di Andrea Bitetto e Valerio Zanone
da Europa
21 dicembre 2010
Hanno ragione Adolfo Battaglia ed Enzo Bianco su Europa ad invitare le opposizioni a rivolgere la propria offerta all’opinione di centro, dove c’è la sola possibilità di una altenativa realistica.
Ma se, come essi scrivono, non si vuole «perdere il treno del centro» bisogna premere il tasto reset, e rifare i conti con il bipolarismo italiano. Il bipolarismo funziona quando i due poli condividono i fondamenti della cittadinanza e la reciproca legittimazione a governare.
In Italia il bipolarismo funziona male per difetto di entrambi i presupposti. I fondamenti della cittadinanza nazionale traballano quando ministri del governo disegnano sugli auguri di Natale l’Italia alla rovescia, in attesa di poterla tagliare in due. La reciproca legittimazione non può esserci quando questioni di legalità e moralità prevalgono sulle normali scelte pubbliche.
Vogliamo dirla tutta? A costo di dispiacere ad antichi e stimatissimi amici, bisogna ammettere che dal 1994 ad oggi in Italia il corso del bipolarismo viaggia in parallelo con il corso del berlusconismo; e quando, chissà quando, il berlusconismo arriverà alla fine, anche del bipolarismo si dovrà seriamente discutere.
Il bipolarismo italiano è arrivato alla resa dei conti, ed i conti non tornano. Su questa esplicita constatazione si è formata per iniziativa di Francesco Rutelli l’Alleanza per l’Italia, e si è formato per iniziativa di alcuni liberali un comitato per sostenerla (www.comitatoliberale.it). Come liberali, dobbiamo fare ammenda di non aver tenuto in maggior conto la nostra storia, perché nella storia dei liberali italiani c’è la soluzione di un dilemma oggi molto dibattuto: se moderatismo e riformismo possano convivere, e se la convivenza di moderatismo e riformismo possano dare l’ubi consistam a ciò che si chiama “centro”.
Qui tornano a proposito i 150 anni dell’unità d’Italia. Dall’unità ad oggi l’Italia ha conosciuto i governi di tre statisti quali Cavour, Giolitti e De Gasperi. Tutti e tre hanno governato dal centro, lasciando al margine le estreme. Tutti e tre si sono autodefiniti moderati. Il moderato Cavour ha dato uno stato alla nazione, il moderato Giolitti ha aperto ai ceti popolari l’accesso alle istituzioni civili e sociali, il moderato De Gasperi di concerto con Einaudi ha ricostruito il paese devastato dalla guerra. Può bastare come dimostrazione che nella storia d’Italia i maggiori riformatori sono stati i moderati, osteggiati dalle estreme ma soprattutto dalle destre del tempo.
Oggi il centro moderato-riformatore deve costituire le condizioni per offrire ai suoi potenziali elettori una alternativa di governo. La triade di centro, come la chiamano Battaglia e Bianco, aveva lo scopo essenziale di raccogliere nella camera dei deputati una maggioranza che revocasse la fiducia al governo. Ci ha provato e non è riuscita. Ma i numeri fra governo e opposizioni sono di sostanziale parità e sono i numeri della triade di centro a fare la differenza.
Il voto del 14 dicembre ha, crediamo, finalmente sancito non la solidità del bipolarismo italiano, come usa dire, ma la struttura del panorama politico italiano. La destra impersonata dal Cavaliere è una destra democratico-plebiscitaria, con toni giacobini nella interpretazione stessa del mandato popolare. Vano, ad oggi, il tentativo di Fini di mettere a confronto una idea di destra diversa, laica, seriamente conservatrice, assomigliante più al manifesto dei conservatori di Prezzolini che ai depliant propagandistici cari alla macchina berlusconiana.
Da quel voto, poi, è nato – o meglio è in incubazione – un rassemblement che comprende forze del popolarismo, del liberalismo e della democrazia laica, fino a componenti social riformiste e moderate.
Il polo della nazione – a noi piacerebbe chiamarlo polo delle riforme, per chiarirne almeno l’obiettivo – deve porsi, per non fallire, l’ambizioso compito di tentare di rappresentare la forza della democrazia liberale e, sia detto per inciso, con una buona dose di laicità per riuscire a metter d’accordo le diverse anime del progetto. È poi evidente come sia auspicabile che assuma chiara fisionomia una terza area, quella della democrazia sociale che in Italia è, specularmente a quella della democrazia liberale, alquanto evanescente e timida.
Il Partito democratico a guida bersaniana ha tutti i numeri per poter riuscire in un simile obiettivo. Obiettivo, poi, che è in linea con quanto emerso dal congresso di Praga del partito socialista europeo e coerente con l’autocritica pronunciata dall’on. D’Alema qualche giorno fa, lamentando l’abbandono della solida tradizione socialdemocratica da parte delle forze progressiste. Residuano, certo, le frange a diverso titolo massimaliste: Lega, Dipietristi e l’informe Sel, il partito di Vendola. Ora, se questi sono gli attori in scena non è affatto irrealistico che una forza che ambisca a rappresentare la tradizione della democrazia liberale sia lontana dalle alcinesche seduzioni della democrazia plebiscitaria e possa prediligere una alleanza programmatica con la democrazia sociale. Magari transitoria, ma certo motivata dal mettere in cantiere quella mezza dozzina di riforme strutturali sulle quali, pare, a parole tutti concordano ma che nessun sinora ha fatte.
Per far ciò, però, e lasciando da parte l’aritmetica dei voti che dimentica come in politica due e due non fan sempre quattro, il Partito democratico deve scegliere di avere almeno un nemico a sinistra se non due. Una piattaforma riformatrice non può esser fatta con l’estrema sinistra: non vi riuscì Schroeder in Germania, e non ci è riuscito Prodi per ben due volte in Italia.
Il nuovo polo di centro farà bene ad essere autonomo, ma non potrà essere equidistante. Non lo è dall’origine, visto che la maggior parte dei suoi parlamentari viene dalla sconfessione del polo di destra.
Dunque il confronto fra il polo di centro ed il Partito democratico è nelle cose. Il Partito democratico ha scelto da tempo una linea diversa da quella iniziale (quella del primo Veltroni al Lingotto, per intendersi). Il Partito democratico appare oggi dedicarsi più che altro al compito di mettere in sicurezza quanto resta della sinistra dopo il passaggio dal comunismo alla socialdemocrazia.
Un compito comprensibile, che peraltro sconta la rinuncia a proporsi come alternativa di governo sufficiente di per sé. Però di una alternativa all’attuale governo il partito democratico è parte non sufficiente ma necessaria.
«L’incontro fra Pd e il Centro è decisivo», scrivono Battaglia e Bianco. La loro affermazione è razionalmente fondata. È nella tradizione del riformismo che la buona volontà segua la voce della Ragione.
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