo complesso ha bisogno di regole semplici

Perché "governare" la complessità significa ucciderla
di Alberto Mingardi
da Il Riformista
24 gennaio 2011

Per citare il titolo di un libro di Richard Epstein, un mondo complesso ha bisogno di regole semplici. Sfortunatamente, la maggior parte dei nostri simili è convinta del contrario. Che altro significa "governare" la globalizzazione? L'idea di fondo è che proprio perché le relazioni commerciali fra gli esseri umani si moltiplicano, proprio perché le imprese private diventano soggetti vieppiù rilevanti e di ampie dimensioni, la cui articolazione interna è in continua evoluzione per rispondere alle nuove esigenze, proprio perché la tecnologia consente interazioni sempre più rapide, sia opportuno «tornare a degli elementi di programmazione economica, almeno sul piano internazionale» (per inciso: il piano internazionale altro non è che la somma dei piani nazionali). La citazione è di Giulio Tremonti, alla presentazione di un libretto celebrativo che raccoglie discorsi di Enrico Berlinguer, ed è stata riportata da Luca Telese sul Fatto. Ma è rappresentativa di un modo di vedere le cose che va ben oltre il ministro dell'Economia, lo unisce idealmente a un altro tipo dall'eloquio funambolico come Nichi Vendola, forma il paradossale vocabolario comune di pragmatici di destra e idealisti di sinistra. Due i punti cruciali. Il primo è una concezione della politica non come conversazione ma come dettato (i lettori perdonino un'imitazione così scarsa degli impagabili originali). La politica non è un lento prendere le misure alla convivenza civile. Al contrario, la politica è insegnare a fare le "a" con la gambetta che piega dalla parte giusta, è un processo dall'alto verso il basso, è l'educazione del popolo, è il contenimento e, per quanto possibile, la canalizzazione dei modi spontanei e caotici e spesse volte incomprensibili in cui uomini e donne decidono di avere a che fare liberamente gli uni con gli altri. Su queste fondamenta si costruisce una complessa architettura di regole. Elementi di programmazione economica, almeno sul piano internazionale. Non è un moto di disgusto per l'economico, non c'è spocchia verso le "istanze produttive". È il rifiuto di ciò che nella società, bello o brutto che sia, sorge per esclusiva iniziativa dei singoli che la compongono. Per rigirare un'altra citazione: tanto Stato quanto possibile, tanto mercato quanto (strettamente) necessario. Le sirene moraleggianti della "austerità" conquistano tutti i timonieri che disprezzano la volgarità dell'equipaggio. Questo nostro mondo consumista, fatuo, non sempre gradevole, magari incapace di capire che Richard Strauss è meglio di Lady Gaga, non corrisponde a nessuna idea, a nessun progetto. A filare la trama siamo tutti noi, giorno per giorno, scambiando moneta con beni e servizi.
Il secondo è una visione "tecnica" della politica. Se la politica è "correzione" della realtà, bisogna che i correttori siano ben equipaggiati. Quanto più la realtà si fa vasta, estesa, ramificata, essenzialmente ingovernabile, tanto più i correttori debbono disporre di competenze il più dettagliate e aggiornate. A un essere umano mediamente sano di mente, l'ambizione non diciamo di comandare, ma di "comprendere" sia pure per sommi capi, ciò che fanno i restanti sei miliardi di persone che vivono sul pianeta, dovrebbe apparire per quello che è: una follia. Invece su questa follia c'è un investimento continuo (finanziato volenti o nolenti dalle tasse di tutti noi). Se la realtà si complica, lo Stato deve reagire complicandosi. Se il mercato si estende, lo Stato deve reagire estendendosi. Se i contratti di lavoro assumono forme diverse, la legge deve reagire accompagnandoli.
E' vero che tecnologie complesse "chiamano" regolatori tecnicamente competenti che pensiamo alle telecomunicazioni, o all'energia - normano le "regole d'ingaggio" di un concorrente con l'altro. Ma si arriva a pensare che qualsiasi rapporto fra privati debba trovare una controparte pubblica in grado di comprenderlo e regolamentarlo.
Questo fa male, fa malissimo, a un mondo complesso. Nel settore privato, la crescita della complessità corrisponde semplicemente al fatto che sempre di più sono i "nodi" della rete, i punti che si toccano. Più persone uguale più relazioni fra persone uguale relazioni sempre non solo nuove ma differenti, perché diversi sono gli esseri umani, le loro esigenze, le loro domande, le circostanze nelle quali vivono e che ne influenzano l'agire.
Nel pubblico, l'innovazione è una sorta di rincorsa, che non si accontenta di produrre "standard" per fattispecie variamente definite. Mira a una regolamentazione puntuale, precisa, e allo scopo sforna regole che andranno a condizionare l'innovazione futura. Calmierandola e limitandola, perché più ristretto è lo spazio nel quale muoversi, e gradualmente sorge il sospetto che tutto ciò che non è espressamente permesso, in realtà sia vietato.
"Governare" la complessità significa ucciderla. Perché la politica come "correzione" della realtà e la politica come bacino di competenze tecniche sono sostanzialmente incompatibili con una società e una economia libere.
C'è differenza fra l'austerità intesa come parsimonia e modestia del governare, e l'austerità come modello di (de)sviluppo spacciato a un paese come esigenza economica, e in realtà pensato come progetto politico per "moralizzare" una società. Attenzione a chi sogna di costringerci tutti al grembiule blu.
Tremonti dice di tornare a elementi di programmazione economica almeno sul piano internazionale. Come Vendola

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