da Il Riformista
14 novembre 2010
di Stefano Cappellini
Difficile situazione, quella del Pd. È mortificante per il principale partito d’opposizione vedere Silvio Berlusconi, avversario di quasi un ventennio, a un passo dall’essere abbattutto e non avere un ruolo di primo piano in questo abbattimento.
Difficile situazione, quella del Pd. È mortificante per il principale partito d’opposizione vedere Silvio Berlusconi, avversario di quasi un ventennio, a un passo dall’essere abbattutto e non avere un ruolo di primo piano in questo abbattimento. Eppure è così: il partito di Pier Luigi Bersani appare in questo momento tagliato fuori da tutti i giochi.
a presentato una mozione di sfiducia al governo insieme all’Italia dei valori, ma se Berlusconi cade, nella percezione generale cadrà per mano di Fini, non del Pd né dell’opposizione. Per Bersani non ci sarà posto al tavolo dei vincitori se non saprà reinventare da capo una strategia. Quella che c’era, è superata. Il governo di transizione, ammesso e non concesso che veda mai la luce, è diventato affare tutto interno al centrodestra, dove - grazie alla solida sponda con Fini - è di fatto rientrato anche Pier Ferdinando Casini. I nomi che Fini ha fatto Bossi per la guida di un esecutivo alternativo all’attuale (Giulio Tremonti, Angelino Alfano, Roberto Maroni) sono concepiti in una logica di continuità della maggioranza, col solo allargamento all’Udc. E lo spauracchio del Pd non è solo quello di continuare a trovarsi all’opposizione:svapora giorno dopo giorno anche l’obiettivo di una Santa Alleanza elettorale di tutte le forze antiberlusconiane, non fosse altro perché questo cartello elettorale aveva bisogno, per nascere, proprio di essere preceduto da un esecutivo di responsabilità nazionale o quantomeno da un serio tentativo di metterlo in piedi. Solo così avrebbe potuto credibilmente presentarsi agli elettori.
«Senza di noi si tengono Berlusconi», ha detto ieri Bersani rivolto alle forze del cosiddetto Terzo polo. Dietro la spavalderia dell’affermazione traspare il grido d’aiuto, la conferma che il Pd si sente messo all’angolo, escluso dai giochi e dalle trame, e cerca di rientrarci “spaventando” Fini e Casini, ricordando loro che hanno bisogno di altra massa critica per essere sicuri che l’assalto finale al Cavaliere risulti vincente. Bersani potrebbe non avere torto, ma è chiaro che non parla da una posizione di forza. E il prezzo che il Pd rischia di pagare per la sua debolezza attuale è più grave che il rischio di non trovare posto in un nuovo esecutivo. Non c’è sbocco peggiore per Bersani che doversi rassegnare al voto anticipato - soluzione che resta ancora la più probabile - arrivandoci da terza forza. Non tanto nei numeri (i sondaggi, per quanti negativi, per ora non evidenziano un rischio sorpasso da parte del Terzo Polo) quanto nella sostanza. La prossima sarebbe la campagna elettorale di Fini contro Berlusconi.
In questo quadro, appare ormai surreale la contesa interna ai democrat sulle alleanze. C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui si poteva litigare se scegliere Fini, o Casini, o tutti e due. Ancora ieri Dario Franceschini rilanciava scenari di alleanze con il Terzo polo. Ma la verità è che le alleanze del Pd sono chiare e forzate: Vendola e Di Pietro. Una mini-Unione, più che un nuovo Ulivo. Un candidato premier ancora non c’è. Una speranza di vittoria elettorale - checché ne pensino i fedeli al culto di Terlizzi - neppure.
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